Epilogo

Siamo giunti alla fine di questa lunga cavalcata sulla montagna. Abbiamo scalato tutti i versanti, esplorato gli anfratti più nascosti, frugato in piccoli e grandi segreti. Siamo saliti sugli alti misteri delle vette, intrufolati nelle magie delle selve, nuotato nelle visioni liquide dei torrenti. E ora che crediamo di aver scoperto qualcosa, ci accorgiamo di poter offrire solo dubbi.

Nel tempo occorso a queste pagine, la montagna è cambiata ancora. Mese dopo mese. S’è circondata di altri segreti, altri misteri, profondità insondabili calate dalle vette. Speriamo qualcosa rimanga di questo lungo viaggio. Un giorno dovremo raccontare ai bambini le storie dei monti dimenticati, perciò è dovere conservare buona memoria. Per mandarla alle nuove generazioni, curando di tenerla aggiornata. Chi verrà dopo di noi, troverà una montagna diversa, indagherà segreti nuovi, col sogno, forse già diventato inutile, di trasmetterli ai bambini futuri. Se ci saranno bambini che avranno ancora voglia di ascoltare.

In quest’epoca frenetica di terzo millennio, la montagna cambia di continuo. Un poco a causa dei tempi meteorologici che la raspano invincibili. Molto per via dell’uomo che la sconvolge piegandola a interessi personali tradotti in moneta sonante. Per ottenere il suo scopo, la modifica cambiandole i connotati ogni mattina, come fosse argilla. Materia non da aggiungere, bensì da togliere. La montagna, ormai d’argilla, viene modellata, in negativo, deturpata per sottrazione. Come uno scultore incapace, toglie marmo o legno rovinando entrambi. Si passa un giorno da qualche parte e ci balza agli occhi un costone pieno di larici. La settimana dopo non esiste più, né lui, né i larici. Mossi dal dispiacere domandiamo: «Dov’è finito quel costone?». Qualcuno risponde con un’alzata di spalle: «Tolto di mezzo per fare una pista da sci». Ci si sente rispondere questo, nella più completa indifferenza, come se il fatto fosse ineluttabile e soprattutto di nessuna importanza. Oppure: «Deve nascere una sciovia, una seggiovia, la strada che mena alla casa di un ricco». E là, dove la strada servirebbe ad alleviare la vita grama della povera gente, non la fanno.

Occorre ricordare quella frazione nel nord dimenticato. Si chiama Forcai. Non vi si accede se non da un tratturo disagevole, la cassa del morto viene trascinata in paese con la slitta. In quei posti disperati la montagna grida vendetta. Il montanaro resiste. Piantando le unghie nel ripido chiede aiuto.

Nella terra dei dimenticati la vita è dura. Il montanaro chiama. La sua voce inascoltata cade nel vuoto, si perde assorbita da muschi e licheni. Tuttavia insiste, spera ancora. Non s’accorge che cerca la vita tra le cose morte. Soffia sulle braci spente di una speranza che tiene solo lui. La politica fallita, senza idee, arrogante e cinica, ha spento con secchiate di assenza quelle braci che non portano voti. Per quella gente, gli alberi sono oggetti da vendere. Nulla gli può fregare dei segreti delle montagne. Se li sfiorano rimangono ustionati. I colori d’autunno, i rumori di foglie secche, il sole anemico dell’inverno e le nevicate suonano per loro come avvisi di garanzia, mandati di comparizione, autorizzazioni a procedere.

Non consola sapere che in quella caldera di zucche vuote galleggia anche qualche testa di valore. Eppure tutti vanno in ferie in località famose dove la neve cade firmata. Una volta si diceva a villeggiare. Disdegnano i posti belli, privi di comodità e lussi. Non conoscono l’odore degli alberi morti, il grido della montagna povera, il silenzio dei paesi che si svuotano, le nebbie e i loro inganni. S’arrogano il diritto, e lo hanno, di emanare leggi per l’alta quota che sono quanto di più fasullo possa esistere. Viene da ridere ma sarebbe da piangere.

