CAPITOLO PRIMO
INTRODUTTIVO

La capacità di abituarsi alle circostanze è un tratto spiccato del genere umano. Ben pochi di noi si rendono conto appieno del carattere fortemente insolito, instabile, complicato, incerto, temporaneo dell’organizzazione economica con cui l’Europa occidentale è vissuta nell’ultimo mezzo secolo. Consideriamo naturali, permanenti, sicuri, alcuni dei più singolari e temporanei nostri vantaggi recenti, e ci regoliamo nei nostri piani di conseguenza. Su questa base precaria e ingannevole progettiamo miglioramenti sociali e allestiamo piattaforme politiche, coltiviamo le nostre animosità e le nostre particolari ambizioni, e pensiamo di disporre di un margine bastante per fomentare, anziché mitigare, il conflitto civile nella famiglia europea. Spinto da folli illusioni e da temeraria tracotanza, il popolo tedesco ha scardinato le fondamenta sulle quali tutti vivevamo e costruivamo. Ma i rappresentanti dei popoli francese e britannico si sono messi a rischio di completare l’opera rovinosa cominciata dalla Germania, con una pace che se mandata a effetto non può che danneggiare ulteriormente, quando avrebbe potuto restaurare, la delicata e complessa organizzazione, già scossa e devastata dalla guerra, mediante la quale soltanto i popoli europei possono vivere e lavorare.

In Inghilterra le sembianze esteriori del vivere non ci insegnano ancora a sentire o a renderci conto minimamente che è finita un’èra. Badiamo a riprendere le fila della nostra vita là dove le avevamo lasciate cadere, con questa sola differenza, che molti di noi sembrano parecchio più ricchi di prima. Dove spendevamo un milione prima della guerra, abbiamo ora imparato che possiamo spenderne cento senza risentirne danno apparente. Evidentemente non sfruttavamo al massimo le possibilità della nostra vita economica. Contiamo, perciò, non solo su un ritorno agli agi del 1914, ma su un loro immenso ampliamento e intensificazione. Tutte le classi a un modo edificano così i loro piani, i ricchi progettando di spendere di più e risparmiare meno, i poveri di lavorare meno e spendere di più.

Ma forse solo in Inghilterra (e in America) è possibile essere tanto inconsapevoli. Nell’Europa continentale la terra trema, e non c’è chi non avverta i suoi brontolii. Là non è solo questione di spese improvvide o di «agitazioni operaie»; ma di vita e morte, di fame ed esistenza, e delle paurose convulsioni di una civiltà morente.

 

 

Per chi ha passato a Parigi la maggior parte dei sei mesi seguiti all’armistizio, una visita occasionale a Londra era una strana esperienza. L’Inghilterra è ancora fuori d’Europa. I sordi tremori europei non giungono fino a lei. L’Europa sta a sé e l’Inghilterra non è carne della sua carne. Ma l’Europa fa corpo con sé stessa. Francia, Germania, Italia, Austria e Olanda, Russia e Romania e Polonia pulsano insieme, e la loro struttura e civiltà è essenzialmente una. Sono fiorite insieme, insieme hanno vacillato in una guerra da cui noi, nonostante i nostri enormi contributi e sacrifici, siamo rimasti (a somiglianza sebbene in minor misura dell’America) economicamente fuori; e possono cadere insieme. In ciò sta la portata distruttiva della pace di Parigi. Se la guerra civile europea finirà con Francia e Italia abusanti del loro momentaneo potere vittorioso per distruggere Germania e Austria-Ungheria ora prostrate, esse provocheranno anche la propria distruzione, dati gli occulti vincoli psichici ed economici che le legano così profondamente e inestricabilmente alle loro vittime. Ad ogni modo un inglese che partecipava alla Conferenza di Parigi ed era in quei mesi membro del Supremo Consiglio Economico delle Potenze Alleate era costretto a diventare europeo – esperienza per lui nuova – nelle sue preoccupazioni e prospettive. Là, nel centro nevralgico del sistema europeo, i suoi interessi britannici dovevano in gran parte cedere all’assillo di altri e più terribili spettri. Parigi era un incubo, e la morbosità generale. Un senso di incombente catastrofe sovrastava la frivola scena; la futilità e piccolezza dell’uomo davanti ai grandi eventi che lo fronteggiavano; il misto di importanza e irrealtà delle decisioni; leggerezza, cecità, arroganza, grida confuse da fuori: tutti gli elementi della tragedia antica erano presenti. E stando seduti fra i teatrali ornamenti dei saloni di gala francesi, veniva da chiedersi se i volti straordinari di Wilson e di Clemenceau, con la fissità del loro colorito e l’immutabile caratterizzazione, fossero davvero delle facce e non le maschere tragicomiche di qualche strano dramma o spettacolo di burattini.

I lavori di Parigi avevano tutti quest’aria di straordinaria importanza e irrilevanza insieme. Le decisioni sembravano gravide di conseguenze per il futuro della società umana; eppure l’aria bisbigliava che il verbo non era carne, che esso era futile, insignificante, inefficace, dissociato dai fatti; e si aveva fortemente l’impressione, descritta da Tolstoj in Guerra e pace o da Thomas Hardy nei Dinasti, di eventi marcianti alla loro conclusione destinata, ininfluenzati dalle elucubrazioni degli statisti riuniti a consiglio:

Spirit of the Years

Observe that all wide sight and self-command

Deserts these throngs now driven to demonry

By the Immanent Unrecking. Nought remains

But vindictiveness here amid the strong,

And there amid the weak an impotent rage.

Spirit of the Pities

Why prompts the Will so senseless-shaped a doing?

Spirit of the Years

I have told thee that It works unwittingly,

As one possessed not judging.1

A Parigi, dove chi aveva rapporti con il Supremo Consiglio Economico riceveva quasi ad ogni ora notizie della miseria, disordine e disgregazione di tutta l’Europa centrale e orientale, alleata e nemica del pari, e sentiva dalle labbra dei delegati finanziari di Germania e Austria irrefutabili testimonianze del terribile sfinimento dei loro paesi, una visita occasionale nella sala afosa della casa del Presidente, dove i Quattro portavano a compimento i loro destini tra vuoti e aridi intrighi, non faceva che accrescere la sensazione di incubo. Eppure là a Parigi i problemi dell’Europa erano tremendi e imperiosi, e tornare alla vasta noncuranza di Londra appariva un poco sconcertante. A Londra, infatti, quelle questioni erano molto remote e solo i nostri problemi, di minor conto, inquietanti. Londra era convinta che Parigi stesse facendo una gran confusione nei propri affari, ma restava indifferente. In questo spirito il popolo britannico recepì il trattato senza leggerlo. Ma questo libro è stato scritto sotto l’influenza di Parigi, non di Londra, da uno che sebbene inglese si sente anche europeo, e a causa di una troppo vivida esperienza recente non può disinteressarsi dello svolgimento ulteriore del grande dramma storico di questi giorni, che distruggerà grandi istituzioni ma può anche creare un mondo nuovo.