2.
I ricavi in declino
e la spietata concorrenza dei social

Pubblicità, l’anima (in crisi) dell’editoria

Da quando la stampa è diventata adulta e molto prima che la tv facesse la sua comparsa nel mondo dei consumi mediatici, la pubblicità ha conquistato uno spazio strategico. A tal punto che i media, a partire da quelli cartacei, si sono da un certo momento in poi strutturati come contenitori di annunci commerciali, divenendo progressivamente quasi del tutto dipendenti dalla cosiddetta “raccolta” pubblicitaria. Diciamo “quasi” (con l’ovvia esclusione di tv e radio commerciali, i cui ricavi derivano pressoché interamente dalla pubblicità), perché il livello di tale dipendenza è cresciuto con gradualità nel tempo e con importanti differenze nelle economie più avanzate.

All’inizio la pubblicità rappresentava un introito marginale di una nascente industria, la stampa quotidiana e periodica, che circolava tra le élites del XIX secolo e le cui entrate erano generate da vendite e abbonamenti, in un mondo largamente dominato dall’analfabetismo e in sistemi economici ancora sostanzialmente basati sull’agricoltura.

In Italia allora la si chiamava “réclame” – e ancora oggi sentiamo usare il verbo “reclamizzare” al posto di “pubblicizzare” –, mutuando il termine da una nazione, la Francia, che tra le prime si era dotata di concessionarie di pubblicità. Nel nostro paese, dove l’unità nazionale aveva dato nuovo impulso alla stampa e all’informazione, si deve ad Attilio Manzoni la costituzione della prima concessionaria, nel 1863. A partire da allora, in particolare tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la pubblicità è cresciuta sempre di più nei media, seguendo l’evoluzione del reddito e dei consumi.

Poi sarà la volta delle grandi reti radiofoniche e televisive, in Europa ovunque di proprietà dello Stato, a ospitare annunci commerciali sotto forma di ciò che, da qualche tempo a questa parte, chiamiamo “spot”. È del 1926 la costituzione della Sipra, Società italiana per la pubblicità radiofonica della Rai (allora Eiar). Decenni dopo, nel 1957, a tre anni dall’avvio delle trasmissioni della televisione pubblica, nascerà Carosello, un luogo dedicato in esclusiva alla pubblicità in tv. Rimasto in onda per un ventennio, Carosello lascerà il posto alla pianificazione pubblicitaria direttamente negli spazi tra i programmi. A partire dai primi anni Ottanta, all’inizio solo sulle reti commerciali poi anche sulla Rai, la pubblicità comincerà a interrompere la visione di spettacoli, film e varietà, secondo il modello da tempo in voga negli Stati Uniti.

Ed è proprio con la tv commerciale di quel periodo e con l’esplosione della società dei consumi che la pubblicità cresce, sino a diventare la principale fonte di ricavi dell’intero sistema editoriale e a determinarne il futuro. Già nel 1983, Publitalia 80, la concessionaria del sistema Mediaset, supera nettamente la raccolta totale della Rai35, costringendo l’emittente pubblica a vendere in modo più aggressivo i propri spazi e ad adottare gradualmente i contenuti televisivi tipici di una tv commerciale.

La pubblicità colonizza tutti i media, ma non allo stesso modo e nella stessa proporzione. In Italia, ad esempio, dall’affermazione delle tv commerciali in poi, la distribuzione della raccolta pubblicitaria è sempre stata sbilanciata a favore del mezzo televisivo. Una prevalenza, questa, sugli altri mezzi, sulla quale pesa il ruolo di rilievo della Rai, che aggiunge agli incassi derivanti da una tassa specifica (il canone, oggi potenziato con un sistema di esazione implacabile) la vendita di spazi pubblicitari.

La spinta, rabbiosa, di un paese che aveva voglia di crescere e di promuovere i propri prodotti per il consumo e che era stato tenuto per anni ai margini della comunicazione televisiva a causa del monopolio statale, è stata una delle ragioni più importanti del successo delle tv e delle radio commerciali. Ma anche, evidentemente, una delle concause del disequilibrio distributivo tra media in concorrenza tra loro, in particolare carta stampata e tv. Concausa, perché non dobbiamo dimenticare il diverso livello di penetrazione della stampa italiana, che agiva – come ricordato – su un bacino decisamente più ridotto di quanto accadeva negli stessi anni nei paesi europei più sviluppati.

Non stupisce quindi come la tv nel nostro paese assorba sempre intorno al 50% del totale degli investimenti pubblicitari, con punte anche superiori negli anni della crisi, e ciò a scapito degli altri mezzi, in particolare i quotidiani, la cui quota è ormai strutturalmente scesa sotto il 10%36 del totale (negli anni Sessanta, la quota dei ricavi pubblicitari della carta stampata era pari al 60% del totale). Nell’Unione Europea a 27 membri la quota di investimenti pubblicitari destinati al sistema televisivo è pari, in media, al 33% del totale, peraltro in qualche caso all’interno di valori complessivi decisamente più elevati di quelli italiani a parità di Pil. Negli Stati Uniti questa percentuale è del 39%.

La crisi di questi anni ha peggiorato il quadro, soprattutto in termini di andamento dei ricavi pubblicitari, che in Italia, come in Spagna, hanno registrato la contrazione più forte e duratura. In particolare, la stampa quotidiana e periodica tra il 2008 e il 2015, secondo la Fieg, avrebbe perso il 50% dei ricavi complessivi per effetto della riduzione del 60% degli introiti pubblicitari37. Su questa rovinosa caduta, peraltro, si era da tempo innestato il dinamismo del web, diventato il più forte concorrente di qualsiasi altro mezzo: già nel 2013 in Italia il fatturato pubblicità della rete (1,8 miliardi) sopravanzava di slancio quello della stampa nel suo insieme (1,4 miliardi)38. Il declino del più antico e selettivo tra i media d’informazione era ormai dichiarato, così come la sua crescente marginalizzazione nella raccolta pubblicitaria.

Anche nella carta stampata l’Italia, rispetto agli altri grandi paesi europei, fa un po’ storia a sé. Soprattutto perché, da un certo momento in avanti, la componente “ricavi pubblicitari” ha rappresentato per l’editoria tradizionale la voce in assoluto più rilevante. La dipendenza dalla raccolta di cui si diceva all’inizio è diventata permanente, con introiti pubblicitari largamente superiori al 60% dei ricavi totali dei principali gruppi editoriali. Ciò riguardava non solo i periodici, concepiti praticamente fin dall’inizio come contenitori di pubblicità, ma anche i quotidiani, con una quota derivante da questi introiti compresa, tra il 2004 e il 2013, rispettivamente tra il 50% e poco più del 40% del ricavi globali. Il miglioramento di questo rapporto a favore delle vendite è dovuto sostanzialmente al crollo, più veloce e più intenso, della raccolta pubblicitaria rispetto all’erosione dei lettori.

Negli anni buoni, in particolare tra il 1990 e i primi anni Duemila, tutto questo ha stimolato una espansione “fisica” davvero notevole dei quotidiani, che sono cresciuti di anno in anno in termini di pagine, nuovi inserti, supplementi, collaterali, in una corsa bulimica all’acquisizione di annunci pubblicitari e di operazioni di marketing di marchi e aziende. Come sappiamo, il ritorno alla normalità per effetto della crisi è stato ed è piuttosto doloroso.

