“Ha bisogno di aiuto?”
“Di uno che mi uccide.”
Alla risposta mi fermo del tutto. È più accovacciata che seduta in terra sul bordo del sentiero. La posizione compressa, da mal di stomaco, mi ha tirato fuori l’offerta di aiuto. E poi in montagna si usa. E poi lei attira, però questo l’ho visto alla risposta quando mi alza in faccia una faccia di sposa persa sull’altare. Mi fermo, non pesa lo zaino leggero di una giornata in giro per cime senza corda e ferraglia da scalata. Non mi accosto ancora, mi volto e ripeto: “Di uno che l’uccide. Di uno che l’ama fa lo stesso?”. Una che risponde buffa e agra ha bisogno di uno spudorato.
“No, di uno che mi uccide. Un assassino si trova, un uomo no.” Questa è rivolta al genere maschile e a me che sono il solo nei paraggi. “Sono un assassino. Ho con me un buon coltello, se vuole ci appartiamo e la sgozzo.”
Abbassa gli occhi dalla faccia alle mani per cercare conferma.
“Gratis?”
“Sì.”
“Generoso.”
“Siamo in montagna, c’è più solidarietà che a fondo valle.”
Finalmente sbuffa in un sorriso e poi in lacrime.
Mi tolgo lo zaino, mi siedo a terra un metro vicino, faccio un respiro forte, equivoco, tra la compassione e la scocciatura.
Smette, dice grazie.
“Di che?”
“Di non aver detto niente, chiesto niente.”
“Venga in montagna con me, le passa tutto.”
“Non così in fretta,” dice per intendere che vado troppo svelto in confidenza. Fingo di capire a rovescio: “Garantito: le passa tutto proprio così in fretta”. Mi guarda a sopracciglia infuriate. Perciò insisto: “Lei domani sera sarà così piena di Alpi nelle ossa, dai piedi ai capelli, da dormire in pace con il corpo, cuore compreso”. Non reagisce. Le dico il mio nome. Reagisce: “Un’imprudenza per un assassino”.
“Se è il mio, sì.” Non le do tempo e chiudo: “Sto al rifugio del passo Duran, domani alle sette m’incammino per fare il giro delle cime della Moiazza. Se non trova nessuno prima, io l’aiuterò”. Mi alzo tiro lo zaino sulle spalle e proseguo.
Al rifugio San Sebastiano mi scrollo la stanchezza sotto una doccia a idrante. Infilo la camicia di lana a scacchi bianchi e blu. L’ho comprata dopo aver letto un racconto in cui era importante. In montagna porto sempre quella. L’ho presa da un libro, è calda e letteraria. Mi fa rigovernato e a posto per la cena.
Alle sette di sera viene l’ora muta per i monti, si va a mensa. Fuori c’è il vento che perde nuvole, alla finestra ne guardo una che non ce la fa a scavalcare il monte e ci finisce addosso, sfasciandosi, fasciandolo. Dovrebbero fare come le bolle di sapone che scoppiano al contatto. Invece fanno ovatta. Sto a un tavolo vicino al vetro, così ho da guardare fuori anziché in sala. Sono solo, in montagna va bene, al cinema pure. Così non mi accorgo che è entrata e sta parlando con il gestore. Ha preso un letto nella camerata e mangerà con me se non disturba. Me lo dice dopo essersi seduta.
I vetri quando pigliano le prime gocce fanno chiasso perché sbattono sul loro asciutto, poi si bagnano e fanno meno rumore e resistenza. Glielo vorrei dire, all’improvviso sono allegro come un vetro appena bagnato. Non è il caso, l’ho vista sputare singhiozzi a un metro da uno sconosciuto, ci manca pure che la festeggi.
“Passa in fretta?” chiede, per dire qualcosa.
“Prima del tramonto.”
S’informa sul percorso. È uno sterminio di energie, rispondo, poi torno serio e m’informo sulla sua attrezzatura. Le manca il casco e l’imbracatura. Ne ho in macchina un paio di riserva.
“Un assassino previdente,” dice.
“Ma sì, nel mio genere premedito.”
“Sono disperata.”
“Non c’entra la salute?”
“No, non c’entra.”
Mordo la bocca per non rilasciare la battuta di Totò: “Quando c’è la salute...”. Lo sforzo mi comporta un prurito al naso, me lo stropiccio, faccio un paio di smorfie.
