CLAUDIO

La vide proprio davanti all’ingresso della porta principale dell’ospedale, con un’aria smarrita che stemperava la sua bellezza un po’ altera, rendendola ancora più desiderabile. Alessia gli aveva dato appuntamento per le venti e trenta, dal momento che il turno terminava alle venti, e ovviamente Claudio era in ritardo. Quindici minuti, non un granché, ma per quello che era in pratica il primo appuntamento, potevano avere il loro peso e Claudio, azzardando un’inversione di marcia che gli attirò l’attenzione non benevola degli altri automobilisti, non appena la vide, si diede dell’imbecille.

Ma perché non riusciva mai a essere puntuale?

C’era sempre qualcosa che s’intrometteva nella sua programmazione, un intoppo che stravolgeva la sua meticolosa preparazione logistica. Si preparava per tempo, ma arrivava sempre in ritardo. Una specie di maledizione organizzativa, un sortilegio contro la sua capacità di pianificazione.

Va bene, diamo pure per scontato il karma dell’incaglio improvviso, ma mettere a repentaglio quell’incontro per la sua, e si abbia il coraggio di dirlo, flemma meridionale era veramente da idioti. Quella ragazza era adorabile! Era diversa, la sera prima l’aveva proprio stregato.

Innamorato?

Quella parola faceva un po’ paura anche se, sentendosela rigirare nel cervello, pareva quasi evocare un bisogno.

Di storie senza senso se non addirittura balorde, Claudio ne aveva avute parecchie. Non era difficile mettersi con una ragazza, problematico era restarci. A volte addirittura era impossibile rimanerci nel letto per tutta la notte dopo aver fatto l’amore. Non che non fosse piacevole o divertente, ma cominciava a non bastare più.

Sarebbe stato diverso con Alessia?

Già il fatto di non avere fatto sesso, ma di essere rimasti a parlare per gran parte della notte era una differenza. Erano stati bene insieme e la buonanotte con un casto bacio sulla guancia era stata la chiusura perfetta di una serata perfetta. Una specie di promessa, come un regalo da aprire.

Sarebbe riuscito ad aprirlo quel regalo?

S’erano sentiti verso le due, appena rientrato dal mercato. Claudio l’aveva chiamata in ospedale e aveva avuto l’impressione di essere atteso.

Un po’ l’avevano buttata là quando si erano lasciati la sera prima: «Perché non usciamo a cena domani?», «Uh, dopo la guardia sono un disastro…» aveva risposto lei, ma era stata una cosa così, giusto un’ipotesi per un domani possibile, una specie di augurio che non sarebbe finita lì, niente di più.

Invece quando quel pomeriggio gliel’aveva chiesto al telefono direttamente, subito dopo i convenevoli di rito, l’assenso di Alessia era arrivato chiaro e preciso. Senza tentennamenti e, lo si capiva dall’intonazione, la stessa voglia di rivederlo che aveva lui di lei. Non ci si poteva sbagliare, anche se, bisognava ammetterlo, lui era un po’ rintronato dalla pennichella che, a dispetto dei suoi programmi, era durata più del previsto. E dire che avrebbe dovuto studiare. Per fortuna c’era ancora la domenica…

Vedere quegli occhioni che scrutavano nel buio alla sua ricerca gli confermò l’impressione avuta al telefono. Alessia lo stava aspettando, e in quell’attesa gli pareva ci fosse più ansia che dispetto.

Buon segno.

Claudio inchiodò la macchina a filo del marciapiede dove la ragazza lo stava attendendo e si scaraventò fuori buttandosi in ginocchio ai suoi piedi, come un musulmano rivolto alla Mecca.

«Perdono, mia signora! Inqualificabile ritardo del suo umile servitore. Quante frustate saranno sufficienti a lavare la mia colpa?»

Mentre la gente intorno si allontanava da quel pazzo precipitatosi fuori dall’automobile temendo, vista la postura, un improvviso “Allah Akbar!” e conseguente botto assassino, Alessia scoppiò in una risata.

Fresca, spontanea, argentina. Un piacere per le orecchie!

Fai ridere una donna e troverai aperta la via del suo cuore. Mah, insomma, forse questa massima se l’era inventata lì per lì, ma l’esperienza gli aveva insegnato che riuscire a far ridere una donna è sempre un buon inizio, e neppure quella volta venne smentito.

Alessia lo raccolse da terra, lo abbracciò stretto e con quel sorriso che avrebbe fatto sognare il più disincantato degli individui si infilò in macchina dichiarando:

«Ho una fame da lupo!».