Non vi è stato un ministro dell’Ambiente, dicasi uno, in questa sgangherata Repubblica, che abbia capito un filo della montagna povera. Salvo inventare vincoli e pastoie che legano il montanaro intrappolandolo come uccello nella pania. E permettere scempi, cementificazioni, sottrazioni di terreno, disboscamenti, furti d’acqua e ghiaia.

Una volta, quando il vento e l’acqua avevano la luna storta, i montanari erano capaci di reagire, pronti a difendersi. Ora non hanno più forza. Anche lassù comincia a dilagare il cemento, l’acqua prende velocità, il vento decapita i tetti. Le cose non vanno come vanno ma come sono andate. Il male che oggi paga la montagna povera è figlio di politiche infami che da sempre hanno imperversato. È orfana di genitori viventi, quei genitori pasciuti e ben vestiti che sono istituzioni, politica dei numeri, lo Stato. Avessero un po’ d’orecchi per ascoltare il grido! E magari il coraggio e l’intelligenza di applicare gli articoli 3, 9 e 44 della Costituzione, le cose andrebbero meglio. Anche per loro. “Cura la montagna se vuoi salvare il piano” diceva Publio Virgilio Marone. Non servirebbe molto a migliorare la vita. Basterebbe imparare l’alfabeto dei minimi gesti, delle piccole cose che tengono in piedi il mondo.

Quando i boscaioli del passato alzavano le stue lungo i torrenti impetuosi, era sufficiente un cuneo per sostenere l’enorme manufatto. Le stue erano sbarramenti di tronchi, eretti tra due pareti rocciose. Servivano a creare una diga artificiale dentro la quale si accumulavano migliaia di metri cubi di legname. Una volta fatta crollare con un colpo di mazza, tutta la legna veniva trascinata a valle dalla potenza dell’acqua. A tener saldamente fissa l’intera diga, c’era soltanto un cuneo di maggiociondolo. Uno solo, piccolo piccolo ma essenziale. E uno solo doveva essere il colpo di mazza che lo scalzava originando il cataclisma di flutti. Spesso basta poco a sostenere la vita. Per tenere in piedi la montagna povera, basterebbe qualche cuneo qua e là, nei posti giusti. Una volta c’erano, li avevano piazzati i montanari con fatica, sapienza e rischio. Ma una politica inetta, fallimentare e cinica li ha fatti saltare. E non li ha più rimessi. Il discorso è vecchio e conduce a una sola conclusione: la montagna povera non merita investimenti né attenzione. Non porta voti ed è una palla al piede alla politica dei numeri. Questo ahimè non è un segreto, è l’amara realtà dei monti dimenticati.

Ormai sempre più spesso si vedono paesi ficcati tra i fianchi delle montagne come un pugno di chiodi arrugginiti. Case fatiscenti hanno finestre chiuse come occhi presi dal sonno. Camminando per le stradine di ciottoli, quasi più nessuno s’affaccia alle porte. Lassù la campana suona a morto, su alcuni campanili coperti di muschio non suona da anni. Da quando la gente ha fatto l’inventario della vita e detto addio. Sotto il sole d’autunno spiccano le ossa bianche della montagna scarnificata. Ha capito, stringe le braccia, trattiene più forte i segreti tra le costole smagrite.

Ma verrà ancora tempo buono, il tempo del riscatto. La politica, assente e muta, non può avvalersi ogni volta della facoltà di non rispondere. Prima o dopo dovrà rendere conto. Forse presto avrà bisogno di quei monti dimenticati per sopravvivere. Non come numeri e schede nell’urna, ma come fonte di vita, reddito, salvamento. Nella stanza dei bottoni, i comandanti dovranno diventare umili e imparare che anche loro fanno parte della montagna, del mare, delle remote pianure del mondo. Tutti siamo parte di tutto, nessuno può prescindere da nulla, nemmeno da un’ape o un filo d’erba. Quando muore un’ape o un filo d’erba è un danno, un po’ di morte per tutti.