“Una faccia da montagna,” dice.
“Grazie del complimento.”
“E la mia com’è?” s’azzarda a chiedere.
“Di sposa mandata sola all’altare.”
“Più complicato di così, però va bene,” e aggiunge il mio nome. Non reagisco. “Non ti chiami così?”
“Mi chiamo così e non sprecare forze con i dubbi, non ti dirò nessuna bugia.”
Mastichiamo affamati, io dal giro del giorno sulle rocce, lei da qualche pasto saltato. Un po’ di vino le scotta le guance.
“Non hai più la faccia di sposa, ora di contadina.”
“Che mestiere fai?” chiede.
“Scrivo storie, poi le vendo.”
“Sei uno scrittore?”
“Uno che fa lo scrittore.”
“Il cognome?”
Lo pronuncio con rassegnazione.
“Non l’ho mai sentito.”
“Appunto.”
“Allora non sei un assassino?”
Bevo un sorso.
“Almeno il coltello ce l’hai?”
Lo cavo di tasca, glielo metto sul tavolo vicino alle posate.
Lo prende, lo apre, lo chiude. Poi fa la mossa di passarselo sulla gola. Lo rimette giù seccata di aver fatto una cosa scherzosa.
“Sei un uomo?” e non aspetta risposta, già sbatte contro un pensiero suo che l’appassisce. “Non ce la faccio,” dice.
“Con l’imbracatura e il casco rosso domani ce la farai.”
“Se è vero mi salvi la vita, ma non può essere vero.” E per sbandare un po’ via dai pensieri aggiunge: “Salvata da un assassino”.
Mi fa piacere che ha già dimenticato l’altra mia qualifica.
Intorno a noi voci di una comitiva di anziani tedeschi aiutano a conservarci in disparte, in un posto straniero.
Faccio l’aria citrulla che mi viene bene e dico: “Dove siamo finiti stasera, in una birreria fuori Monaco tra i tigli?”.
“Non mi fare viaggiare, non mi spostare, sono salita qua sopra per togliermi. Lo capisci questo verbo: togliersi? Io lo capisco da poco.”
“Togliersi, mi piace: togliersi, estrarsi come un dente dalla mascella, sì, ci sto, ma se vuoi dire banalmente togliersi dal mondo, allora puzza di muffa, è usato e non ti può servire.”
“No, per quello mi serve uno che mi uccide.”
“L’hai trovato. Domani sera o tu o il dolore, uno dei due non ci sarà più.”
“Affare fatto.”
“Una fetta di torta di mele?” chiedo.
“No, troppa grazia.”
“Allora domattina,” insisto, “perché raschieremo il fondo alle energie, perciò dobbiamo averle.”
“Ho energia di collera da vendere.”
“No, quelle sono tossine e le espellerai con la prima maglietta di sudore. Portatene tre.” Mi guarda seria per vedere se scherzo.
“Non ti dico bugie.”
“Mi chiamo...”
“Non me lo dire. Domani sera se avrai voglia di dirlo, mi piacerà ascoltarlo.” Si offende. Le ho fatto torto a non ricevere il nome. Si alza, dice appena: “Alle sette”. Confermo con la testa. Non so che mi piglia a volte di scartare come un asino dalle confidenze. Resto seduto, guardo fuori, che fesso, penso, di che vado a impicciarmi? Di quello che ti mette innanzi il viaggio, mi rispondo seccato dalla mia domanda: e bada d’impicciartene bene. Metto le mani in faccia a stropicciarla e lascio andare il rutto custodito a oltranza per l’intera cena. Pago il conto, mi accorgo che è per uno. Anche il vino ha diviso.
È più stanca di ieri, le sette non sono una sua usanza. Beve a occhi chiusi da una tazza robusta, infila a buoni morsi lo spicchio di torta di mele. L’aspetto fuori dove le nuvole stanno ancora accovacciate sui monti. Quando le scotta il sole e non possono restare in basso, allora scappano su. Le racconto qualche mossa del giorno per fare compagnia ai primi passi. Lei segue i miei sbuffando. In salita appoggio a terra mezzo piede, la punta e poco più. Dà più spinta e mantiene il corpo dritto. È l’ora dell’osso metatarso, osso di andata. Un’ora dopo raggiungiamo l’attacco della via ferrata. Infilo la mia imbracatura per primo, così lei vede come si fa e non devo calzargliela io. Riduco al minimo le mosse di intimità fisica di una giornata in cui toccherà stare più vicini di ieri. Da sola infila l’imbracatura, gliela chiudo davanti e fisso la fettuccia con il moschettone. Lo dovrà far scorrere lungo il cavo di acciaio che accompagna i tratti difficili della via di salita. Si calca in testa il casco senza una mossa di riassetto dei capelli. Li guardo scomparire, lisci e prigionieri. Ne spunta un ciuffo avanti. L’attacco della ferrata è brusco. Si parte con un traverso in salita poco aiutato da appoggi per i piedi. Inizio io così vede i primi metri.
