ETTORE

Non aveva più l’età per queste cose!

Questa era la riflessione che, come un tormentone, girava in testa ad Ettore Rossi dopo che, uscito dalla sala operatoria, aveva accompagnato il paziente, il redivivo Sergio Gandini, in Terapia intensiva, per affidarlo alle cure dei colleghi di turno. Aveva raccontato tutto il dramma intraoperatorio, dato le consegne, concordato le terapie. C’era solo da aspettare il corso degli eventi che, senza peccare di eccessivo ottimismo, si prevedevano favorevoli. Ma quello che Ettore non aveva detto era che, veramente, ne aveva abbastanza.

Quella battuta, quella di essere fuori limite anagraficamente per quel mestiere, ripetuta mille volte un po’ per far ridere, un po’ per ingenua vanagloria, stava diventando una realtà sempre più concreta.

Quel lavoro gli faceva sempre più fatica. Quella routine per lo più monotona e noiosa che, improvvisamente, veniva violentata da repentini imprevisti catastrofici, come l’inaspettata rottura dell’aneurisma di quel Gandini. Ma in altri scenari avrebbe potuto essere un’aritmia maligna, uno shock anafilattico, un’embolia polmonare o qualsiasi altro di quegli eventi avversi che il destino si diverte – e se non si divertisse, mica sarebbe così ingegnoso nell’inventarseli – a disseminare nel percorso, altresì ben pianificato, di un qualsivoglia intervento chirurgico. E la catastrofe per lo più significava la possibilità della morte e poco importava che spesso, come proprio quella mattina, la si fosse scampata e il lieto fine avesse schiarito l’orizzonte. La paura, la tensione, quel senso di impotenza e di fragilità, il timore di non farcela, di non essere all’altezza, di soccombere al destino e alla propria inadeguatezza erano le stesse: lieto fine o meno.

E poi sempre quell’odore di morte in agguato, quel perenne ricordare la nostra provvisorietà, quella sempiterna scommessa esistenziale che ti rammenta che se sei vivo è solo perché i dadi sono rotolati dal lato giusto.

Basta, Ettore ne aveva proprio abbastanza.

Era troppo vecchio per sopportare ancora.

Ma perché non aveva fatto il ragioniere? O l’uomo d’affari? O il salumaio? Affettare i prosciutti non l’avrebbe costretto quotidianamente a riflettere sulla precarietà dell’esistenza – almeno non di quella degli esseri umani.

Ma, a proposito di prosciutti – dopo tutto quel bailamme che s’era svolto in camera operatoria, la vita indossava nuovamente le vesti della banalità –, Ettore realizzò di avere fame. Era giusto l’ora di pranzo e un salto in mensa lo poteva proprio fare.

Ripassando davanti alle camere operatorie, accanto al distributore automatico del caffè, vide Stefania, in borghese, che stazionava impaziente davanti alla macchinetta. Quei dispositivi gli davano sempre l’impressione di isolotti per naufraghi: c’era sempre qualcuno, e spesso più di uno, che s’aggrappava a questi alla ricerca di una sosta dal turno di lavoro. Una scusa per fermarsi un attimo e sfuggire, con un sorso di caffè o surrogati, ai marosi della routine della professione. Ma Stefania non pareva in cerca di una pausa, sembrava piuttosto una che non vede l’ora di abbandonare il suo scoglio.

«Olà, Stefania…» disse Ettore a mo’ di saluto. E rimase abbagliato dal sorriso che la ragazza gli rivolse.

Quella era la felicità!

«Come siamo belle…» proseguì con un po’ di galanteria l’anestesista «mi sembra piuttosto contenta.»

«Oh, dottor Rossi, è andata proprio bene oggi, siamo stati fortunati.»

«Ah, ecco il motivo… be’, ha ragione. È andata… sì, siamo stati molto fortunati, però, dài, possiamo dirlo… eh…»

«Be’, il professor de Alessandri…»

«Il professor de Alessandri, il professor de Alessandri… sì, vero, è un grande chirurgo, ma se non avesse avuto una strumentista come lei sarebbe ancora in sala operatoria… magari a contemplare un morto.»