Claudio aveva scelto un locale molto intimo. Pochi tavoli, ben distanziati tra loro, luci basse e cucina a tasso medio di creatività. Non quegli azzardi a microporzione dei superchef che, una volta raggiunta la notorietà mediatica, si trasformano da cuochi in maestri di pensiero, riuscendo a rifilarti a peso d’oro pochi grammi di alimenti conditi da un’infinità di sciocchezze pseudofilosofiche. Neppure però una di quelle banalità che cercano di accreditarsi come cucine pseudo-regionali con tanto di timbri e sigle garantite da associazioni e presidi territoriali. Insomma, un posto di buon cibo ma che riusciva a ricordarsi che i commensali hanno la priorità rispetto alle pietanze. E dunque un locale dove le parole potevano essere sussurrate e ascoltate senza eccessive interferenze.

E Claudio e Alessia parlarono fitto fitto, come se ciascuno avesse trovato nell’altro l’interlocutore atteso da sempre.

«E con il prof. de Alessandri come ti trovi?» buttò lì a un certo punto Alessia, con nello sguardo un pizzico di sottile, ma benevola, ironia. «Si dice che tu sia il suo cocco.»

«Cocco?» rispose Claudio, arrossendo come uno scolaro scoperto innamorato della maestra. «Dài, non esageriamo… De Alessandri è un grande chirurgo…»

«E tu non sei il suo cocco?» ribadì Alessia, perdendo il sarcasmo a favore di quella dolcezza tipica delle donne che tende sempre a prevalere quando si rivolgono ai preferiti: sposi, figli, amanti che siano.

Confortato dal tono della ragazza, Claudio proseguì:

«Be’, diciamo che fortunatamente mi ha preso a benvolere. E con lui ho la possibilità di imparare bene e in fretta. Mi lascia spesso operare ma, a differenza di molti altri, non mi molla da solo. Rimane lì, è pronto a correggermi, a consigliare, a osservare. Per noi chirurghi non è semplice trovare un vero maestro».

«Sì, però con quel carattere che si ritrova…»

«Certo, è uno che pretende. Che ti schiavizza, anche. Stare con lui vuol dire essere al suo servizio, disponibili sempre al cento per cento e…»

«Anche farsi trattare da zerbino, però. L’ho sentito in sala operatoria fare di quelle sceneggiate ai suoi, che c’era da vergognarsi.»

«Sì, è così, spesso esagera. Quando c’è un problema o si trova in difficoltà, dà in escandescenze, non si controlla, se la prende con tutti. A volte pure a torto. Però è anche vero che la tensione è sempre a mille, e lui ha delle responsabilità che…»

«Che gli altri non hanno, vuoi dire?» lo interruppe Alessia. «Come gli anestesisti, che sono messi lì solo per compiacere il chirurgo, il dio della sala operatoria, quello che sa, fa, decide e dispone di tutti?»

«Ma no, dài, non volevo dire questo. Solo che il chirurgo…»

«Già, il chirurgo! Come dire il re! E tutti gli altri sono sudditi. Caro il mio Claudio, siete tutti uguali voi chirurghi, egoriferiti e ambiziosi come nessun altro. E se poi avete un po’ di successo non esistono più limiti, tutto è permesso.»

Il broncio che apparve sul viso di Alessia la rese ancora più adorabile. Ma Claudio, pur restando incantato di fronte a quella ragazza, si rese conto di essersi andato a ficcare dentro una discussione troppo pericolosa. Doveva venirne fuori subito.

«Ma il tuo capo invece com’è? Non mi pare meno pieno di sé del de Alessandri.»

«Ti riferisci al professor Freguglia?»

«Sì, non è lui il primario anestesista?»

«Ah, quello…e chi l’ha mai visto? Lui organizza, gestisce, sempre in riunione a parlare, parlare, parlare. Se hai bisogno, puoi stare sicuro che non c’è. In sala operatoria non viene mai. Dei malati non si occupa, non ha tempo da perdere, lui…»

«Ollallà, mi sembri piuttosto critica.»

«Ma no, guarda, c’è poco da criticare. Noi Freguglia non lo vediamo mai. È uno da stanza dei bottoni: efficienza, ottimizzazione, strategie, quelle cose lì. È un dirigente d’azienda al servizio del direttore generale. Se si occupasse di automobili invece che di malati sarebbe perfetto. Solo che noi non ci occupiamo di automobili…»

«Sento una certa amarezza…» disse Claudio prendendo la mano della giovane collega.