Tornando agli investimenti pubblicitari, essi sono aumentati in Italia pressoché ininterrottamente sino al 2007, anno in cui il sistema ha raggiunto il valore record di circa 10,3 miliardi di euro39. Da allora a oggi è iniziata una discesa inarrestabile che ha ridotto la raccolta netta destinata all’editoria tradizionale (stampa, radio, tv e piattaforme Internet collegate) di circa il 37%, raggiungendo i 6,5 miliardi nel 2015. Il mercato, cioè, si è contratto di una misura diverse volte superiore alla diminuzione effettiva dei consumi delle famiglie, che nel periodo 2008-2015 hanno registrato un andamento negativo solo in tre anni su otto e comunque con contrazioni inferiori al 3%40.

L’entità di questa riduzione della raccolta pubblicitaria è superiore a quella di quasi tutti i paesi occidentali, eccezion fatta per la Spagna, la cui crisi economica ha avuto conseguenze sull’occupazione e sui consumi anche più pesanti che da noi. In Gran Bretagna, Francia, Germania – paesi che sono confrontabili con il nostro per dimensioni e caratteristiche del sistema socio-economico – la caduta degli investimenti pubblicitari è stata significativa negli anni 2009-2011, ma molto meno acuta. Già dal 2012 queste economie segnano un progressivo recupero e oggi buona parte di quelle perdite sono state azzerate, a tal punto che la Gran Bretagna segna un +19% rispetto al 2007, la Germania +1%, la Francia un decremento contenuto (-5%).

A parziale giustificazione di andamenti così difformi ci sono le caratteristiche dei mercati sottostanti. I più importanti paesi europei hanno operatori industriali e commerciali di grandi o grandissime dimensioni, in segmenti estremamente attivi nel mondo della comunicazione. Si pensi al settore chimico-farmaceutico, dove la Germania domina con aziende leader mondiali, dotate di grandi budget per la promozione e la pubblicità; o al settore retail, che in Italia è diviso in tanti piccoli operatori, mentre altrove, come in Francia, è rappresentato da aziende molto grandi che fanno della comunicazione una leva strategica per la competizione e che sono in cima alla classifica degli investitori in pubblicità. Oppure alla finanza, che mediamente si colloca in questi paesi nei primi tre-cinque posti tra i maggiori inserzionisti, con operatori attivi in servizi chiave per il mass market, come i servizi bancari o la previdenza complementare.

Da noi pochi settori merceologici e relativi operatori facevano e fanno il grosso degli investimenti. Negli anni precedenti la crisi del 2007-2008, automotive e tlc rappresentavano da soli oltre il 40% del mercato. Ancora oggi dall’auto proviene più del 30% degli investimenti, dal settore retail meno del 5%, dalla finanza poco più del 7%, dall’entertainment poco più dell’8%. Basti dire che i ricavi pubblicitari in quest’ultimo settore in paesi come Francia e Gran Bretagna valgono poco meno dell’intero budget di digital advertising italiano41.

La reazione alla crisi dei settori leader, in qualche caso particolarmente intensa, ha provocato una riduzione più che proporzionale degli investimenti complessivi. Questa tendenza ha investito un po’ tutti i segmenti chiave attorno ai quali girava la pubblicità. I nuovi entranti – banche, assicurazioni, poste – che, a partire dalla metà degli anni Novanta, a valle della liberalizzazione del mercato, avevano cominciato a incrementare significativamente nel nostro paese la propria presenza pubblicitaria, nel corso della crisi, fatti salvi pochi casi, hanno ridimensionato i propri investimenti o li hanno resi discontinui e perciò anche inefficaci. Su queste scelte ha senz’altro influito il pesante clima negativo innescato dalla crisi, poi aggravato dalle difficoltà reputazionali emerse a vario titolo, per esempio in ambito bancario. In ogni caso, un’economia fatta essenzialmente di piccole e medie imprese, molte delle quali attive sui mercati esteri e poco presenti nel contesto italiano, non aveva grandi spazi per compensare la diminuzione dei budget delle grandi aziende.

Anche oggi, a fronte di una piccola ma sostanziale ripresa, la struttura della spesa pubblicitaria non è cambiata e il ritorno ai valori degli anni pre-crisi non c’è stato. Difficile prevedere che avvenga in futuro, in un contesto ancora così fragile e in piena trasformazione. La nostra quota di investimenti pubblicitari tra i primi cinque grandi paesi europei, a fronte di una popolazione che sfiora il 20% dell’universo considerato e una quota di Pil superiore al 16%, non va oltre il 12% e la porzione di digital advertising è pari a un modesto 7,9%42. Come qualcuno ha osservato, Gran Bretagna, Germania e Francia giocano in un altro campionato: l’intero mercato italiano supera di poco il 30% di quello britannico, il 40% di quello tedesco ed è poco meno del 70% di quello francese. Nel digitale siamo appena sopra la Spagna ma ultimi tra i grandi. L’unico segmento in cui saliamo sul podio è quello degli investimenti pubblicitari sui canali tv grazie ai quali, per effetto dello squilibrio nella distribuzione dei ricavi tra media di cui s’è detto, riusciamo a conquistare il terzo posto, dietro a Regno Unito e Germania.

C’è chi ha calcolato in almeno un miliardo di euro la distanza effettiva tra gli attuali investimenti in comunicazione e il potenziale della nostra economia della pubblicità, differenziale che difficilmente potremo colmare in assenza di una ripresa significativa complessiva degli investimenti industriali e commerciali. Il mercato non registra, nei fatti, un adeguato recupero dei consumi i cui valori, anche per il permanere di una condizione deflattiva dei prezzi, rimangono stabilmente bassi. Così gli operatori restano diffidenti riguardo a possibili incrementi della pressione pubblicitaria, che rischia di non produrre conseguenze nei ricavi ma solo di aumentare i costi. C’è una sorta di attesa per una ripresa più sostenuta, che però non arriva e che comunque non si manifesterà più nelle stesse forme.

L’Italia è cambiata, la tendenza a risparmiare in vista di un futuro che appare ancora molto incerto si è rafforzata. L’occupazione è in leggera crescita, ma a ritmi che non consentono di immaginare un effettivo aumento del reddito disponibile e, quindi, della quota destinata ai consumi. Gli interventi di politica fiscale hanno prodotto qualche sollievo, ma non sembrano in grado di modificare nella sostanza il quadro complessivo. Le perduranti incertezze politiche fanno il resto, inducendo ansia nelle famiglie, che scontano inoltre un effettivo calo del potere d’acquisto, con nuove sacche di povertà prodotte dalla disoccupazione di lungo periodo e dalla deindustrializzazione di intere aree del paese. La curva demografica, infine, rende difficile essere ottimisti nel medio periodo, con un invecchiamento della popolazione sempre più pronunciato, che incide in misura non trascurabile sulla dinamica e sulla filiera dei consumi.

Intanto, anche la composizione dei ricavi pubblicitari, nel pieno della crisi, si è radicalmente modificata. Un mondo nuovo si fa avanti, fatto di Internet search e social media, con i vari Google, Facebook, Instagram, Snapchat, YouTube. Sono loro i mogul della pubblicità del Terzo Millennio, i campioni della nuova raccolta pubblicitaria globale.

