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Su Charles Strickland si è scritto tanto, che può sembrare superfluo che io scriva dell’altro. Il monumento di un artista è la sua opera. Vero è che io l’ho conosciuto più intimamente di molti: lo incontrai prima ancora che diventasse pittore, e lo vidi spesso nei difficili anni di Parigi. Non credo tuttavia che avrei messo sulla carta i miei ricordi se i casi della guerra non mi avessero portato a Tahiti. Là, com’è noto, Strickland trascorse gli ultimi anni della sua vita, e là ho trovato persone che ebbero dimestichezza con lui. Sono in condizione di far luce proprio su quella parte della sua tragica storia che è rimasta più oscura. Se quanti credono nella grandezza di Strickland hanno ragione, i racconti personali di chi lo conobbe in carne e ossa non possono certo essere superflui. Cosa non daremmo per i ricordi di chi avesse avuto stretti rapporti col Greco, come io con Strickland?

Ma non cerco rifugio in simili giustificazioni. Non rammento chi raccomandava agli uomini, per il bene dell’anima, di fare ogni giorno due cose a loro sgradite: costui era un saggio, ed è questo un precetto che io ho sempre seguito scrupolosamente; infatti, ogni giorno mi sono alzato e sono andato a letto. C’è però nella mia natura una vena di ascetismo, e ogni settimana ho sottoposto la carne a una mortificazione più dura: leggere il supplemento letterario del «Times». Considerare il vasto numero di libri che si scrivono, le belle speranze degli autori nel vederli pubblicati, e il destino che li attende, è una disciplina salutare. Quali probabilità ha un qualsiasi libro di farsi strada in quella moltitudine? E i libri di successo non sono che il successo di una stagione. Sa il cielo le fatiche, le amare esperienze, i patemi d’animo sofferti dall’autore per dare a fortuiti lettori qualche ora di svago o di ricreazione dalla noia di un viaggio. E a giudicare dalle recensioni, molti di questi libri sono scritti bene, con finezza, composti con gran dispendio di intelligenza; ad alcuni sono state dedicate addirittura le cure trepidanti di una vita. La morale che ne traggo è che lo scrittore deve cercare ricompensa nel piacere del suo lavoro e nel sollievo dal fardello dei suoi pensieri; e, indifferente a quant’altro, non tenere in alcun conto lode o biasimo, successo o fallimento.

Ora è venuta la guerra, portando con sé nuove tendenze. La gioventù si volge a divinità che noi di ieri non conoscevamo; e già è possibile scorgere la direzione in cui muoveranno coloro che verranno dopo di noi. La giovane generazione, conscia della sua forza e tumultuosa, ha smesso di bussare alla porta: è entrata d’impeto e si è seduta sui nostri seggi. L’aria rimbomba delle sue grida. Tra gli anziani, alcuni, imitando i modi giovanili, cercano di convincersi che la loro èra non è ancora tramontata; gridano insieme ai più gagliardi, ma in bocca loro il clamore bellicoso suona falso; sono come povere cortigiane che con cipria, matita e belletto tentano di ritrovare con stridula gaiezza un’illusoria primavera. Altri, più saggi, vanno per la loro strada con garbo decoroso. Nel loro sorriso rattenuto c’è un’indulgente canzonatura. Ricordano di avere anch’essi calpestato una generazione satolla, con lo stesso clamore e lo stesso dispregio, e prevedono che tra non molto questi baldi novatori cederanno a loro volta il passo. Un’ultima parola non esiste. Quando Ninive innalzava la sua grandezza al cielo il nuovo evangelo era già vecchio. Le parole audaci che sembrano tanto originali a chi le pronuncia sono già state dette cento volte in passato, con toni ben poco diversi. Il pendolo oscilla avanti e indietro. Si ripercorre in perpetuo lo stesso cerchio.

Talvolta un uomo sopravvive a lungo da un’età in cui aveva un suo posto a una che gli è estranea; e allora si offre ai curiosi uno degli spettacoli più singolari della commedia umana. Oggi, per esempio, chi pensa più a George Crabbe? Fu ai suoi tempi un poeta famoso e il mondo riconobbe il suo genio con una unanimità che la vita moderna, più complessa, ha reso infrequente. Aveva imparato il mestiere alla scuola di Alexander Pope, e scriveva storie morali in distici rimati. Poi vennero la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, e i poeti cantarono nuove canzoni. Crabbe continuò a scrivere storie morali in distici rimati. Avrà letto, penso, i versi di quei giovanotti che facevano tanto scalpore, e immagino che li trovasse mediocri. E certo, spesso lo erano. Ma le odi di Keats e di Wordsworth, uno o due poemi di Coleridge, alcuni altri di Shelley, scoprivano vasti reami spirituali mai esplorati. Crabbe era morto e sepolto, ma continuava a scrivere storie morali in distici rimati. Io ho letto saltuariamente gli scrittori della giovane generazione. Può darsi che tra loro un più fervido Keats, uno Shelley più etereo, abbia già pubblicato cose che il mondo ricorderà volentieri. Non so dire. Ammiro la loro raffinatezza – la loro gioventù è già così esperta che sembra assurdo parlare di promesse; mi meraviglia la felicità del loro stile; ma con tutta la loro facondia (il loro lessico dà l’idea che abbiano scartabellato il Thesaurus di Roget fin dalla culla) a me non dicono niente: a mio parere sanno troppo e sono troppo espansivi; non digerisco la cordialità con cui mi battono sulla schiena, l’emozione con cui si gettano sul mio petto; la loro passione a me sembra un po’ anemica, i loro sogni un tantino noiosi. Non mi piacciono. Io sto in disparte. Continuerò a scrivere storie morali in distici rimati. Sarei, però, uno sciocco di tre cotte se lo facessi per altro che per mio divertimento.