Dette queste parole, Ettore ebbe paura che Stefania esplodesse. Già, perché si può esplodere anche per la gioia.

«Naaa, dottore, non dica così, ho solo fatto il mio dovere…»

«Stefania, Stefania… la falsa modestia non è una virtù. Lei è stata molto brava oggi, e lo sa anche lei. Questo lavoro lo sa fare bene, tutti l’apprezzano.»

La fretta della strumentista sembrava svanita.

«E poi lo sappiamo bene, il nostro è un lavoro d’équipe, e solo con un’équipe capace e affiatata è possibile ottenere dei risultati eccellenti. Solo con il contributo di tutti si può ottenere il massimo. Un perfetto ingranaggio dove ogni meccanismo si appoggia a quello adiacente.»

Ma come stava parlando? Sembrava un cattedratico all’apertura dell’anno accademico: sussiego e benevolenza, un cocktail vincente per pigliarsi il plauso dei convenuti. Un vero ipocrita. Ma non ce la faceva a smorzare la soddisfazione di quella ragazza, perché lei sì, si sentiva parte di un ingranaggio perfetto che aveva determinato la salvezza del paziente. Ne palpava la consapevolezza, la soddisfazione, sia per l’esito fausto che per il sentirsi membro di una squadra vincente.

Povera piccola. Cosa avrebbe dovuto dirle? Che avevano avuto soltanto fortuna? Che comunque il merito dell’intervento portato a buon fine sarebbe andato solo al de Alessandri? Era lui il curante del Gandini, che non sapeva neppure cosa fosse una strumentista, lui il salvatore. La storia era sempre quella. Che l’unione, l’accordo, l’armonia dell’équipe non erano altro che un’illusione? Che dopo i baci e gli abbracci della sala operatoria, i grazie e le pacche sulle spalle, ognuno avrebbe preso la propria strada totalmente indifferente a cosa ci potesse essere su quella del proprio compagno? Cosa sapevano gli uni degli altri?

Vivevano condizioni estreme, emozioni al limite, stress spaventosi ma poi, una volta usciti dalla gabbia sterile, si disperdevano, ognuno nelle proprie storie, come se nulla fosse mai successo. E dei baci, abbracci, grazie e pacche sulle spalle anche quella volta non sarebbe rimasto neppure un ricordo. Questa era la realtà. Ma poteva dirle questo? No, non davanti a quegli occhi che brillavano, a quella incontenibile contentezza, a quella bellezza un po’ fragile che, chissà perché, un po’ lo inteneriva.

Aveva come la sensazione che la felicità non fosse proprio di casa nella vita di quella ragazza, e dunque non era certo il caso di smorzare gli entusiasmi col suo cinico realismo. In fondo avevano portato a casa una grande vittoria: anche se non se ne sarebbe accorto nessuno.

«No, è stata proprio brava. È sempre un piacere lavorare con lei…»

«Grazie dottore, è molto gentile… ma, cielo, sono in ritardo pazzesco, devo andare a prendere i gemelli! Mi scusi, ma devo scappare, a domani…»

«Vada, vada. Tanto siamo sempre qua…»

Ettore vide la ragazza fuggire via, con la sensazione di essersi perso qualcosa. Ma questa era ormai una sensazione che non lo abbandonava mai.

Dove era rimasto? Ah sì, la mensa, doveva scendere.

Fu proprio di fronte alla porta dell’ascensore che Ettore venne raggiunto dalla voce. C’era un problema nello studio dei chirurghi vicino alle sale operatorie… qualcosa di grosso… s’era sentito male qualcuno dei medici…

Il primo impulso fu di far finta di niente. Non era di turno, non era un problema suo. Per quella giornata aveva già dato, che se la sbrigassero gli altri, non aveva appunto appena ribadito di non avere più l’età per certe cose?

Purtroppo non si può sfuggire se stessi, e Ettore si ritrovò a fare le scale di corsa diretto sul luogo dell’emergenza.

Entrando nello studio medici, lo spettacolo fu peggiore di qualsiasi aspettativa.