Carta stampata, ricavi in picchiata (senza ritorno)

La crisi della raccolta ha investito tutti i comparti, ma il più colpito è stato quello della carta stampata. In una sequenza drammatica, a partire dal 2007 e poi in progressivo forte peggioramento negli anni successivi, sull’editoria fatta di quotidiani e periodici si è abbattuta una tempesta senza precedenti.

Tra il 2007 e il 2014 il calo dei ricavi pubblicitari è stato del 65% – peggio di quanto stimato dalla Fieg –, pari in valore a oltre 1,9 miliardi (sui circa 3 miliardi di partenza). Difficile riscontrare una contrazione così intensa in un arco di tempo così breve, in qualsiasi altro settore industriale negli anni della crisi. Non c’è stato anno, da allora, in cui i bilanci delle case editrici non abbiano registrato significative perdite alla voce pubblicità, un trend che non è destinato ad arrestarsi.

Eppure, proprio nell’ultimo decennio la stampa tradizionale ha conosciuto col web una visibilità e una diffusione inimmaginabili. Da prodotto d’élite, e sempre più di nicchia, se guardiamo alle vendite in edicola, i grandi quotidiani con i loro siti sono diventati per milioni di persone la porta d’accesso, totalmente gratuita, all’informazione e all’intrattenimento in tempo reale. Milioni di click e di contatti, per un pubblico, in apparenza, di dimensioni televisive. Per non parlare dell’espansione dei contenuti, soprattutto video, che hanno reso la stampa d’informazione un ibrido senza precedenti, fatto di articoli, commenti, cronache dal vivo, video, registrazioni e testimonianze di lettori e utenti, reportage fotografici, galleries per tutti i gusti, giochi online, conversazioni social. Il tutto moltiplicato dalla proliferazione delle piattaforme mobili, attraverso le quali la fruizione di Internet è cresciuta nella popolazione tra i 55 e i 74 anni del 79,6% nel 2016. Persino tra le casalinghe, il segmento tradizionalmente più refrattario al nuovo e più ancorato al regno della tv, l’accesso alla rete è aumentato del 52,9%43. Naturalmente, solo una parte di questo colossale traffico ha investito siti e portali della carta stampata. Si tratta comunque di un mercato di dimensioni gigantesche, ma per la stampa piuttosto avaro di soddisfazioni finanziarie.

Siti, portali e apps di quotidiani, con i loro autorevoli brand, sono diventati, grazie alla rete, media straordinari, potenti, pervasivi, ubiquitari. Ma non meno costosi, per via degli investimenti continui in tecnologie e sistemi, e vittime loro stessi del successo del web, della sua sostanziale gratuità e, in tempi più recenti, della stasi e della contrazione degli investimenti pubblicitari online. I ricavi dalla pubblicità sulla rete sono oggi in Italia pari complessivamente a 2,36 miliardi di euro44, una torta in crescita che solo in parte ha portato qualche beneficio alle esangui casse della editoria a stampa. Il grosso è andato, come sappiamo, al search, che di questi introiti intercetta, secondo le stime, tra il 40% e il 60%.

Le cose non vanno meglio altrove. Ad esempio, la raccolta pubblicitaria dell’editoria a stampa in Gran Bretagna è scesa nel 2016 di altri 135 milioni di sterline, portando il settore a intercettare complessivamente meno di 900 milioni di sterline. Si tratta di investimenti – dice Douglas McCabe, Ceo della Enders, società londinese di ricerca specializzata su questi temi – che non torneranno più indietro. D’altronde, la diffusione media di copie di quotidiani si è ridotta a poco più della metà rispetto al 2000, passando da quasi 14 milioni di copie a poco meno di 8 milioni.

Anche l’advertising online e digital sulle piattaforme dei quotidiani, fatto prevalentemente di banner e pop up, è in controtendenza rispetto alla crescita a due cifre degli investimenti sulla rete e anzi segnala una diminuzione del 4%. Ciò anche a causa della crescente insofferenza, da parte dei navigatori, alla modalità “spot” o annuncio tradizionale con cui viene proposta la comunicazione commerciale sui siti. Il crescente impiego, di cui parleremo tra poco, di software cosiddetti ad block, cioè che impediscono a banner o a pop up di attivarsi, peggiora le cose.

C’è stata una massiva migrazione della pubblicità prima dalla stampa all’online e ora dall’online al mobile. Bisogna partire da qui, dice Tim Elkington dell’Interactive Advertising Bureau, per capire i numeri dei quotidiani. E questo spiega gli sforzi, in corso in diversi contesti, di concentrare la potenza di fuoco della stampa, anche se per farlo è necessario consorziarsi tra concorrenti. In Gran Bretagna ci stanno provando gli editori di grandi testate come “The Daily Telegraph” e “The Mirror”, insieme ad altri, dando vita a una unità integrata per la raccolta pubblicitaria online sulle loro piattaforme. Da noi ci sono, da tempo, accordi tra editori che ruotano attorno alle concessionarie più forti, fin qui con risultati deludenti, almeno se guardiamo agli introiti sul digitale.

La ricerca nel mondo online di spazi commerciali da parte di quotidiani e periodici rischia di essere, nel lungo termine, poco gratificante. L’aumento del traffico sui siti free non incrementa significativamente i ricavi, mentre le difficoltà nello sviluppare una strategia centrata sui contenuti incatenano i quotidiani italiani alla loro nicchia di lettori cartacei, peraltro in continua erosione.

Non mancano, però, esempi di soluzioni alternative. È il caso dell’“Independent”, quotidiano britannico fondato circa trent’anni fa e da più di venti sempre rigorosamente in perdita, che ha archiviato nel 2016 il suo primo anno in attivo, sei mesi dopo avere chiuso le edizioni cartacee.

Il passaggio al solo digitale ha fatto letteralmente esplodere il traffico sulle sue piattaforme, che avrebbero raggiunto la cifra record di 74,3 milioni di utenti unici nell’agosto scorso, con una crescita del 41% sull’anno precedente. Il digital advertising è cresciuto del 45% sul 2015, apportando ricavi per circa 20 milioni di sterline45. Certo, è difficile confrontare il quotidiano della City, così classico e stylish, con la sua storia sofferta di voce neutrale e di giornalismo di qualità orientato alla politica internazionale, con la nuova gazzetta digitale. Però oggi questa testata dispone di un nuovo posizionamento e di risorse derivanti da abbonamenti e pubblicità digitale che le permettono di sviluppare il proprio mercato, guardando più ai nuovi provider di informazioni digitali, come BuzzFeed e The Huffington Post, che agli antichi e blasonati rivali in edicola.

La ricerca di nuove fonti di ricavo alternative alla pubblicità ha spinto grandi newspapers come il “New York Times” ad incrementare sempre di più la vendita solo digitale, che per la testata della Grande Mela ha superato di slancio il milione di copie, mentre il “Wall Street Journal” ha raggiunto le 720 mila. Ma, per restare negli Usa, altri gruppi editoriali, come il Tribune Publishing (oggi Tronc), che controlla il “Los Angeles Times”, il “Chicago Tribune” e il “Baltimore Sun” raggiungono a stento le 70 mila copie.

Difficile, quindi, per tutti i protagonisti della carta stampata fare i conti, letteralmente, con una transizione così veloce e dirompente verso un nuovo modello di business. Ma inevitabile. Una vera sfida, poi, pensare a un cambiamento così radicale in Italia, paese che deve anche affrontare un ritardo che è culturale prima che tecnologico. Ma questa è la strada che hanno davanti i grandi giornali e che altrove, come si è visto, comincia a dare i primi frutti.

