Il conto

A ogni trasloco mio padre orientava di nuovo il suo letto con i piedi al Vesuvio. Era il verso del suo sonno, comunque profondo dopo i sorsi del vino della sera. Una notte di scosse e giravolte di pavimenti e lampade non si riuscì a svegliarlo e fu lasciato a casa mentre i tarantolati della città si accampavano in strada.

Vesuvio, terremoto, solfatara, il suolo da ventriloquo sbollisce in superficie l’intruglio costipato delle sue viscere. Chi di noi guardando il mare ancora un poco azzurro non ha pensato che è riparo più sicuro dei palazzi di tufo? Miriadi di noialtri hanno affidato al mare la loro via di fuga. Stiamo col morso del terrore in gola, diventiamo famosi cantanti a forza di gridare scampo nei sonni, diventiamo rauchi per ceneri e lapilli finiti dentro i sogni. E il santo protettore è un soldatino di sentinella contro il torrente dell’incendio lungo il piano inclinato del vulcano. Il popolo correva con la statua avvocata al ponte della Maddalena per l’ultimo sbarramento. Uno di queste parti, senza poterci fare niente, senza accorgersi, viene su costruito da un vulcano.

Così da ragazzo guardai dalla sua parte, la sua forma di pagnotta rigonfia, al finestrino di un treno che mi staccava dal luogo e solo verso il suo zuccotto a forma di cratere mi uscì di bocca: addio. Lasciavo il mio posto, quello che spetta di nascita, dove si diventa un minerale a forza di crescere ossa e si diventa bosco a forza di radici di capelli e peli in faccia e al pube, dove la voce bianca dell’infanzia si arrugginisce e ringhia raschiando la trachea. Partii tradendo tutti, padre, madre, sorella, casa, studi, i pochi amici e le mille settimane di residenza, tante servono a fare diciotto anni.

Nessuna ragazza si soffiava il naso al marciapiede del binario, solo quella nessuna, non tradii. Traditore di vita apparecchiata, già intitolata, andava solo svolta, invece niente, uno si afferra per un bavero e si sbatte via senza uno straccio di lettera, di mestiere in mano, d’indirizzo nuovo, zitto e imbottito di mai più. Ovunque tranne qui, qualunque malora tranne questa mezz’ora di pazienza ogni trequarti d’ora. Tradire e non poterlo fare con il sollievo della vigliaccheria, ma dovendo pure ricorrere al più assurdo coraggio mai posseduto prima, chiesto in prestito al futuro, indebitandosi con lui. Tradire è sentirsi i polmoni bruciati, l’aria della fuga scotta negli alveoli, la libertà rubata deve essere feroce, altrimenti non regge al rimorso del dolore di chi resta.

La città bandiva i suoi assenti. Chi non l’abitava veniva iscritto nel registro segreto degli espulsi. Napoletano è titolo solo per residenti, la nascita non basta. Conta chi resta, ogni altro è forestiero. Napoletano: proviene poco da un’affacciata su ’na iurnata ’e sole, molto di più dipende dal suo monte pandoro lievitato a fusioni. Nella casa di ognuno sta l’acquerello notturno delle lave incendiarie, il mare illuminato a sangue. Napoletano è adoratore del vulcano fino a lottizzare le pendici, risalire al cratere e costruirci dentro magari uno stadio con le gradinate già evidenti. Pensieri di uno che si stacca ragazzo senza salutare e guarda al finestrino di destra il vulcano che gli gira le spalle con lo strascico dei pendii attenuati su Caserta.

Non ho più pensato al verbo tradire fino a molto più tardi, nell’autunno dell’ottanta. Avevo trent’anni, non più contati a settimane ma a città e distanze. Ero a Torino dove stava finendo in una sola stagione di foglie scrollate tutto l’incominciato di politiche aspre, antagoniste, di una generazione. Sbarravo insieme ad altri operai i cancelli di una fabbrica per urto e resistenza contro un diluvio di licenziamenti. Durammo una quarantena e una quarantina di notti e giorni, quanto la cataratta di Noè, noi senz’arca.

Quando si ritirarono le acque, gli operai restarono fuori. La storia del decennio di forza e di sollievo operaio finiva lì. La storia sa tradire, non c’è da brontolare, basta esserci stati dentro e averle dato la pesata giusta. Pensieri di uno che arrivava da Torino col treno alla città del vulcano. Non portavo con me il verbo tornare, chi se ne va di lì perde diritto al verbo. Ci può andare, laggiù, tornare, no.