Per terra c’era un corpo esanime, attorno al quale si davano da fare l’anestesista di servizio e tre o quattro infermieri. Inginocchiato a lato c’era il giovane Improta con lo sguardo fisso su quello che a tutti gli effetti sembrava un cadavere. Solo che quel cadavere aveva le fattezze di Federico de Alessandri, quel Federico, il collega, lo stimato chirurgo, il rompicoglioni, l’arrogante, il maniacale, l’amico di tempi migliori, il sodale di tante scorribande a rapinare esistenze alle grinfie della malattia e della morte. Insomma, disteso per terra, c’era una parte di sé. E questa consapevolezza modificava non poco la situazione. Bisognava tentare l’impossibile.

Ettore si unì al gruppo dei soccorritori con l’autorevolezza dell’esperto e l’entusiasmo un po’ incosciente del novizio. L’anestesista all’opera fu ben lieto di lasciare spazio al dottor Rossi, non solamente perché ne riconosceva l’esperienza e le qualità professionali, ma perché Ettore era ben noto per non sfuggire alle responsabilità. Il che voleva dire, per Rossi, che inserirsi in quell’équipe, dove il capo era un anestesista ben più giovane di lui, significava attribuirsene gli oneri, sia in termini clinici, che legali e, soprattutto, etici. Il che, dato il grosso calibro di quell’insolito paziente, non era cosa da poco. Gli uomini non sono tutti uguali, e i pazienti nemmeno: solamente uno stolto o uno in malafede può sostenere il contrario.

Ma al sollievo del giovane medico si associò una certa perplessità. Come un’idea che quel collega esperto non avesse bene capito la situazione.

«Oh, Rossi, meno male che sei qui anche tu… La situazione è persa. Noi lo abbiamo trovato già così, l’arresto cardiaco non è databile, il suo assistente lo stava massaggiando, senza ventilarlo, e non ha saputo dirci se ha avuto un accenno di risposta al suo soccorso. Io, per scrupolo, l’ho intubato lo stesso, ma è in asistolia, ho già fatto un’adrenalina ma senza esito e…»

Come se le parole del collega fossero un rapporto routinario, senza alcun impatto sulla situazione del momento, Ettore annuì con il capo e prese a dirigere il gruppo dei soccorritori.

«Dàì, datemi da incannulare la succlavia e preparate cinque fiale di adrenalina. Continuate a massaggiare e ventilare, forza. Fate portare dalla Terapia intensiva l’ecocardiografo, due pompe siringhe e un pacemaker. Svelti…»

E con una caparbietà che incuteva più rispetto che stupore si mise a trafficare intorno al paziente continuando a istruire i suoi collaboratori.

Ma l’impressione che ebbe il giovane anestesista, che pure si assoggettò di buon grado – dopo tutto aveva ceduto volentieri il ruolo di coordinatore del soccorso – alle direttive del dottor Rossi, fu quella di osservare una specie di automa che, seppure preciso e perfetto nelle manovre, fosse privo di qualsiasi emozione, determinato a mettere in atto le funzioni per cui era stato programmato, indipendentemente dal senso, dall’opportunità e, soprattutto, dall’assenza di risultati che queste ultime potevano generare.

Il medico però si sbagliava.

Perché seppure i gesti e le procedure che Ettore metteva in pratica erano guidati da quasi quarant’anni di mestiere, provate e riprovate migliaia di volte e quindi garantite da quella sicurezza con cui riesce a muoversi un cieco su un percorso usuale e immutato, era proprio un’emozione che forniva al dottor Rossi quella ostinata, se non irragionevole, risolutezza.

Ed era un rancore, profondo, nascosto che col passare dei secondi montava in una collera esasperata, irrazionale, e proprio per questo, incontenibile, assoluta, inestinguibile. Un furore che offuscava tutte le altre funzioni razionali, permettendo libero accesso unicamente alla memoria tecnica di tutto quanto potesse essere messo in atto per strappare alla morte la vita di un essere umano. Un’ira contro quel tragico presente, contro il destino, contro quel Dio che appariva e spariva dalla sua vita come la pietra filosofale da quella degli antichi alchimisti. Perché la crudeltà beffarda di quell’evento, l’assurda inutilità, il totale nonsenso di quel decesso gli gridavano dentro una vendetta che non poteva non essere consumata. Quell’uomo non poteva morire! Che logica c’era in quella morte?