La caduta degli investimenti pubblicitari è, d’altra parte, un fenomeno globale, che produce ovunque drammatici impatti sul mondo dell’editoria tradizionale. E che si combina con la riduzione progressiva e sempre più accentuata dei lettori e il contestuale spostamento degli investimenti pubblicitari verso nuovi media digitali e social. Negli Stati Uniti, ad esempio, si calcola che tra il 2005 e il 2015 i ricavi pubblicitari destinati alla stampa (incluse le edizioni digitali) siano passati da 50 a circa 20 miliardi di dollari, mentre gli introiti pubblicitari dai siti online dei quotidiani sarebbero cresciuti nello stesso periodo di solo 1,5 miliardi di dollari46. Peraltro, la diffusione di alcuni tra i più grandi quotidiani statunitensi è scesa nello stesso periodo di circa il 50% in grandi centri come Miami o San Francisco. In Gran Bretagna, un tabloid popolare di grandi tirature come “The Sun” – una formula editoriale sconosciuta in Italia – ha perso dal 2008 un milione di lettori.

Tutte le grandi aziende editoriali del mondo sono di fronte a uno scenario di resilienza, di tagli di costi, di innovazione, di ricerca di nuovi canali distributivi, di nuovi lettori o di nuovi consumatori di contenuti informativi a pagamento. Alcuni, come il “Washington Post”, hanno deciso di difendere la propria visibilità di marchio dell’informazione distribuendo tutti i propri contenuti sotto forma di instant articles, in particolare, su Facebook, con cui diverse testate hanno stretto partnership per la distribuzione di contenuti. La tesi, dichiara Cory Haik, executive director del “Washington Post”, è che è ormai tempo di fare una sperimentazione su larga scala, seguendo gli insegnamenti di Jeff Bezos. Senza esitazioni47.

La scommessa è quella di contrastare la progressiva marginalizzazione dei canali tradizionali, aumentare considerevolmente traffico e views, incrementare gli introiti pubblicitari. Nessuno, però, sostiene Gabriel Kahn, docente di giornalismo alla University of Southern California, si aspetta che nella sfida con i giganti del digitale la stampa possa vincere: “è solo questione di sopravvivenza”. Ma tant’è. Tutte le aziende editoriali sono alla (difficile) ricerca di nuovi modelli per trovare ricavi sostenibili diversi dalla pubblicità tradizionale e più generosi del semplice abbonamento. Un passaggio epocale che segnerà nei prossimi anni la completa mutazione del mondo dell’informazione.

Tv: i budget a rischio e la minaccia fantasma

In un mercato che cambia così profondamente e velocemente, nel pieno di una lunga crisi dei consumi e degli investimenti e sotto la pressione di un clima d’opinione pessimistico e rinunciatario (che ancora affligge la nostra economia), la tv, se guardiamo alla quota complessiva sui ricavi totali, è riuscita in Italia a mantenere una forte presa sugli inserzionisti e a difendere i propri bilanci meglio degli altri comparti dell’editoria tradizionale.

Anche nel periodo che va dal 2008 al 2015 le ricerche, pur non sempre omogenee e confrontabili tra loro, segnalano una sostanziale stabilità della leadership storica dei media televisivi con una quota, come si è detto, intorno al 50% del totale. Nel 2015, in particolare, tv generaliste, satellitari e digitali, free e pay, hanno raccolto oltre 3,6 miliardi, il 49% circa del mercato48. Ma, anche in questo caso, la distanza dagli anni pre-crisi è notevole. Nel 2007 il sistema televisivo italiano raccoglieva poco più di 5 miliardi, peraltro distribuiti su una platea molto più ristretta per via della fase appena iniziale della digitalizzazione e a fronte di un numero molto più contenuto di canali e piattaforme.

Secondo l’Agcom, l’Authority delle comunicazioni, tra il 2010 e il 2015 i ricavi da pubblicità destinati al sistema televisivo sono passati da 4,8 a 3,2 miliardi di euro: il 44% in meno. La riduzione più vistosa dei ricavi pubblicitari ha colpito la tv pubblica, che ha visto i propri budget più che dimezzati tra il 2007 e il 2011. Storicamente sempre seconda a Publitalia (Mediaset), anche per motivi regolamentari (i famosi “tetti” di affollamento pubblicitario), Sipra, la concessionaria da qualche tempo ridenominata Rai Pubblicità, ha dovuto fare i conti con un mercato in significativa contrazione e con un concorrente in chiaro, Mediaset appunto, deciso a difendere i propri introiti.

Lo scontro tra i due oligopolisti, per di più, si svolgeva in un’arena sempre più affollata, con ormai quasi duecento canali nazionali e circa cento locali. La Rai, da parte sua, ha cercato di resistere alla discesa del fatturato anche con una feroce competizione sui prezzi, grazie alla stabilità dei ricavi derivanti dal canone. Mediaset ha cercato a sua volta di diversificare i propri incassi entrando nell’area delle pay tv con l’operazione Premium, oggi al centro di una disputa con l’annunciato compratore della piattaforma a pagamento, la francese Vivendi, che vuole rinunciare all’accordo con la famiglia Berlusconi e punta a controllare direttamente il secondo editore televisivo italiano.

Nel pieno del confronto tra i grandi protagonisti della tv italiana, l’intero comparto ha subìto profonde trasformazioni. Intanto, il consolidamento attorno a un unico operatore satellitare aveva già alterato la composizione della spesa tv degli italiani e modificato parzialmente il mercato della raccolta, a sua volta intercettato dal nuovo editore televisivo. Sky aggrega (dati 2015) poco più di 4,7 milioni di abbonati, con ricavi pari a 2,4 miliardi di euro, un decimo dei quali provenienti dalla raccolta.

Il passaggio da una tv completamente gratuita a un sistema a pagamento ha eroso e segmentato la platea televisiva tradizionale, polarizzando le audience in termini sia sociali sia generazionali. L’ingresso recente di nuovi operatori nel campo dei contenuti, combinato con l’uso sempre più intenso di piattaforme alternative alla tv, come tablet e smartphone, sta a sua volta modificando le modalità di fruizione della programmazione televisiva, rendendo molto complessa la misurazione puntuale dei consumi.

L’impatto sulla quantità e sulla qualità della raccolta è evidente. La tv generalista concentra i suoi ascolti, come abbiamo visto, in fasce anziane della popolazione, cui destina un’offerta tradizionale di contenuti che richiama investitori mass market orientati ai consumi delle famiglie di reddito medio basso e a un’utenza di età più avanzata. Anche dando un superficiale sguardo ai break pubblicitari televisivi nelle ore di massimo ascolto, non sfugge la vistosa deriva verso prodotti tipicamente da tarda età, mentre si riducono gli investimenti in aree commerciali rivolti alla fascia dei più giovani, dalla prima infanzia all’adolescenza, in via di accelerato trasferimento sui nuovi media digitali e social. Si tratta di segmenti di consumo, espressione di una fascia demografica da noi in contrazione, che cercano e trovano altrove contenuti televisivi più adeguati.