Prova, non riesce, scivola, resta appesa.
“Non ce la faccio, non riesco neppure a partire. Lasciami qui, vai tu.”
“Senza di te oggi non vado per cime. Ti aiuto a partire. In alto il seguito è più facile.” Scendo. Mi metto dietro a lei, le copro il vuoto e la sostengo scaricandole il peso. Subito impara a puntare bene i piedi e a guadagnare metri. Sulla parete formiamo la compatta figura di uno scarabeo. Lei si attacca con le mani al cavo di acciaio e io la raddoppio alle spalle. Con andatura a otto zampe superiamo il tratto e lo scoraggiamento. Lei si appoggia parecchio addosso a me. Sudo, sbuffo, funziona. “Stai comodo?” chiede per scherzo.
“No, ma tra poco finisce il traverso.”
“Peccato, mi sto divertendo, mi sembra di non portare peso.” Lo scarica nell’ansa tra il mio bacino e il petto.
“Ecco fatto,” le dico alla fine del tratto obliquo, “ora si sale dritti, è più facile. Ci mettiamo in fila, la più piccola fila del mondo, due in tutto. Lo scarabeo si trasforma in bruco, tu vai avanti, io sto sotto, controllo l’appoggio dei piedi. Tu pensa sempre al moschettone e al cavo.”
Così partiamo verso l’alto, dentro un catino di rocce che rimbalzano in su e non mostrano cima né fine.
“Non si vede dove arriva,” dice.
“Siamo bassi, neanche fra due ore di salita la vedremo.”
È snella, ha preso gusto al movimento, sale più con le rocce che sul cavo. Produciamo vuoto sotto i piedi. La scalata è una fabbrica di metri sopra metri, un accumulo d’aria. Quando il cavo smette e bisogna fare dei tratti da slegati per raggiungere l’ancoraggio seguente, guarda sotto: “Questo è togliersi, no?” dice. Non rispondo, per me questo è mettersi. Darsi alla materia prima minerale, misurarla con la punta delle dita, mettersi al vento, alle pietre, chiedere passaggio a tutto, pure alle nuvole.
Suda. “’Sto casco mi cuoce il cervello, peggio che dal parrucchiere. Mi potevo mettere i bigodini.” Parla da sola. Sa che la ascolto, che sono un metro sotto, ma fa senza di me.
Dopo un lungo tratto in salita verticale, c’è di nuovo un traverso difficile. Stavolta vuole fare tutto lei. La precedo e le risparmio solo i movimenti del moschettone, così da non lasciare le mani dal cavo. Ha la fronte increspata di sforzo, un broncio di concentrazione sulle labbra. Non sta pensando a niente altro, a questi metri duri da passare e basta. La scalata ritorna verticale, lei ritrova il fiato e saliamo in fila svelta lungo la bastionata a mezzogiorno.
“È bravo il nostro bruco,” dice. È bravo, è appena nato e già sa dove andare. Nessuno di noi aggiunge che potrà diventare farfalla. È certo che pensa anche lei alla battuta, ma se la tiene. Restiamo un bravo bruco, questo serve adesso.
Dopo tre ore siamo sulla Cattedrale, questo è il nome di una delle cime. Facciamo pausa. Abbiamo sulla testa nuvole e schizzi di cielo, la liberiamo dal casco. La testa al primo vento sfiata i pensieri chiusi, entra aria tra i capelli, piacere di arruffarseli, sgranchirli. Mangiamo un pane con quadratini di cioccolata nera. Morsi carichi di appetito, ingoiati svelti, il fiato profuma di cacao. Uccelli della cima bussano a briciole con gridi stridulini, ne lanciamo, le raccolgono a saltelli. Chiede nomi di monti, glieli addito, anche la Moiazza in fondo a un’altalena di creste.