Per andare al futuro bisogna ricordare e tramandare. I muscoli s’afflosciano, s’atrofizzano e scompaiono, non rimangono a insegnare come l’esperienza. Un vecchio boscaiolo non è più in grado di sollevare un tronco, ma con quattro dritte può istruire un giovane a farlo. Senza di lui non vi riuscirebbe. Se ci prova, confidando nell’irruenza della sua forza, è incauto. Rischia di farsi male seriamente. L’esperienza degli ultimi montanari artigiani sarà fondamentale per vincere in un futuro economicamente arduo da risolvere. E pure quella dei contadini delle campagne, vessati e massacrati dai politici fallimentari. I quali esperienza in materia di fallimenti ne hanno da vendere, per fortuna nessuno la compra. Ogni politico, infatti, ne fa buona scorta da subito. Arrogante e pieno di sé, preferisce farsela da solo, evitando di servirsi dei predecessori. E come già è stato detto, non aiuta sapere che dentro quel castello dorato sonnecchia qualche testa di valore.

Ma l’esperienza buona, quella fatta di terra e bosco espressa da montanari e contadini, verrà riesumata al momento opportuno e come bava di lumaca segnerà la via da percorrere. Quando piove sui boschi, in terra si vede la bava delle lumache. Va avanti lentamente e luccica come a segnare la via a qualcuno, ma nessuno sa a chi. È un altro dei segreti da scoprire. Di notte si può vederla, e dopo tanti saliscendi e giravolte, porta sempre a un rifugio sicuro. Lumache e chiocciole usano lentezza nella marcia e controllo di territorio. Sanno dove vanno perché conoscono e lasciano tracce per chi viene dopo. L’esperienza degli uomini di monte, in appennino toscano detti montanini, un giorno sarà come quella bava: lenta, sottile e tortuosa, fondamentale per arrivare alla meta.

La meta oggi non è più l’andata ma il ritorno. Ritorno al tempo buono delle cose che funzionavano. Può sembrare assurdo che il traguardo sia tornare indietro, anziché andare avanti. Come se un maratoneta in gara a un certo punto facesse dietrofront e puntasse verso dove era partito. Il traguardo è la partenza. In montagna è così: la meta è il ritorno, non la cima. In poche parole, arrivare a fondo valle con le proprie gambe. Una marcia all’indietro per riappropriarci delle perdute R. Che sono tre: Rispetto, Risparmio, Ripresa. Sulla montagna povera imperversa l’ingiustizia. L’ingiustizia prosciuga speranze, entusiasmo e amore. Chi la subisce non possiede armi per difendere se stesso e i suoi luoghi. L’ingiustizia è un frutto velenoso, un fungo letale, chi lo deve ingoiare suo malgrado non ha scampo. Ma forse qualcosa si muove.

La crisi che attanaglia la patria, quella dei poveri non dei ricchi, è un trasloco: qualcosa si perde senza scampo. Ma qualcosa, che credevamo perduta per sempre, la si ritrova. E così, impercettibilmente, qualche remota idea sepolta dai traslochi del tempo si sveglia e agisce. Il frammento di una vecchia canzone arriva dagli alti monti a mettere nostalgia agli uomini rimasti nei paesi: «Dobbiamo rimboccarci le maniche» dicono alcuni «o la nostra montagna se ne va». «Ma se non ci lasciano fare niente, sono quelli giù a Roma che comandano!» rispondono altri. I primi dicono: «Facciamo lo stesso, freghiamoci di quelli giù a Roma. Se non ci diamo da fare noi, nessuno lo farà e intanto la nostra montagna scompare». Il Cercatore ascolta. Ricorda.

Ricorda quando bambino i vecchi lo facevano correre fuori dalla stalla, ché la montagna di fronte era scappata via. Usciva con scatti felini ma lei era sempre là, immobile nella possente ombra notturna. Quando rientrava deluso, si sentiva dire che non era stato abbastanza veloce, nel frattempo la montagna era tornata al suo posto. In questo modo lo facevano correre dentro e fuori, e ridevano. Quei vecchi burloni ridevano del bambino ingenuo. Gli facevano credere che la montagna scompare. Non si rendevano conto, e mai avrebbero pensato, che dopo sessant’anni la montagna dove erano nati e invecchiati stava scomparendo sul serio. Non per capriccio suo o cataclismi della natura ma a causa di un manipolo di incapaci e delle loro leggi oscene. Le cose, anche quelle dette per scherzo, piano piano s’avverano. Dopo lungo tempo fanno il giro e ci appaiono davanti. Le profezie dei giochi innocenti, nate da inconsce percezioni dell’anima, prima o dopo diventano reali.