Ad aggravare il drenaggio di risorse dei consumatori televisivi e a spingere verso una segmentazione sempre più articolata delle audience ci si mettono anche le nuove piattaforme on demand. I ricavi lì, sono su abbonamento o per acquisto puntuale, la pubblicità non c’entra. Ma è chiaro che parliamo di pubblici cosiddetti “alto consumanti”, i cui ascolti vengono dirottati su canali pay e dunque sottratti al contatto con l’inserzionista. I ricercatissimi millenials, ad esempio, sono refrattari ai messaggi di marketing e fuggono dalla tv tradizionale sbarcando su piattaforme prive di pubblicità. Il 59% di loro preferisce scegliere in totale autonomia il tipo di contenuto da vedere, senza seguire la programmazione televisiva49. Lo stesso accade a porzioni crescenti di popolazione televisiva, che tagliano abbonamenti via cavo (dove esistono) o satellitari per godersi contenuti di qualità, non interrotti da annunci pubblicitari. Una percentuale pari al 56% degli utenti in Italia ritiene che una programmazione priva di pubblicità sia importante e che valga la pena di pagare per averla50. È la nuova minaccia che incombe sui ricavi pubblicitari tradizionali.

Si è detto, nel primo capitolo, di Netflix, arrivata in Italia solo nel 2016 ma già in grado di acquisire crescenti quote del mercato dei contenuti televisivi. Ma non c’è solo Netflix. Ci sono, da tempo, solo per restare dalle nostre parti, Fastweb (anche in accordo con Sky), Apple Tv, Telecom, Chili, Infinity (Mediaset), Amazon Prime che per vendere i propri prodotti non hanno nemmeno bisogno della tv. Tutti insieme valgono una quota di mercato per il momento ancora marginale.

Se poi guardiamo ai paesi più avanzati, vediamo come i ricavi si stiano gradualmente spostando verso un mondo che non ha infrastrutture distributive proprie, ma utilizza quelle pubbliche – si fa per dire – dei grandi operatori delle tlc. Non è un caso se in Gran Bretagna il 100% del mercato della pay tv è basato su offerte integrate che sfruttano la potenza della banda larga. British Telecom è diventato il principale competitore di Sky, che reagisce a sua volta portando la sfida a Bt direttamente nel campo della telefonia, voce e dati. In Spagna, mercato dai consumi piuttosto simili al nostro, l’offerta pay è interamente nelle mani dei colossi delle tlc – Telefonica-Movistar, Vodafone-Ono, Orange – che si affrontano con aggressive politiche di prezzo e di servizio, tutte su banda larga. In Francia gli operatori Internet sono molto attivi, hanno sottratto una quota rilevante a Canal+ e sono ormai prossimi al 40% del mercato. In Germania almeno il 30% del mercato pay è controllato da tv via cavo o da Internet providers51. Unica eccezione, l’Italia, dove il mercato pay è ancora quasi interamente nelle mani delle tv generaliste o satellitari.

Quanto potrà durare questo splendido isolamento? Certo, la lentezza con la quale da noi si sviluppa la banda larga, precondizione per la nascita di un vero mercato competitivo dei contenuti su piattaforme video, aiuta a mantenere lo status quo. Ma è chiaro che questo scenario presto o tardi si modificherà e costringerà gli attori in campo a ripensare le proprie strategie. A partire dai grandi della telefonia italiana, sin qui alla finestra.

Altre iniziative, pur con modalità diverse, paiono andare nella stessa direzione. L’annunciata fusione tra At&t e Time Warner punta a contrastare il crescente assedio ai ricavi pubblicitari televisivi dei nuovi protagonisti della rete. Un’operazione come questa, ammesso che non sia ostacolata dalla manifesta contrarietà di Trump, consentirà ad At&t, il gigante della telefonia che l’ha voluta, di rafforzare la sua presa su un mercato, quello televisivo, dove è già presente con DirectTv (comprata nel 2014 per 50 miliardi di dollari) e di allargare significativamente la propria offerta su Internet, dove opera come uno dei principali fornitori di accessi alla rete. Acquisendo Time Warner con un investimento colossale apparentemente in controtendenza, At&t potrà portare a casa un bouquet di contenuti tv tra i più pregiati e con marchi leader dell’informazione e dell’intrattenimento, come Cnn, Hbo, Warner Bros. (gli studios di Hollywood), solo per citare i più noti. Il contesto che spinge ad aggregazioni come questa è sempre quello di un mercato televisivo in contrazione: gli americani che guardavano la tv erano, nel 2016, l’11% in meno di sei anni prima. Tra i giovani di 12-24 anni il decremento, nello stesso arco di tempo, sale al 40%52.

Mentre negli Stati Uniti la telefonia si espande nel regno della “vecchia” televisione, da noi in Europa si confrontano e si scontrano gli operatori dei media e delle tlc. Murdoch, oltre a entrare nel mercato della telefonia mobile in Gran Bretagna, compra il controllo totalitario di Sky attraverso 21st Century Fox, che già detiene il 39% del capitale dell’operatore tv con base a Londra. Un’operazione già tentata nel 2011, poi rinviata a causa dello scandalo legato al quotidiano “News of The World” e che, come allora, punta all’ulteriore integrazione e a maggiori sinergie all’interno della struttura produttiva e distributiva di uno dei più grandi gruppi editoriali del mondo.

Da noi è Mediaset a ricevere le attenzioni, ostili, di Vivendi, il colosso media e tlc francese che, dopo avere di fatto acquisito il controllo di Telecom Italia, manifesta esplicitamente il desiderio di contendere alla famiglia Berlusconi il controllo della prima rete privata italiana per poi, dicono alcuni, fonderla, come detto, con il colosso telefonico (anche se questo contrasta con i paletti Antitrust) o, in alternativa, tenersi le reti tv cedendo ad altri francesi, i telefonici di Orange, la quota in Telecom (oggi Tim).

Insomma, grandi cambiamenti stanno ridisegnando la mappa di chi gestisce i network televisivi, decisi a trasformarsi in colossi internazionali multipiattaforma e a utilizzare contenuti esclusivi per prepararsi alla sfida decisiva con un web sempre più potente e aggressivo.

In questa trasformazione c’è chi vede anche una sorta di ritorno al passato, in forme nuove, con televisioni dotate di pochi canali, al posto delle centinaia di cui oggi dispongono le tv via cavo o satellitari, ma ciascuno con un’inedita profondità e varietà di contenuti, da vedere on demand. Netflix o Amazon potrebbero essere i prototipi di queste tv del futuro (prossimo). Investono milioni per produrre serie esclusive, film, format cui accedere da qualunque piattaforma. I broadcaster tradizionali si concentreranno invece sugli eventi sportivi in diretta, sui grandi appuntamenti musicali live, per rendere la loro offerta competitiva e, da un certo punto di vista, irrinunciabile.

Sarebbe prematuro, quindi, parlare di crisi o addirittura di fine della tv. Come qualcuno ha di recente osservato, la tv, specie nel paese – gli Usa – che l’ha sperimentata in tutte le forme possibili, è tutt’altro che in ritirata, nonostante la frammentazione delle audience, le crescenti difficoltà nella raccolta e la competizione a tutto campo di Internet. “Mentre i media digitali stavano costantemente divenendo il comune denominatore, al più basso livello, di una competizione centrata sul traffico, la televisione stava entrando in una delle sue cicliche età dell’oro, stava diventando un evento culturale”. È questa la diagnosi anticonformista di un discusso, ma influente, esperto di media e comunicazione americano, Michael Wolff53, che pronostica l’inevitabile supremazia dei contenuti di qualità visibili su un mezzo, la tv, che siamo tutti più o meno abituati a remunerare per i servizi che ci rende, il piacere e il divertimento che ci dà, le narrazioni sempre più coinvolgenti che ci propone.