Mi chiede di voltarmi. Cambia la maglietta. Mentre è nuda il sole apre bottega sulla Cattedrale, scansando nuvole pezzate. Scalda e asciuga. Lei si stende, le passa un’ombra in faccia, non so se è il cielo oppure un pensiero: in piedi, zaini in spalla, si continua, dico brusco per togliersi di lì. Meglio non raffreddare i muscoli, oggi noi siamo loro. Obbedisce. Scendiamo per le rampe sbriciolate della Cattedrale a forza di fulmini. I fulmini sono bambini che cercano l’anima dei giocattoli a colpi di martello. Ma quella non sta sotto crosta, se esiste è in superficie dove striscia il nostro bruco a due. Se esiste è nella corrente calda che spinge i gracchi verso l’alto ad ali ferme. E questi sono pensieri da discesa, rotolano da soli. Lei invece inciampa per guardare intorno, sento le suole grattare il brecciolino, scivola dietro di me, mi volto e la fermo con il braccio: “Guarda in terra e muovi passi corti in discesa, che se perdi un appoggio lo ripigli, passi corti, da bruco”. “Signorsì.”
E così avanza il giorno per creste, discese, risalite, passaggi in traversata su costoline di tracce disegnate appena sulla ruga del vuoto. Oggi ce la fa, oggi è giorno di precedenza alla vita. Se vuole qualcuno che l’uccide, c’è pronto il salto, basta il passo falso. Oggi è turno di vita, percorso da completare netto senza errori, oggi noi siamo cavalieri senza sella di noi stessi. La prateria si è solo spostata d’inclinazione diventando muraglia.
Sulla cima Moiazza, toglie la seconda maglietta, mette la terza senza chiedere di voltarmi. Guardo da un’altra parte, sbircio a ovest da dove arriva il temporale, quando arriva. Di solito lo avvisa una virgola di nero, più macchia che nuvola, ma oggi no, galleggiano sui monti solo grappoli di condensa.
Le sue mosse sono diventate più pesanti di fatica, si toglie le scarpe, è stanca, senza spina di pena, solo stanca. La sua ombra va e viene, sbatte al vento, scompare. Restiamo un poco sulla cima a richiamare forze per la via di ritorno. Poi un passaggio su un filo di cresta, due venti di salita dai versanti opposti scombinano l’equilibrio, danno qualche spintone. Serriamo il nostro bruco, le sue mani appoggiate sui miei fianchi, il suo moschettone agganciato al mio. Il giorno punta in discesa, lo seguiamo perdendo quota nel lungo giro che riporta indietro per altra via. I passi corti si distendono su tracce migliori, più comode, mettiamo tra noi qualche metro. In discesa dimentico. Ritorno nel cesto da cui sono uscito. È l’ora del tallone, osso del ritorno, a lui spetta di appoggiare il passo che riporta indietro. E questo è togliersi.
Arriviamo muti ai cameroni. Sono finite dieci ore di giro e siamo vuoti. Lavarsi e mettersi a una tavola per rinfrancarsi. Ci ritroviamo alle sedie della sera prima, dopo una strofinata d’acqua fredda. La calda l’hanno consumata quelli arrivati prima. Lei è sotto buona lana, ha freddo. Ho addosso la camicia a quadri e bevo piano una birra abbondante. Non diciamo niente. Lei sorride a qualche boccone che le piace. A buon punto di caldo e sazietà chiede a che penso. “Alle montagne di domani.” Fa uno sbadiglio che mi procura un sorriso.
“Grazie,” dice.
Per risposta la guardo.
“Non ero mai salita su una cima scalando.”
Quante cose posso dire, anche soffiare sulla gratitudine che sta nelle stanchezze pulite, quante cose per avvicinarmi. Nessuna passa, resto a mani chiuse, abbasso gli occhi. Lei si alza, mi posa un bacio sulla testa reggendola tra le mani, “Buonanotte,” dice.
Il giorno dopo parto al primo chiaro, cambio valico e valle in cerca di un’altra salita a quattro zampe. Le lascio un biglietto: “Non lavare le tue tre magliette sudate. Buttale, è acqua passata”.
E ora scrivo. Al posto di qualunque altra cosa possibile ho per rimpiazzo e avanzo la scrittura. Che fesso.