«Ma no… forse solo un po’ di disillusione. È che quando incominci a fare questo mestiere pensi che i malati siano l’assoluta priorità. “Il paziente al centro della cura” adesso è lo slogan di moda tra tutti coloro che vogliono darsi una patente di eticità. Ma sappiamo benissimo che al centro c’è tutt’altro. Ambizione, carriera, guadagno, fama, addirittura scienza, ricerca e progresso, e questo senza voler andare a pescare nel torbido. C’è comunque sempre un ego e mai un tu al centro. E forse non potrebbe essere altrimenti, ma sarebbe già molto ammetterlo, senza nascondersi dietro tante manfrine.»

«Non credi di esagerare?»

«Mah, forse… non so. Però quando penso a personaggi come Freguglia…»

«Be’, non ci sono solamente quelli come lui.»

«Sì, hai ragione. Per fortuna no. Ma quelli che contano sono molto simili a lui. Prendi invece Ettore Rossi, ad esempio: conta poco pur essendo bravo, capace ed esperto. Sicuramente più di Freguglia.»

«Ah, il Rossi… certo, in quanto a carattere non scherza neppure lui. Ombroso, lunatico, quando gli girano è meglio lasciarlo stare. E poi dici del de Alessandri…»

«No, Claudio, sono diversi. Sono d’accordo che anche il dottor Rossi non si può definire una persona di buon carattere, alla mano, o anche solo particolarmente simpatica. Hai detto bene, è ombroso, lunatico, se lo pigli con la luna storta ti viene voglia di mandarlo a quel paese, ma non è artificiale come il tuo professore.»

«Scusa? Non capisco» fece Claudio prendendole la mano tra le sue. Quel contatto lo riscaldava, lo faceva stare bene. E dal momento che Alessia non si tirava indietro si poteva facilmente concludere che la cosa non le era sgradita.

«Ma sì, dài,» proseguì lei «il de Alessandri non fa mai nulla per caso, ha sempre un fine, non è mai spontaneo. Non sai mai come la pensa veramente. È… è come se calcolasse ogni sua azione, non è mai naturale, ecco… Anche quando si lancia nelle sue sfuriate, sta bene attento con chi se la prende. Non capita certo che faccia scenate con quelli che contano, puoi stare sicuro, s’incazza sempre coi sottoposti. E tu, non hai la sensazione che si approfitti di te? Che ti utilizzi?»

«Vabbè, sta nell’ordine delle cose. Lui mi sfrutta, ma intanto io imparo. E apprendere da uno come il de Alessandri non capita spesso, sai?»

«Ma non metto in discussione le sue capacità tecniche. Parlo di altro. Parlo di cuore…»

«Di cuore? Non male per un cardiochirurgo.»

«Non fare lo stupido!» Alessia ritirò le mani da quelle di Claudio e si mise a braccia conserte con l’espressione imbronciata. Quella faccetta lo faceva impazzire.

«Dàì, scherzavo,» fece lui avvicinando la propria sedia a quella di Alessia «era troppo ghiotta come battuta… ma credo di capire cosa vuoi dire.»

«Scemo…» disse lei guardandolo da sotto in su. Poi gli accarezzò il viso, come si fa con un bambino discolo ma amato al medesimo tempo. Claudio si sentì sciogliere a quel contatto.

Ma che gli stava capitando? Era forse un adolescente rincitrullito?

«Quando Rossi ti riprende, o ti fa notare un tuo sbaglio, o magari ti fa anche una partaccia, capisci che non vuole colpire te. Ma lo fa perché gli importa, perché non vuole che tu faccia errori, perché si rende conto che una nostra svista, una dimenticanza, un’imprecisione arreca sì danno al paziente, ma anche a noi stessi. È come se ti volesse proteggere. È come se ti correggesse uno che ha fatto di suo molti errori. Sa cosa significa perché c’è già passato prima e ti vuole preservare.»

Una punta di gelosia trafisse la condizione estatica di Claudio. Quella ragazza adorava Ettore Rossi, c’era poco da fare.

«Insomma, Rossi è una specie di guru!» replicò Claudio, pentendosi immediatamente delle sue parole. Stava rischiando grosso.