E così il Cercatore, a sessantacinque anni, vede davvero la montagna scomparire. La forma possente e misteriosa rimane, piantata saldamente nella terra. Sempre di più circondata di segreti e silenzi, boati e verità inconfutabili. Forse è giusto così. Ma la montagna incontaminata che conosceva lui, quella dell’infanzia ricca di scoperte, di entusiasmo per le cose essenziali guadagnate a fatica, non esiste più. Quella delle prime scalate, delle sorprese mozzafiato, dei segreti cercati a ogni costo è finita. Il canto dei falciatori al ritmo del martello sulla falce si è spento. I vecchi cinici e burloni, che lo facevano balzare fuori dalla stalla a cercare una sagoma che non c’era, senza saperlo avevano visto giusto. La montagna se n’è andata per davvero. È rimasto soltanto lo scheletro. Lei spera che gli uomini si fermino, la smettano di levargli carne, non ne ha quasi più. Se la lasciano in pace qualche decennio, tornerà al peso forma. Allo stesso modo che un bosco incendiato piano piano ricresce, la montagna strizzata risorgerà ad altra vita, metterà nuovi vestiti, si farà più bella di prima. Quello di risorgere dalle ceneri come l’araba fenice è uno dei misteri della montagna. La natura fa miracoli, piano piano guarisce le ferite che gli uomini le infergono. Ma non bisogna abusare della sua pazienza. Non più. È tempo di fermarsi, guardare indietro, calare l’occhio sulla scia di macerie lasciate nell’ultimo mezzo secolo. Il percorso dalla base alla vetta dello scempio è compiuto. Bisognerà scendere al piano, rinsavire e inventare idee per uno sviluppo che rispetti la montagna e i suoi abitanti.

Seduto davanti alla porta di casa, il Cercatore pensava alla vita. La vecchia casa dov’era nato, dove aveva trascorso infanzia e gioventù era vuota, non c’era nessuno ad accendere il fuoco nel camino. Guardava di fronte a sé. Le montagne erano sempre al loro nido, altre sbucavano lontane. Circondavano il paese coi profili conosciuti, il torrente borbottava laggiù, un corvo si posava sul faggio secolare. La contrada era morta, intorno silenzio. Il Cercatore non reggeva quel vuoto di solitudine, si alzò e se ne andò.

Ma un giorno, afferrato dalla malinconia delle cose morte, tornò alla sua casa. Stavolta si fece coraggio, aprì la porta ed entrò. La vecchia anta di larice mandò un gemito, dai cardini arrugginiti. Lasciò cadere la polvere degli anni. S’accostò al focolare. Sembrava più piccolo, rannicchiato su se stesso, freddo e muto come una tomba invernale. L’ultima volta l’aveva acceso sua madre, la sera prima di passare all’altro mondo. Aveva ottantasette anni. Morì d’improvviso, sul divano, stesa come un albero secco, svuotata dai tarli, abbattuta dal vento. Il Cercatore notò in un angolo un po’ di legna. Stava là da nove anni, pronta per quel fuoco del mattino che la vecchia non fece in tempo ad accendere. Il figlio decise di bruciare quegli stecchi e far danzare ancora una volta le fiamme nell’antica dimora. Li accumulò a castello e ci mise sotto l’accendino. Subito un denso fumo invase la stanza. Allo stesso modo che la memoria degli uomini dimentica le cose, anche il fuoco di famiglia aveva scordato come ardere. O forse era il camino, imbronciato di abbandono, a non volerne più sapere. Chissà. Sta di fatto che ci volle un bel po’ perché ai due tornasse il buonumore a farli funzionare come si deve. Il Cercatore si mise a sedere sul panchetto di legno che fu di suo nonno, quel larice di un metro e novanta che parlava poco. Al tepore di un fascio di stecchi incendiati, la vecchia cucina scricchiolò come se stiracchiasse le ossa. Le madie sussultarono, aprirono gli occhi con dei tec secchi e nitidi, come se tirassero le palpebre incollate dalle cispe del tempo. La cappa del camino si gonfiò di fumo e orgoglio lasciando cadere la fuliggine dalle pareti, screpolata dal nuovo tepore. La casa tornò a vivere ma la tristezza non se ne andò. Rimase tra i muri. Si fece da parte, come un’ombra discreta, ma non uscì. La tristezza non va via dalle case dei morti. Un fuoco si può riaccendere, come l’amore, le vite no, quando si spengono è per sempre. Accanto al focolare, le due finestre annerite lasciavano trapelare la sagoma della montagna. La stessa che i vecchi burloni per canzonare il bambino gli facevano credere che si spostasse. Quel picco di roccia incandescente al sole della sera ha un nome che rispecchia l’esistenza della casa abbandonata, vuota di ogni suono. Si chiama Cuor Nudo.

