La gonna blu

Camicia bianca, gonna blu, con la divisa di scuola senza passare da casa di pomeriggio arrivava nel camerone e veniva nell’angolo in cui stampavo i volantini. Le piaceva la macchina, l’aveva imparata, mi dava il cambio per qualche ora. Con una punta disegnava sulla matrice le lettere più grandi, del titolo, le parole forti. Aggiungeva la figura di un pugno, di una stella. Le affidavo il ciclostile, era in buone mani. Se s’inceppava, lo sapeva aggiustare. Sulla panca le lasciavo le risme di carta già smazzate con le quantità fissate da consegnare ai militanti.

A quel tempo il volantino era il nostro giornale, riportava il fatto del giorno e la nostra voce sul dafarsi.

La ragazza con la gonna blu si metteva il mio camice, montava la matrice nuova, controllava l’inchiostro e faceva ripartire la voce della macchina e la nostra. Di notte spettava a me governare il ciclostile. Nello stanzone ancora affumicato dall’ultima riunione i giri del motore sputavano fuori i fogli a ritmo di carica. Nella testa assonnata accoppiavo il rumore a quello dei passi, alle sillabe di una canzone, così restavo sveglio.

Mi offrivo volentieri per la stampa notturna, in quel tempo ero ospite di un militante, della sua stanza stretta. Gli era capitato l’amore e di notte si abbracciavano forte. Non si impacciavano di amarsi mentre dormivo due metri più in là. Restare nel buio a sentire i colpi e i fiati commossi di due che si amano, senza il desiderio di avere il proprio turno, potevo pure, ma era più utile dar retta agli stantuffi del ciclostile anziché a quelli dell’amore altrui. Perciò di notte giravo volentieri intorno alla minuscola rotativa, marca Gestetner, del nostro gruppo di agitati politici.

Spuntati tutti insieme dentro una generazione, manco ci fossimo dati appuntamento in culla: tra diciott’anni in strada. Pasolini la chiamava eccedente, quella generazione, un sopravanzo dovuto alla scoperta degli antibiotici, non provata da alcuna selezione e infoltita dall’eccesso di nozze del dopoguerra. Non era granché come spiegazione ma almeno lui se lo chiedeva: da dov’eravamo spuntati fuori noialtri estranei, dissimili da tutto? Non avevo da rispondere, ero tra gli spuntati e mi mancava la distanza di un punto di osservazione. Per spirito di contraddizione mi procuravo un pensiero diverso dal suo e dalla provvidenza della penicillina. La nostra era la prima generazione d’Europa che a diciott’anni non veniva presa per la collottola e sbattuta in guerra contro un’altra gioventù dichiarata nemica. Era la prima che si scrollava di dosso le conseguenze catastrofiche della parola patria. Perciò eravamo patrioti del mondo e ci impicciavamo delle sue guerre. Su gran parte di quei volantini era scritto il nome di un lontano paese dell’Asia: Vietnam.

La ragazza con la gonna blu lo tracciava con uno stampatello punteggiato, da farlo sembrare cucito sulla carta. Disegnava la bandiera per amore della sua stella. Tra noi c’era un poco d’intesa, era un tempo buono per stabilirle, contavano poco la differenza di reddito, d’istruzione, di età. Mi raccontava qualcosa della scuola, le piaceva la chimica. “Oggi ho studiato l’ozono, si forma intorno ai fulmini, è blu, pizzica il naso.” E poi all’improvviso: “Tu ci andresti a combattere laggiù?”. E io: “Pure subito”. “Ma sai sparare?”, “No”. “E allora?”, “Imparo, come hai fatto tu con il ciclostile”.

Restava un poco sui pensieri poi tornava al punto: “E la paura?”. “Sono un rivoluzionario,” dicevo, “la paura la devo scacciare.” “A me la paura viene pure dentro le cariche della polizia, scappo, penso ai miei genitori che non s’immaginano niente. Non credo di essere rivoluzionaria.”

Non sapevo rispondere alla ragazza e poi sbagliavo a dire: rivoluzionari non eravamo noi, ma il tempo e il mondo intorno. Noi assecondavamo il moto di scardinamento generale di colonie e imperi. Con tutta la sproporzione tra noi e il dafarsi, pure vedevamo crescere il numero dei volantini da distribuire e dei volontari venuti a ritirarli. Le scuole erano affamate di quei fogli, le scuole erano in subbuglio permanente, non c’erano quadrimestri sì e quadrimestri no, era tutt’un’assemblea da ottobre a giugno. “Se non sei rivoluzionaria, chi sei?” “Una che aiuta la giustizia, che sta con la gente oppressa dalle mancanze e dalle prepotenze.” “Allora sei una che vuole aiutare il prossimo?” La mia domanda era stonata in una sede e in un pomeriggio di rivoluzionari. Se ne accorse. E stette zitta, e pensai di averla offesa. Invece si girò verso di me, perché stavamo a fianco, e disse, appena più su del motore del ciclostile: “Ma tu non vuoi essere per una volta il prossimo per qualcuno?”. Tolsi gli occhi da lei, credo che mi confusi con le mani.