Alessia si mise a fissarlo. I suoi occhi scrutatori sembravano andare a scavare nel profondo, a cercare sotto quella scorza fatta di simpatia, fascino e canzonatura un terreno più solido fatto di comprensione, fiducia e consapevolezza. Un qualcosa come un “mi posso fidare”, una porta da oltrepassare per sentirsi al sicuro. E Claudio percepì quello sguardo, ne sentì la profondità, come esposto a una risonanza magnetica per sentimenti.

Era un esame: negli anni di studio il giovane chirurgo ne aveva passati tanti, ma raramente aveva così ardentemente sperato in un buon esito come in questo caso.

«Forse guru è una parola grossa,» riprese con calma Alessia recuperando la mano del giovane «anche perché il dottor Rossi non ha alcun desiderio di comunicare chissà quale verità, né, tantomeno, schivo com’è, il bisogno di avere discepoli da ammaestrare. Ma, sicuramente, a me, con i suoi consigli, il suo esempio e i suoi rimproveri mi ha insegnato molto. Direi che mi ha insegnato, o meglio mi ha fatto vedere, dal momento che imparare è molto difficile, una cosa fondamentale nel nostro lavoro.»

Davanti al silenzio concentrato nello sguardo curioso di Claudio, Alessia proseguì:

«Mi ha mostrato il giusto atteggiamento da seguire».

«L’atteggiamento?» riprese Claudio.

«Sì, sembra una cosa scontata, banale, magari un po’ retorica, ma quando ci rifletti seriamente capisci che non è così.»

«Continua» disse Claudio stringendo la mano di Alessia. Si sentiva in pace come raramente gli era accaduto.

«Quando noi usciamo dall’università con i nostri titoli e le nostre conoscenza, ci sentiamo un po’ come dei cavalieri che partono per la loro missione. Salvare i miseri dal loro dolore, nel nostro caso la malattia, a tutti i costi, impegnandoci allo spasimo nella lotta contro il male, la malattia appunto, come se la battaglia fosse tra noi e quest’ultima.»

«Be’, sì, è una immagine un po’ romantica della nostra professione, ma sostanzialmente è quello che facciamo. Non è così?»

«Sì, è proprio così, salvo per quelli che fanno questo mestiere con motivazioni meno nobili, ma nemmeno noi siamo nel giusto. Già, sembra assurdo ma l’errore è proprio questo: pensare che la battaglia sia fra noi e la malattia. Questo modo di pensare, per quanto possa apparire generoso, quasi eroico, è sbagliato.»

«Perché?»

«Perché taglia completamente fuori il malato, il paziente, o la “persona”, come spesso molto ipocritamente si usa dire oggi. Non siamo noi che ingaggiamo la lotta, sempre ammesso che di lotta si possa parlare. Chi combatte è lui, il malato, non noi.»

«E allora?»

«E allora perché non proviamo a pensare tutte le volte che decidiamo qualcosa, che adottiamo una certa tecnica, che proponiamo una soluzione, che comunichiamo una diagnosi o forniamo una spiegazione, se al posto del malato x o y ci fossimo noi, cosa faremmo? Cosa vorremmo fosse fatto, detto, provato, proposto a noi? Se sdraiato sul letto di corsia, sul tavolo operatorio, nell’ambulatorio davanti a noi ci fossimo noi stessi o i nostri cari, come agiremmo? Faremmo lo stesso? Proprio uguale uguale?»

Gli occhi di Alessia gli si piantarono in viso come a cercare nella sua risposta la caratura dell’interlocutore.

«Be’…» sussurrò Claudio.

«Già,» disse Alessia «proprio “be’”.»

«Difficile…» commentò quasi tra sé Claudio «deve essere un bel tipo il tuo dottor Rossi…»

«Diciamo che ha un suo spessore.»

Claudio sorrise e avvicinò ancora un po’ la sua sedia a quella di Alessia.

Le parole di lei lo avevano colpito, era come in balìa di quella ragazza. Non che la cosa gli spiacesse, ma era la prima volta che gli capitava e, in tutta sincerità, si sentiva un po’ idiota. Quella donna gli piaceva da morire.

«Vabbè, dài,» provò a sbloccare la situazione Claudio «ma dobbiamo proprio parlare di lavoro?»

Il cameriere aveva appena portato via i piatti del dolce.

«No,» disse Alessia «credo che se ne possa fare a meno. Lasciamo perdere il lavoro…»

«E quindi?»

«Cosa aspetti a baciarmi?»

E il sorriso di Alessia gli esplose nel cervello come una bomba all’idrogeno.

Quella donna gli piaceva da morire.