A differenza di un mondo, il web, dove tutto è free o quasi, ma che è anche meno ricco della nuova, spumeggiante offerta televisiva, sia essa proposta dai broadcaster tradizionali o dai nuovi fornitori di serie, film e format per la tv che producono e poi distribuiscono grazie alla rete, come la già citata Netflix. E sarebbero appunto nuovi fornitori di contenuti a rovesciare, secondo Wolff, l’assioma di Internet che trasforma e sottomette la televisione al suo potere. Netflix, il provider di film e serie a pagamento, nato dalle ceneri di un business sepolto dall’evoluzione tecnologica (come il noleggio di dvd), poi passato con successo alla distribuzione di contenuti via streaming, è oggi l’entità in grado di trasferire, dice ancora Wolff, valori e comportamenti tipici della programmazione televisiva a un universo di utilizzatori di schermi pc o di tablet interattivi. Una specie di unrevolution, rivoluzione alla rovescia o controrivoluzione della tv.

Si vedrà. Difficile, comunque, applicare questa visione alle strategie di lungo periodo degli editori televisivi che basano il loro business su infrastrutture trasmissive di grandi dimensioni e strutture produttive complesse e costose, per sostenere le quali i ricavi pubblicitari sono indispensabili. Ricavi che seguono lo spostamento di intere fasce di audience, specialmente quelle più giovani, verso Internet, e costringono i grandi network tv a ripensare il loro futuro. L’analisi di Wolff, in qualche punto capace di cogliere nel segno, appare un richiamo di sapore nostalgico e a tratti polemico (verso Internet), che sottostima l’irreversibilità dei fenomeni in corso.

Intanto sulla rete, calamìta degli investimenti pubblicitari, si staglia l’ombra dei software che possono bloccare o ridurre il contatto con gli annunci pubblicitari. L’onda lunga del World Wide Web, libero e refrattario per natura a pagare contenuti e prestazioni, comincia a contagiare la presenza sempre più massiccia dell’advertising online.

Social e over-the-top, i nuovi padroni della raccolta

Si è detto nelle pagine precedenti che la spesa complessiva in pubblicità in Italia è scesa dai circa 10,3 miliardi del 2007 ai 6,5 miliardi del 2015. Entrambi i valori incorporano i ricavi destinati all’editoria tradizionale e non considerano quelli destinati al search e agli over-the-top. Sulla porzione crescente assorbita dai colossi di Internet non esistono dati ufficiali: le loro residenze fiscali, tutte rigorosamente fuori dalla portata dell’Agenzia delle entrate, non consentono di avere notizie certe su dimensioni e composizione dei loro fatturati.

Negli ambienti della comunicazione circolano, però, stime convergenti secondo le quali, ad esempio, nel 2016 la quota di investimenti raccolta dai grandi operatori della rete (e, in particolare, da Google e Facebook) si sarebbe attestata a circa 1,6 miliardi di euro, a fronte di un ammontare complessivo del mercato dato a oltre 7,6 miliardi54. Se così fosse, la raccolta attribuita a questi canali si collocherebbe, per dimensioni, subito dopo quella complessiva delle tv, con una frazione del totale superiore al 20%.

Semplicemente proiettando i tassi di crescita attuali, i motori di ricerca e le piattaforme social assorbiranno anche in Italia, al massimo entro cinque anni, più del 50% del mercato, superando largamente la raccolta tv e surclassando di diverse lunghezze ciò che a quel punto rimarrà dei ricavi destinati a giornali, periodici, radio, cinema e outdoor che nel 2015, tutti insieme, raccoglievano poco di più dei due grandi della rete.

Anche in questo caso siamo di fronte a un fenomeno globale, solo con velocità diverse. Negli Stati Uniti Facebook e Google hanno totalizzato nel 2015 il 75% dei nuovi ricavi di tutto lo spending online e nelle loro casse finiscono 85 centesimi per ogni dollaro speso in digital advertising55. Il 2017 sarà, secondo eMarketer, una delle più autorevoli società di ricerche sul mercato digitale, l’anno del sorpasso vero e proprio sulla raccolta tv negli Usa. La forza di Facebook e Google è tale che sono già in grado, secondo Brian Wieser, di strappare, letteralmente, intere campagne al sistema televisivo a stelle e strisce56.

D’altra parte, è proprio il flusso di contenuti che si sta progressivamente ma rapidamente trasferendo da alcune piattaforme – giornali e soprattutto tv – ad altre, in particolare i social media. Sono loro il nuovo punto focale nella vita degli utenti di smartphone, la cui diffusione senza precedenti fa da propellente a un traffico fatto di news e advertising che approda direttamente nel piccolo display, sempre acceso e connesso, di quello che fino a non molto tempo fa chiamavamo semplicemente “telefonino”. Un traffico destinato a crescere senza limiti e a catalizzare l’attenzione sempre più forte di brand e aziende.

La spesa pubblicitaria globale, che è destinata ad aumentare a livelli superiori all’andamento del Pil del mondo, si sta riposizionando sui dispositivi mobili che diventeranno, a breve, i contenitori del 60% di tutto l’Internet advertising. Entro il 2018 gli investimenti pubblicitari destinati a questi devices cresceranno di circa 83 miliardi di dollari, quelli televisivi di un ordine di grandezza in meno (7,3 miliardi di dollari). Anche per effetto di questa poderosa spinta, si prevede che entro il 2017 la raccolta su Internet rappresenterà più del 38% di tutti gli investimenti pubblicitari, superando quella destinata alle tv. La rete sarà a quel punto il più grande media pubblicitario del mondo57.

Certo, può lasciare perplessi la constatazione che circa un terzo di tutta la pubblicità online sia “vista” da “non umani”, cioè da dispositivi, software e robot che popolano la rete molto più intensamente di quanto si creda e della cui presenza attiva è pressoché impossibile accorgersi. Circostanza che stimola utenti e investitori a riflettere sulle modalità di fruizione della pubblicità online su tecnologie sia fisse sia mobili (queste ultime in fortissima crescita sulle prime). Secondo la potente World Federation of Advertisers, il danno prodotto nel 2016 ai suoi membri dalla quota di consumatori-macchine di adv impressions – un termine coniato proprio per la pubblicità online – è stato pari a 7 miliardi di dollari. Un mucchio di soldi, che sta spingendo anche a guardare con maggiore senso critico il crescente utilizzo di sistemi di pianificazione pubblicitaria denominati programmatic o automated buying, la più recente e sofisticata tecnologia di gestione degli investimenti sulle piattaforme online e digitali.

Di che si tratta? Fondamentalmente della compravendita automatica o semiautomatica degli spazi pubblicitari online per mezzo di piattaforme software, con lo scopo di ottimizzare costi e visibilità delle campagne. Detto così sembra semplice, in realtà è un sistema complesso che si avvale di diverse metodologie e relativi software per la negoziazione tra domanda e offerta, anche attraverso meccanismi d’asta. Con il programmatic, come tutti ormai lo chiamano, l’investitore cerca di raggiungere con sempre maggiore precisione i target di consumo desiderati, riducendo la dispersione degli investimenti in direzioni poco redditizie e a visibilità indeterminata. In Italia, questa voce dell’Internet advertising è passata tra il 2012 e il 2015 da 5 a 234 milioni di valore, con tassi di crescita spettacolari58. Non c’è inserzionista che non stia cominciando ad affiancare il programmatic alla pianificazione tradizionale, con il supporto dei centri media che si stanno cimentando, a loro volta, con le nuove sfide della pubblicità online e social.