Frequentava un istituto privato, ne portava la divisa fino alle scarpe e ai calzettoni bianchi, che però si toglieva arrivando allo stanzone nel quartiere di San Lorenzo. Metteva calze di nylon e mocassini. Del suo istituto lei sola e di nascosto si era messa a partecipare delle mosse e delle ragioni di una gioventù squietata e sparigliata, nemica dei poteri costituiti, scossa dai casi del mondo. In segreto portava un poco di quei fogli dentro la scuola a suo puro rischio, senza nessuna speranza di coinvolgere. E aveva dubbi se era rivoluzionaria? Il grado di rottura dentro l’ordine sociale di allora non era misurato su persone pronte a partire per un fronte, ma da cittadini come lei che si mettevano a sabotare poteri nei posti più strani e difficili. Il grado di febbre di quell’Italia non era dato dai surriscaldati, ma dal polso dei miti, dei pacifici che collaboravano alle rivolte. Quando azzardano le educande, un paese è prossimo all’incandescenza.

La gonna blu, la camicia bianca, le calze di nylon, i mocassini e i modi: era elegante in paragone al resto di noialtri. Questo mi piaceva: che non volesse mettere una seconda uniforme, quella dei rivoltosi.

Aveva simpatia per me che venivo dal sud e avevo l’aria spaesata degli emigranti, che un paese non l’avranno mai più. Disegnando sulla matrice il pugno diceva che ricopiava il mio. Non mi permettevo confidenze però le guardavo la gonna, il bel colore blu mi dava pace agli occhi troppo fissati al bianco e nero dei ciclostilati sotto la luce al neon. Non era il blu delle tute operaie che uscivano all’aria aperta dalle officine per uno sciopero improvviso. Quello l’ho avuto addosso e l’ho imparato dopo. La sua gonna era il blu che circonda la lampara nella pesca notturna al calamaro, al tòtano. Era il blu che avvolge la luce e l’accompagna mentre affonda in mare.

Prima di darci il cambio uscivamo a bere un caffè. Il quartiere era fitto di botteghe, tipografi, marmisti, falegnami, sarti, calzolai, c’era sempre qualcuno in pausa che attaccava discorso con noi al bar. E non era lo sport e nemmeno le piogge l’argomento, ma qualche avvenimento e cosa doverne pensare. Chiedevano volentieri un parere a quella nuova gioventù che aveva deciso di averne uno separato e suo sopra qualunque e qualsivoglia cosa.

Premessa era ribaltare, mettere il sotto sopra. Era un’insolenza metodica e portava conseguenze. La questura veniva a perquisire, a identificare, a denunciare alla magistratura. Una di queste occasioni fu brusca e c’era pure lei nello stanzone. La sorveglianza spontanea del quartiere aveva fatto in tempo ad avvisare dell’arrivo della colonna. Nascosi in un appartamento vicino il ciclostile, l’unico tesoro da salvare. Eravamo in pochi e fummo strapazzati. Il funzionario era scontento di non poter sequestrare niente e decise di portarci in questura.

Mentre avveniva il trambusto che serviva a intimidire anche il quartiere, lei restò irrigidita, pallida di paura ma pure di disgusto per l’esibizione di calci a sedie e tavoli e ordini di mettersi faccia al muro strillati nelle orecchie, con l’accento meridionale ch’era il mio eppure così opposto al mio. Il funzionario si accorse di lei così diversa, le chiese in altro modo i documenti dicendo: “Signorina che ci fa qua dentro, lasci perdere questi quattro delinquenti e se ne torni alla sua casa ai Parioli”. La lasciò andare. Lei intanto era passata dal pallido all’accaldato, al rosso di uno sforzo di frenare con tutti i muscoli della faccia le lacrime sul bordo degli occhi. L’attenzione del vicequestore la separava da noi. Si vergognava del privilegio di potersene andare e si vergognava pure del sollievo di non trovarsi i genitori convocati in questura a riprendersi la figlia minorenne. Tra le divise degli agenti vidi uscire la sua gonna blu. Se volle con gli occhi salutarmi non posso saperlo. Guardavo il bordo della sua gonna scomparire nel buio del cortile.

Così viene spenta la lampara, si dilegua il blu e gli occhi per un po’ stentano al buio. Quando intorno c’è concitazione a me vengono pensieri lontani. Così dev’essere successo molti anni dopo a Carlo Giuliani col suo estintore da restituire.

Quando uscimmo impacchettati per salire sul furgone, s’era intanto riunita un po’ di buona folla di San Lorenzo, uscita di bottega, zitta e seria, affacciata ai balconi. Niente traffico, la via era bloccata dall’operazione di polizia, niente chiasso, la gente stava muta e circondava quelli che circondavano noi. Saremmo tornati di lì a poco, più ribaditi ancora al nostro posto, ma lei no. La ragazza con la gonna blu si staccò quel giorno e chissà chi l’ha meritata tra le braccia.