Federico de Alessandri era un grande chirurgo, uno che avrebbe potuto aiutare ancora tante persone, uno che si manteneva in forma, ancora nel pieno vigore dell’età matura… ma soprattutto uno che aveva ancora progetti e speranze. Uno che vedeva ancora delle possibilità, ben lontano dal gettare la spugna.

Cosa che Ettore avrebbe fatto molto volentieri. E invece si trovava ancora lì, invischiato nella perenne battaglia della sopravvivenza, una battaglia che come individui siamo destinati a perdere.

Sempre.

Ma non così.

Così non c’era alcun significato.

Avevano appena vinto il combattimento per tirare fuori un paziente dalla camera operatoria. Cos’era dunque? La morte che si pigliava la sua soddisfazione? S’era offesa quella stronza e richiedeva il proprio appagamento? Ma lui non gliel’avrebbe dato, cazzo no, non gliel’avrebbe dato.

E poi c’era il bambino. Quel figlio piccolo che Federico aveva avuto dalla moglie giovane. Quella era proprio la fiducia nel domani che aveva Federico. Non l’avrebbe certo fatto se avesse pensato di poterlo lasciare orfano: non era da lui. Ed ora il destino l’aveva preso in giro così.

Maledetto!

Arrovellato da questi pensieri, consumato da una rabbia che accresceva a ogni tentativo infruttuoso di recuperare da quel corpo un po’ di vita, Ettore Rossi tentò tutte le possibili risorse terapeutiche a sua disposizione.

Fu un’ora frenetica, tesa, imprecante, dove il medico, aiutato al massimo dalla sua équipe, tentò l’impossibile. Ma l’esito era già deciso e la furia di Ettore si schiantò contro l’indifferenza della sorte, impotente, come sempre lo è la collera degli uomini contro il fato. Insistere l’avrebbe solamente tramutata in follia.

«Fermi, basta è finita… la chiudiamo qui, non c’è più niente da fare…» comunicò Ettore ai suoi collaboratori, staccandosi dal cadavere del collega.

Il giovane anestesista fece un sospiro.

«Hai fatto tutto quello che potevi Ettore, anche di più.»

Forse in quel “anche di più” c’era anche un velato rimprovero: l’inutilità di tutti quegli sforzi avrebbe dovuto essere palese anche a un medico molto meno esperto di Ettore. Quest’ultimo però non replicò, si limitò a guardare il collega, convincendosi che qualsiasi spiegazione sarebbe stata inutile. Magari con l’esperienza un giorno avrebbe potuto capire, ora sicuramente no. L’entusiasmo giovanile procura sempre delle ragioni che sembrano l’incarnazione della Verità.

Lasciando ai propri collaboratori le incombenze che ogni decesso ospedaliero porta con sé, Ettore si avvicinò al dottor Improta, balzato in piedi a protestare contro la decisione di interrompere il soccorso. Più che una protesta, sembrava un’implorazione, come un pianto profondo che si levava contro l’ingiustizia del mondo. E di fronte al pianto, tanti anni di comunanza col dolore avevano insegnato al dottor Rossi che l’unica risposta è l’accoglienza.

Abbracciò il giovane collega.

«Mi spiace…»

Furono le uniche parole che riuscì a pronunciare.

Una specie di ammissione di colpa, ma non tanto professionale, quanto esistenziale. Come un senso di inutilità. Perché l’ira che aveva sostenuto fino adesso quella battaglia stava svaporando, lasciando il posto a un’amarezza altrettanto profonda, un senso di sconfitta degli uomini contro gli dei, l’accettazione dell’evidenza che la condizione umana è sempre e solo una sudditanza.

Separandosi dal giovane Improta, Ettore, senza più parlare con nessuno uscì dalla stanza. Aveva bisogno di andarsene, di lasciare l’ospedale, di fare una sosta da quella giornata, da quel mestiere, da quella vita. Quella quotidiana comunanza con la morte a volte diventava insopportabile, era necessario dimenticare, scappare, piantare tutto. Forse bisognava fuggire da se stessi.

Una possibilità che offre soltanto la morte.

Ettore Rossi si avviò verso casa con la sua tristezza accanto.