Dal finestrino di sinistra il vulcano al mattino era indorato ai bordi. È a buona cottura, a mezzogiorno sarà pronto a tavola sul golfo.

Dalla casa rividi l’affacciata sul largo. Dal suo grandangolo di balcone giravo il collo dal Vesuvio fino alla punta di Posillipo serrando in mezzo la costa di Sorrento e l’isola di Capri, stesa a diga del golfo. Io non ero più io, trent’anni, dodici lontano, un estraneo passato ad altre usanze, un operaio del nord.

La città che da ragazzo mi sembrò violenta era di burro, le mani non riuscivano a toccarla. Stringere la maniglia del vecchio tram e non sentire niente, neanche il minimo appoggio: l’organo del tatto decideva a nome di tutto il corpo la separazione. Sbandavo sul sedile della funicolare di Mergellina che scarrucola dentro il buio della galleria di tufo. Ti ho tradito e basta. Mi resta l’onore secondario di averlo fatto gratis, non per fare fortuna, non per soldi stranieri. Per il niente dei miei venti anni esposti alle risse politiche del mondo, al grimaldello degli urti di piazza, la leva semplice delle insurrezioni. Ho trent’anni e arrivo al luogo di partenza a mani vuote. Al binario nessun fazzoletto di ragazza, così sorrido della simmetria.

Scendevo dai viali insaccati di nebbia per stare una domenica affacciato sul molo, sulle vele, sulle prue dei battelli che portano alle isole. Guardavo il risaputo che avevo dimenticato. Luca, il cugino giovane, quella sera m’invita a una pizzeria di Fuorigrotta e così la vedo, lei la ragazza da stropicciarsi gli occhi. E siedo, parlo e bevo insieme come la più stabilita cosa da gran tempo e quei minuti fanno le veci degli anni e l’accompagno a casa e non si toglie più la sua matassa di capelli dalle mani, non si scioglie e invece devo partire, risalire. Cominciano lettere e treni andirivieni da Torino, da Napoli, di notte, un vetro di finestrino per cuscino, tutta la paga alle biglietterie, ne restava per una sera, un cinema, un pretesto.

È l’autunno del terremoto, lei mi trova un lavoro di manovale in un cantiere della città scossa e piena di stampelle. Lascio il nord per abitare insieme. Città e ragazza, le confondevo, dimostravano ch’ero partito a vuoto, vedi, potevi stare qui, a trent’anni non dovevi cominciare da zero, dal bianco di calce, dalla pala che rigira l’impasto a colpi del tuo fiato e l’inverno per strada non stavi a sgocciolare il muso contro la tramontana.

Città, ragazza, fate ch’io sia un estraneo, che il mio eccomi sia quello di uno sconosciuto, uno dei tanti piovuti nei paraggi, artisti e muort ’e famme, scappati da qualche pentola di carcere, da qualche America fallita. Portatemi a Santa Lucia e dite: questo è il borgo marinaro, quello è Castel dell’Ovo.

La domenica andavamo in cerca di balconi, dove appoggiarci di profilo, Cuma, Ravello, Baia, L’Epomeo, dove c’era da starsene di fianco, darsi le nocche delle dita, appoggiarsi di tempia. Non che facevamo discorsi, però stavamo e quello stare era tutta la durata promessa.

Gli altri giorni uscivo dalla stanza ch’era ancora buio, strisciavo via lasciando poche tracce di caffè, la rivedevo a sera.

La città era ingombra di puntelli, il lavoro da farsi era rimasto a prima dell’avvento delle macchine. Niente betoniera, s’impastava a mano per strada la collina di rena, ghiaia, cemento, scaricata dai camion.

Gli operai erano anziani, venivano dai paesi di pianura, facce contadine. La sera rientravano a terminare a casa qualche opera sospesa. Erano forti, di quelli che si spezzano di colpo per non essersi risparmiati mai. Solidali tra loro, davano poca confidenza all’estraneo. Loro sì mi facevano la grazia di darmi per piovuto da lontano. Non staccavano a orario, ma quel poco più tardi per non dare a vedere che tenevano fretta di finire. A mezzogiorno per non impicciarmi dei fatti loro, cacciavo un libro e ci masticavo sopra. Prendevo venticinquemila lire al giorno. Era una buona vita, magra, ma con città e ragazza.

Lei mi chiedeva: cambia, non sei fatto di questo. Non rispondevo. Nel mestiere sarei durato altri sedici anni. Dai silenzi ripartiva con un sorriso o con la minaccia di un finto pugno in testa. Qualche sera rientrava tardi, per qualche festa, qualche compagnia, un concerto. Saltavamo un giorno, le lasciavo una lettera in cucina. Era bello scriverle da vicino, imbucare la posta sotto il tovagliolo.