C’è una discussione aperta sulla viewability, l’effettivo contatto visivo ed emozionale dell’utente Internet con l’annuncio, nelle sue varie forme. Quanto a lungo dovrebbe durare la visione per considerare “vista” la pubblicità? Oppure: quanto grande dovrebbe essere lo schermo che la ospita in quel momento, in funzione anche della complessità e numerosità di elementi che contiene? Il Media Rating Council (Mrc) che fissa, negli Usa, le regole per la misurazione delle audience, considera un annuncio display viewable se un consumatore può vederne metà per almeno un secondo, o due secondi se si tratta di un video59.

L’attenzione all’efficacia degli annunci pubblicitari, peraltro, non è nuova. Tradizionalmente, su stampa e tv i contatti con gli utenti si calcolano in base alla readership o alle audience, rispettivamente misurate o stimate, ma ciò non consente certezze in merito al numero effettivo di adv impressions. Paradossalmente, mentre uno spot in tv può non essere materialmente visto da uno spettatore che si allontana casualmente dallo schermo per pochi istanti, la visione della pubblicità sulla rete è di fatto tracciabile e spesso a sua volta collegata con link ai siti di prodotto o di e-commerce. Quindi non sembra che le discussioni sulla viewability possano mettere in dubbio l’efficacia complessiva dell’Internet advertising.

Meno scontato, invece, è l’impatto dell’Ad blocking sull’evoluzione del consumo pubblicitario sulla rete attraverso le diverse piattaforme. I software che consentono di disattivare banner e pop up rappresentano una minaccia concreta alla crescita degli investimenti sul web. Uno dei più popolari tra questi software, AdBlock Plus, è stato scaricato centinaia di milioni di volte dagli utenti a livello mondiale. Il suo ruolo, dichiarato ma piuttosto controverso, è quello di redigere una lista di annunci tollerabili, cui concede l’accesso all’utente. Siti e applicazioni ad alta densità pubblicitaria non vengono ammessi al contatto oppure devono pagare una fee per superare il blocco. I responsabili di AdBlock Plus sostengono che questa prassi sia appropriata e che i siti ammessi devono comunque offrire annunci accettabili. Lo Iab (Interactive Advertising Bureau) definisce questo filtro a pagamento una sorta di estorsione60.

Il ricorso a questi nuovi software blocca-annunci è comunque in forte crescita. Secondo PageFair, una società di ricerche irlandese, 200 milioni di utenti online e 420 milioni di possessori di smartphone hanno installato tra il 2015 e il 2016 software Ad blocking, con una crescita rispettivamente del 41% e del 90% su base annua. Fenomeno non senza conseguenze sui bilanci degli editori che nel 2015, secondo il “Financial Times”61, a causa dell’Ad blocking avrebbero perso ricavi per circa 22 miliardi di dollari.

In ogni caso, le modalità attraverso le quali raggiungere, con annunci commerciali e le più diverse forme di advertising, l’utente web senza irritarlo o spingerlo addirittura a impedire il contatto è un problema chiave per marchi e aziende. La rete è il più potente, complesso, penetrante canale pubblicitario; a breve sarà, come abbiamo visto, per dimensioni di investimenti diretti, il primo in assoluto. La sua crescita sulle piattaforme mobile ne sta già facendo il tramite indispensabile per la promozione di qualsiasi tipo di attività commerciale.

C’è da considerare, inoltre, come segnala Ctrl-Shift, una società di consulenza digitale londinese, il costo (invisibile) della pubblicità per l’utente, non solo in termini di tempo e di attenzione, ma anche di banda larga impiegata dagli annunci che irrompono sul video di un pc, di un tablet, di uno smartphone. Per non parlare della percepita riduzione del servizio di connessione e l’intrusione, priva di qualsiasi regola, degli annunci commerciali nell’esperienza online.

Anche il search e la cosiddetta “profilazione” degli utenti Internet rischiano di incontrare qualche ostacolo. Praticamente tutti i dispositivi, fissi e mobili, possono essere, come si dice, “settati” per impedire la ricostruzione della navigazione tra siti e portali, escludendo in parte i famosi cookies, che le piattaforme esistenti sono in grado di disattivare, impedendo così ai motori di ricerca di registrare gli spostamenti di chi naviga per proporgli, non richiesti, l’annuncio o la promozione di un prodotto, di un servizio, di un acquisto d’impulso. In poche parole, ostacolando l’Internet Based Advertising, che senza le tracce che noi lasciamo nella rete non sarebbe facilmente praticabile. Ciò non significa che non si verrebbe più raggiunti dagli annunci, ma che essi non sarebbero direttamente correlati con le scelte di navigazione effettuate dall’utente.

Non solo. Se la mia navigazione non può essere memorizzata e non vengono resi disponibili, automaticamente, tutti gli indirizzi toccati dalla mia peregrinazione via web, diventa anche più difficile la mia profilazione, cioè la conoscenza piena, da parte di chi gestisce la rete, di parte dei miei dati, dei miei gusti, delle mie attitudini. Grazie alla profilazione, i motori di ricerca possono immaginare cosa voglio, prima ancora che abbia scritto per intero la prima parola che sto cercando. Improbabile che gli utenti si mettano, in massa, a disattivare l’history browsing, ma l’eccesso di advertising profilato potrebbe, presto o tardi, generare reazioni simili a quelle di cui si è parlato in ambito televisivo.

Per effetto della rivoluzione digitale, l’industria dell’advertising sta affrontando una vera e propria crisi esistenziale. Dunque diventa sempre più urgente ripensare la pubblicità e le attività commerciali destinate al web, fin qui concepite, di fatto, come l’espansione naturale di quelle nate per i media tradizionali. Chiunque sia stato alle prese con la creazione e la produzione di campagne pubblicitarie sa bene quanto sia difficile riprogrammare la visione, e l’esperienza, di chi tra i creativi ha speso buona parte della propria carriera partendo dall’idea di un annuncio destinato agli spazi editoriali e non, direttamente, all’utente che compulsa la rete.

Separatamente, marchi e gruppi editoriali negli Stati Uniti stanno studiando e sperimentando nuove tipologie di annuncio, testando quelle che sembrano infastidire meno i navigatori. È ciò che, d’altronde, fa da propulsore al cosiddetto storytelling, di cui si parla un po’ dappertutto, talora con inconcludente insistenza: la nuova “narrazione” di valori, identità e proposte commerciali capace di legare i consumatori a brand e aziende. Siamo certamente di fronte alla più radicale e profonda trasformazione della comunicazione dagli anni Quaranta e Cinquanta, quando nel mondo fece la sua comparsa la televisione. Tutto è nuovo, ancora più veloce, inatteso, sorprendente, ma lo scettro è passato dalle mani dei padroni dei network, dei mad men di mezzo mondo e dei pianificatori di professione ai nuovi consumatori digitali.