Il Cercatore ascoltava crepitare le fiamme. Pensava. Ripassava la vita, si poneva domande. Perché alcune pietre cadono di notte? Cosa vogliono dirci? Quando precipitano a valle con rimbombi e schianti nel cuore del buio, a chi parlano? Vogliono forse avvertire che caleranno le tenebre sul mondo? E i morti nemmeno si vedranno? Si udranno solo urla di terrore? Chi lo sa. Mentre quei quattro stecchi si stavano spegnendo, il Cercatore ricordava una notte lontana, quando fu costretto a dormire nell’antro appartenuto al misterioso tornitore volante. Era giovane allora, non immaginava che il tempo andasse così in fretta. Quella notte alla spelonca, gli parve udire una voce: “Cerca il libro” diceva “cerca il libro”. Non era sicuro di averla udita. L’aveva soltanto sognata? Chissà. Certezze non ne aveva. Ricordava, però, che sul filo dell’alba cantarono i forcelli e più in alto c’era la neve. Questo ricordava. Nient’altro. Intanto si chiedeva dove si celasse il misterioso libro. Il fuoco nel camino si andava spegnendo. Avrebbe voluto aggiungere altra legna, sotto la tettoia ce n’era ancora. Ma capì che non era il caso. Un fuoco ha senso mantenerlo vivo se la casa è abitata, un amore è corrisposto, un progetto vale la pena. Altrimenti è meglio lasciare che si spenga. Sentì un nodo serrargli la gola. Decise che sarebbe tornato a vivere nella vecchia casa, per restarci fino al giorno della morte. Forse non era lontana, meglio trascorrere gli ultimi anni nel nido d’origine. Quel pensiero lo confortò: se tornava lui, sarebbe tornato anche il fuoco.

Mentre organizzava i progetti del ritorno, lo prese un’insolita allegria. Quando sarebbe accaduto? E in che modo? Bastava decidesse, poteva essere l’indomani stesso. Sollevato dall’improvvisa tenue speranza, si mise a pensare al libro. “Cercalo” diceva la voce, quella notte su nella grotta. Ma dove? Che libro? E perché gli tornava in mente il sogno? E quella voce? Intanto pensava dove poterlo trovare, ma dal labirinto non usciva nulla. Quando l’ultimo stecco fu ridotto a cenere, la fiamma sparì. Un filo sottile di fumo azzurro salì lentamente lungo le tenebre del vecchio camino. Il Cercatore alzò gli occhi per seguire l’ultima esile traccia di vita che abbandonava la casa. E in quel momento capì. Aveva trovato il libro. La verità era sempre stata a portata di mano, e non se n’era mai accorto. Aveva trascorso l’esistenza all’arrembaggio di cime, si era sbronzato lungo la vita sregolata, aveva acceso falò e visto le scintille levarsi. Aveva superato il limite tra il fuoco e il bordo della notte. Di là stavano i fantasmi. Ed era ancora vivo. Aveva fatto il percorso dalla base della montagna fino alla vetta. Adesso vedeva. Nel mezzo, accumulato alla rinfusa, emergeva tutto quello che era capitato. Ora stava scendendo adagio, calpestando il cumulo di macerie disposte dal destino lungo la via. Era uno sfasciume.

