Quando veniva settembre, il vento cambiava di verso e la stagione di odore. Al maestrale dei giorni di sole e di mare increspato succedeva il libeccio che alzava onde lunghe. La pioggia asciugava la polvere, le strade esalavano il cotto dell’estate. Uscivamo nei vicoli dell’isola, lasciavamo gli abituali itinerari dei giorni di mare. Ci avvisava la prima lana addosso che nell’aria fragrante passava l’odore della pineta umida e dei quaderni nuovi, freschi di fogli bianchi. Sulle spiagge deserte correva il cielo cupo ed era tempo di passeggiate. Una volta per anno, nei giorni ventosi di settembre, salivamo a rivisitare il castello Aragonese, scoglio massiccio armato a fortezza e legato alla terraferma da un istmo sottile.
Da una terrazza sulla sommità un faro di notte perlustrava il mare. Da lì si poteva comprendere la sagoma sinuosa di Procida e, dietro di essa e oltre, il golfo schiacciato sotto il vulcano.
Salivamo verso le cinque, nell’ora del pomeriggio che permetteva un appuntamento e uno spostamento della comitiva fino al villaggio dei pescatori, oltre il quale sorgeva il castello. Tra le stanze magnifiche crollate, le crepe sul soffitto davano sul cielo, quelle nei muri davano sul mare. L’azzurro sbucava dalle pareti a ciuffi. Fervevano i primi sentimenti e le ansie di volersi appartare in una segreta messa ai quattro venti.
Ci si fermava all’ingresso della cripta delle monache. Non tutti volevano scendere nella stanza che custodiva ancora in un angolo un cumulo di ossa porose. Le mettevano morte a sedere su scranni di pietra bucati al centro, per consentire al corpo di disfarsi. Le mettevano a “scolare”, il corpo scioglieva la sua forma seduto, al buio, come in una cantina. Scendevamo in silenzio, qualcuno tenendosi per mano. La morte era cruda e vicina, non ammansita né travisata, la visitavamo, nera monaca di settembre, disfacimento di stagione a mare.
Ora non sono più lì le ossa, ora sembra un salotto di pietra la cripta di sedili allineati al muro, illuminati a corrente. Ora sembra una latrina comune la cerchia di scranni bucati al centro. La morte ora è un rifiuto organico addobbato da cerimonia. Quando la toccavamo nel buio della cripta al lume di una candela comprata apposta, era l’ombra seduta della vita, teschi e clavicole, anatomia asciutta, impalcatura residua del tempo di tutti. Lo visitavamo con timore, senza disgusto, senza vergogna.
Uscivamo alla luce lungo la scala stretta e d’improvviso nessuno voleva essere l’ultimo. La voce che si era spenta in sussurri tornava acuta e gridavamo, respirando forte.
Proseguivamo il giro per i camminamenti della rupe e nel castello. Nei corridoi di tufo il fresco rigovernava il fiato. Sulla via del ritorno entravamo nelle segrete. Sotto un arco di pietra nuda un piccolo tozzo cancello di sbarre girava sui cardini a fatica. Passavamo per un cortile dai muri che furono alti e ancora in qualche punto accennavano alla forma di una fossa per vivi. Da lì si accedeva agli stanzoni comuni, dove le feritoie lasciavano girare troppo in alto stretti fasci di luce. Dalle pareti di pietra lisciata sporgevano anelli ancorati, robusti da poter trattenere una barca. All’altro capo dell’ormeggio ci furono uomini saldati alla catena. Erano l’ultima maglia di un ferro, consumarono il tempo come un rancio, insieme ad altri sempre, razione magra per conservarsi interi. Pensieri di ragazzi in gita d’improvviso cadevano seri. Senza libri a fare velo appariva la storia nuda: epidemie, arsure, nevi, guerre, battito regolare di una sentenza eseguita a secco lì dentro, nel recinto del tempo perduto. C’erano muri come quelli ovunque, un carcere per isola, nostro Tirreno pieno di galere. Toccavamo il ferro chiuso nella pietra, qualcuno imparava di colpo, tra il chiasso di fuori e un brusco silenzio di dentro, la dose di orrore rituale che ogni età condensa in una forma: il carcere, per noi.
Crescevamo sull’isola d’estate. Nessun presagio custodiva in segno quel destino, sembrava così antica la stanza delle sbarre. Non era la cripta, magazzino finale della notte di ognuno a incombere su noi. Era la piaga ai polsi, alle caviglie, la catena, l’uomo bestia per l’uomo, morso di un ferro insonne nella carne. Era la vita infame, la sentina dove il pescato stagna e si dimentica sotto il paiolo di legno della barca, frutto di mare perso nella zavorra d’acqua della chiglia. Uomini, età feroce, agguati, sbarre, noi ancora lontani dal destino, incapaci di credere alla stanza che avevamo intorno, immensa da abitare. Su alcuni si sarebbe chiusa in cella.
I muri erano pieni di scritte. Finché rimaneva uno spazio bianco da riempire con un nome, una data, non sarebbe finita la prigione. Toccavo l’anello confitto nel muro, lisciato dall’uso, ferro vaioloso di ruggine salato dal grasso delle pene. Tiravo forte, non veniva via.
In discesa nell’ultima luce correvamo nei corridoi a spirale che conducevano alle ultime rampe e al portone. Le grida rimbombavano nel vuoto, ai più piccoli bruciava il terrore e schizzavano in fuga in cerca dell’aperto, della sua luce cupa. Infine dal cavalcavia dell’istmo ci si voltava verso la massa nera dell’isolotto chiuso. Dietro di noi, ultimi ad uscire, il portone fermava i suoi battenti, quasi da sé; nessuno ci seguiva lungo il ponte. Il faro puntava sul mare la sezione di luce, mezzo giro di giostra, due secondi. Eravamo bambini sull’isola maestra.
Al mancorrente del battello che ci riportava in città alla fine di settembre, mi tenevo stretto guardando verso terra. Tiravo forte, non veniva via, tutto era saldo e l’età successiva sembrava un’altra maglia di catena.