Tornando al flusso di investimenti pubblicitari destinato ai social media, si stima che entro il 2019 essi cresceranno del 72%, per un ammontare complessivo di circa 50 miliardi di dollari. Il loro valore sarà pari al 20% di tutto l’Internet advertising, pareggiando la spesa pubblicitaria destinata ai quotidiani, i quali subiranno l’anno successivo il definitivo sorpasso da parte della raccolta sui social. Anche i ricavi delle radio saranno raggiunti e superati entro il 2019 dalla pubblicità sui video online, che cresce a velocità simile a quella sui social media62.

I social, oltre agli over-the-top che dominano la scena dei ricavi con il search e non solo, sono i protagonisti della crescita dell’advertising online. Le previsioni sono molto promettenti: entro il 2018, video online e social media saranno i propulsori dell’Internet display, con una crescita rispettivamente del 20% i primi e del 27% i secondi. Queste performance sono per lo più dovute alla rapida transizione al mobile advertising, grazie a dispositivi, come gli smartphone (o i più grandi phablet), sempre più adatti al consumo di immagini. Crescerà, naturalmente, anche il search, a un tasso del 13% annuo fino al 2018, spinto da algoritmi più evoluti, ricerche sempre più personalizzate e in grado di interpretare ancora più facilmente le esigenze degli utenti63.

I nuovi introiti pubblicitari si dirigono verso i canali social in forme inedite. Ad esempio, attraverso l’uso sempre più incisivo e pervasivo dei cosiddetti influencers, per lo più personaggi del mondo dello sport o dello spettacolo, che vantano migliaia o milioni di follower. Al consumo social dei loro fan, questa categoria di nuovi testimonial destina immagini, brevi video, commenti, selfie, in un flusso continuo di stimoli e sollecitazioni che alimentano un pubblico vasto e composito, che li segue per passione. La maggior parte di questi video o di queste immagini ha protagonisti visibili, i vip in questione, e dei coprotagonisti, altrettanto in evidenza: i marchi che sponsorizzano i vip stessi. Cristiano Ronaldo, una delle più pagate star del calcio, oltre ai generosi ingaggi da classico testimonial pubblicitario per brand planetari, vanta non meno di 240 milioni di fan sui principali social, come Facebook, Instagram e Twitter. Su Facebook, ad esempio, Captiv8, una piattaforma di analytics che connette i marchi ai social media influencers, calcola che a partire da 3-7 milioni di follower i ricavi che una celebrity può incassare sono di poco inferiori, in media, ai 190.000 dollari. D’altra parte, basterà fare bella mostra di un orologio di marca, appena avuto in regalo, per trasformare quel breve video, all’apparenza innocente, in un formidabile generatore di contatti con potenziali consumatori. Tutti lì, davanti allo schermo, a godersi le immagini e le battute del loro campione e, forse, a immaginare come starebbe bene al loro polso quel bell’orologio.

In alcuni social, i video in questione sono segnalati con un tag che ne descrive la natura: #ad# o #sp#, cioè advertising o sponsorship, una sorta di avvertenza che compare sempre più spesso anche su siti e portali d’informazione. Ma non tutti utilizzano questa indicazione, peraltro non particolarmente evidente, né sono obbligati a farlo. È la natura dei social media, pensati per il contatto visivo, l’esibizione e l’emulazione, che fa dei personaggi altrettante icone viventi. Anche quelli nati nel nuovo universo social e cresciuti in notorietà senza motivi particolari se non il protagonismo costruito con una martellante, e astuta, campagna di valorizzazione di sé stessi. Come accade al clan delle Kardashian, che non vanta meriti speciali nel mondo reale ma che nel tempo ha accumulato una quantità sorprendente di fan, che oggi valgono milioni in sponsorizzazioni e pubblicità. Per questo non è difficile immaginare che questa forma di advertising sia destinata a crescere notevolmente e a diventare una importante fonte di investimenti per i grandi marchi del mondo.

I social, insomma, che occupano un posto sempre più importante nelle nostre vite e assorbono quote crescenti del nostro tempo personale e professionale, stanno esercitando un’attrazione gravitazionale sull’intera economia della rete. News, conversazioni, immagini, video, nuovi movimenti politici e culturali e, inevitabilmente, finanza, comunicazione, pubblicità confluiscono nello spettacolare universo digitale di cui ci sentiamo protagonisti. Ma nel quale siamo spesso target pregiati di consumo e generatori involontari di ricavi e fatturati altrui.

35 Vanni Codeluppi, Storia della pubblicità italiana, Carocci, Roma, 2013. La raccolta di Publitalia 80 nel 1983 era pari a 476,4 miliardi di lire; quella di Sipra era di 362,8 miliardi.

36 Fonte: GroupM Research&Insight, 2016.

37 Fonte: Fieg, www.fieg.it/upload/studi_allegati/Rapporto_2016_web.pdf.

38 Fonte: Politecnico di Milano, Osservatorio New Media & New Internet, 2014.

39 Fonte: Upa. Questo dato non include la componente search e gli over-the-top in genere, di cui si parla più avanti.

40 Fonte: Istat, http://istat.it/it/files/2016/04/Cap_1_Ra2016.pdf.

41 GroupM, Research & Insight on TYNY Interaction, luglio 2016.

42 Ibidem.

43 Caterina Varpi, Audiweb: il mobile traina la crescita dell’utenza Internet, Engage-Contemporary Marketing & Media, 29 novembre 2016.

44 Marta Vallecchi, Forum 2016, 29 novembre 2016.

45Independent” Returns to Profit after Axing Newspapers, “Financial Times”, 19 ottobre 2016.

46 Fonte: Pew Research Center, 2016, http://www.journalism.org/2016/06/15/state-of-the-news-media-2016.

47 Innovation, Media Consulting Group, How to Distribute Content Where Your Readers Are, ottobre 2016: http://innovation.media/magazines/how-to-distribute-content-where-your-readers-are.

48 Fonte: Nielsen.

49 Ericsson, Tv & Media Report, 2016: https://www.ericsson.com/networked-society/trends-and-insights/consumerlab/consumerinsights/reports/tv-and-media-2016.

50 Ibidem.

51 Emilio Pucci, Tivù a pagamento: il caso Italia, “Prima Comunicazione”, novembre 2016.

52 Angling for the Future of TV, “The Economist”, 29 ottobre 2016.

53 Michael Wolff, Television is the New Television, Portfolio/Penguin, New York, 2015.

54 GroupM, Research & Insight on TYNY Interaction, cit.

55 Fonte: Internet Trends, 2016: http://www.kpcb.com/internet-trends.

56 Matthew Garrahan, Advertising: Facebook and Google build a duopoly, “Financial Times”, 23 giugno 2016.

57 Fonte: Advertising Expenditure Forecasts, Zenith Optimedia, 2016: http://www.zenithoptimediagroup.it/assets/04-Notizie-e-novita/31-Adspend-Fcst-Sept16/Zenith-Advertising-Expenditure-Forecasts-September-2016-Executive-Summary.pdf.

58 Fonte: Osservatorio Internet Media, Politecnico di Milano e Iab, 2016.

59 Invisible Ads, Phantom Readers, “The Economist”, 23 marzo 2016.

60 Ibidem.

61 Consumer Fightback Against Online Marketing is Ramping up, “Financial Times”, 11 settembre 2016.

62 Fonte: Advertising Expenditure Forecasts, cit.

63 Ibidem.