Ma qualcosa di buono affiorava dal caos. Piccoli segni. Bandierine di qualche gioia remota spuntavano qua e là, a dire che forse ne era valsa la pena. Tra la partenza e il ritorno c’erano le stagioni, il picchio e gli alberi morti con tatuata sulla pelle la grafia dei misteri. C’erano i fiori di stecco, col loro profumo inebriante e i segreti delle montagne. Molte storie il Cercatore aveva udite, tante vissute, alcune fermate su pagine che il tempo avrebbe disperso. Altre, forse le più felici, dimenticate presto. Nonostante gli sforzi per tenerle a memoria, non esistevano più. Solo ogni tanto si palesavano, qua e là, epifanie di sogni lontani, qualcosa di bello che era stato. Ma se cercava il dettaglio esso svaniva come foschia nel sole. Seduto sul panchetto del nonno, passava in rassegna l’esistenza, una scalata che lo aveva condotto alle porte della vecchiaia. La vecchiaia sta in alto, sulla cima, non in basso. Per raggiungerla non basta essere alpinisti di ogni giorno. Occorre avere fortuna. La decadenza è rotolare da quella cima. Ora aveva capito. Stava leggendo il libro. Quello che la voce, o il sogno, gli dicevano di cercare. Era la sua vita quel libro, e quelle degli altri, i fatti del mondo e tutto ciò che era accaduto. Molte cose le ricordava. Erano storie che aveva scritto nell’illusione non andassero perdute, e invece erano già in via di estinzione. Storie di monti dimenticati, della sua montagna povera, dove la neve cade ancora bianca, e gli uomini resistono solo per amore. Il grande libro delle esistenze stava lì, sotto la cappa del focolare, rivelato da un filo di fumo che se ne andava lentamente verso il cielo. Nel suo andare avrebbe incontrato la montagna. Prima di sorpassarla e andare a perdersi nel nulla, le avrebbe rivelato una cosa. Ma lei sapeva già tutto. Laggiù, sul fondo della valle, in una casa abbandonata c’era un uomo accanto a un fuoco spento. Aveva reclinato la testa, s’era addormentato.

Voleva conoscere i segreti della montagna per conoscere se stesso. Voleva indagare i misteri della montagna per conoscere il mondo. Non è riuscito in nessuna delle cose. Ora dorme. Quando si sveglierà, penserà di aver sognato. Un sogno di speranza che gli infonderà nuovo entusiasmo. E allora si metterà di nuovo in marcia, a fare quello che ha fatto tutta la vita: cercare i segreti della montagna. Per il tempo che resta.

Erto, 6 marzo 2015

Ore 14.36. Termino questo romanzo se, con una certa pompa, si può chiamare così. È stato un lavoraccio, a un certo punto mi ero perso. Ho scritto una trentina di volumi, tutti incentrati sulla montagna, azzardarne uno specifico su di essa è stato un vero rischio. Però ora è finito e credo di esserne uscito indenne. Da quel che so, mi pare un buon lavoro, qualcosa da vendere senza vergognarmi troppo. E questo va benissimo. Non so scrivere capolavori, ho coscienza che i miei libri sono il peggio del mediocre, ed è una fortuna. Penso a quei disgraziati, zeppi di genio, producenti opere grandiose, che le case editrici mandano al macero dopo qualche mese di buone vendite e battage pubblicitario! Poveracci! Almeno io vengo macerato a ragione. Ovviamente dopo tre-quattro mesi di buone vendite. Evviva allora i tempi moderni dove mediocri e geni stanno sullo stesso piano! Ma i mediocri fanno meno fatica dei geni a partorire. Ecco dove sta il vantaggio. La genialità presume un certo sforzo, quindi meglio essere mediocri che immortali (1).