Avevo una bella giacca, eredità di uno zio morto giovane. Le piaceva, una volta mi chiese di indossarla per una serata, un invito a una festa. Non andavo, non conoscevo, non ci sapevo stare. Mi cucinavo un intruglio, leggevo qualche storia d’oltremare, poi il sonno mi abbatteva con una martellata in mezzo agli occhi. Nell’alba seguente ritrovo la giacca su una sedia in cucina, s’era spogliata lì per non fare un rumore che non avrei sentito in nessun caso. La sollevo per ripiegarla e dalla tasca esce un foglio, un conto di ristorante, due coperti, a Sorrento, una bella somma, la data quella della sera prima. Nessuna festa, solo la premura d’imbastirmi una balla per non darmi pensiero. Tradito? In quel punto, in quel momento sì, uno schiaffo in faccia, da metterci una mano sopra per non far vedere. Tradito, ma non era il verbo intero, lei era lì, dormiva dentro le lenzuola comprate insieme ai piatti, tradire era se non stava lì. Me ne accorgo, lo so dire adesso, allora no, uscii di casa con due fogli in tasca, il conto e la lettera tolta dal tovagliolo, dimenticando il libro che mi salvava il viaggio nel vagone tra Campi Flegrei e piazza Cavour. Imbucai la mia lettera in un cestino e di quell’altra carta mi è rimasto il ridicolo dettaglio di un vino bianco, una marca pregiata.

Senza il libro del viaggio si affumicavano i pensieri: è arrivato il conto, è un foglio di via, urgente come un “vattene”, cosa vuoi da città e ragazza, te ne sei andato a smaltire lontano il tempo migliore, qui nessuno conosci e nessuno ti può riassumere gli anni mancati. Cosa vieni a fermarti nella città spalata e ammucchiata, dove basta uno scirocco a staccare tegole, cornicioni, intonaci? Non è posto da nozze. La ragazza ha da sporgersi sopra l’avvenire come sopra un balcone di montagna, tu le puoi offrire un vicolo. Che ti ami non basta ad arrivare al giorno dopo, e che tu l’ami: grazie, lei è la festa, la fortuna, il tuo posto, tu sei il dente estratto da mascella che ritrova il punto di partenza nel cavo del suo abbraccio. Lei è il tuo posto, ma tu non sei il suo. Pensieri da cavallo, scosso, senza fantino che gira in tondo nel senso antiorario della corsa. Mi sfinisco apposta nelle ore di cantiere. “Chiano, guagliò, c’amm’arriva’ a stasera ancora vive”, piano, ragazzo, che dobbiamo arrivare a stasera ancora vivi, mi dice il manovale anziano, fermandosi un momento.

Ma la pala oggi in mano mia si muove da sola, è lei che regge le braccia e spinge nella schiena. Insiste: “Che hai magnato ieri sera, polvere da sparo?”.

E dopo un po’: “Vuoi pure ’a pala mia?”.

Ha ragione, vado al doppio dei suoi colpi di pala, se ne offende e io non riesco a rispondergli neanche con un fiato di sorriso. Stacco tardi anch’io, per una volta non ho fretta di tornare a casa, aspettarla e sedermi di fronte. Buffo sentirsi come un dente, non quello del giudizio.

La cucina è spenta, non preparo la cena, non apparecchio i piatti, niente vino. Siedo con il foglio del conto aperto e aspetto. Lei ritorna, saluta, vede e si mette a sedere.

Quanto siamo rimasti zitti, poi che parole mandate allo sbaraglio nel campo dei centimetri che le nostre mani non potevano attraversare: ho scordato. Deve avermi detto di non fare così, ma io non so più di che materia fosse quel così, se bruciava o era spento.

Ora che è vita andata, recito l’atto di dolore: mi pento e mi dolgo, mi dolgo e mi pento di averle presentato il conto. La presunzione di avere diritto mi gonfiava la vena della fronte. Avanzavo il mio rauco reclamo e più sacrosanto era, più era goffo: le chiedevo conto, e mai si deve tra chi sta in amore. Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l’empio, esiste l’amore finché dura e la città finché non crolla. Poi esistono i bagagli e si ritorna profughi, senza la giustifica della maledizione di una guerra, senza una malasorte da spartire con altri. Di quel conto tutto era stato già pagato e il saldo era che bisognava alzarsi di sedia, di stanza e di città.