CAPITOLO 1

Biancaneve e Rosarossa

C’erano una volta due sorelle.

Rosarossa aveva capelli come fili di seta nera, guance come petali rossi e una voce così sottile che a volte la si sentiva appena. Biancaneve aveva capelli simili alle piume candide di un cigno, occhi del colore di un cielo invernale, e la sua risata era improvvisa e irrefrenabile.

Entrambe vivevano in una casetta tra i boschi, ma non era sempre stato così.

«Raccontami una storia» chiese Biancaneve nell’oscurità. Si girava e rigirava, vigile e inquieta.

«Sveglierai la mamma» mormorò Rosarossa. «Rimettiti a dormire.»

Biancaneve si tirò su, facendo scricchiolare il letto. «Rosarossa?» Il suo bisbiglio fluttuò nel buio. «Per favore.»

La camera era un soppalco ricavato sopra il focolare e la cucina, sotto un tetto appuntito. Da una parte dormivano le sorelle. Dall’altra la madre. Rosarossa sbirciò dal buco del paravento scolorito che trasformava un solo piccolo ambiente in due stanze minuscole. La luce azzurrognola proveniente dalla finestra disegnava la curva del fianco della madre, sottolineandone il respiro lento e regolare.

Rosarossa sospirò. «Va bene, però vengo lì.» Il mozzicone di candela tra i letti delle due bambine si accese nel lieve strofinio di un fiammifero, subito seguito da un rumore soffocato di passi in punta di piedi. Rosarossa si infilò sotto le coperte della sorella.

«Hai i piedi gelati» sussurrò Biancaneve.

Rosarossa si rannicchiò con le ginocchia contro il petto. «Che storia vuoi sentire?» chiese. I suoi capelli scuri splendevano di riflessi rossi e dorati alla luce della candela. «Quella della lampada magica?»

«No» rispose Biancaneve, avvolgendosi per bene le coperte intorno alle spalle. Sorrise, i capelli chiari arruffati sul cuscino.

«La sirena e la scimmia?» domandò ancora Rosarossa.

«No» bisbigliò Biancaneve con impazienza. «Non quella.»

«La favola di...»

«No, niente favole.» Biancaneve tirò piano la manica della camicia da notte di Rosarossa. «Racconta la nostra storia.»

Dopo un altro sospiro, Rosarossa cominciò a parlare.

«C’erano una volta» mormorò con il suo miglior tono da narratrice «due bambine, una con i capelli neri e una con i capelli bianchi. Erano figlie di un aristocratico, tanto alto e massiccio quanto era dolce e gentile. La loro madre veniva da una famiglia plebea, ma aveva la bellezza rara e fragile di...»

«Un gatto siamese» suggerì Biancaneve.

«Sì, di un gatto siamese» continuò Rosarossa sottovoce. «Era anche pittrice e scultrice, e amava risvegliare le cose che diceva dormissero dentro grandi lastre di marmo, tanto che le sue statue riempivano il Giardino delle Sculture. Il padre, a sua volta, amava creare luoghi che non esistevano prima che lui li immaginasse. E poiché amava anche leggere di quello che altri avevano immaginato e creato, aveva una biblioteca con scaffali che andavano dal pavimento al soffitto.

«Naturalmente, i genitori delle bambine nutrivano un grande amore l’uno per l’altra, un amore più forte di quello per i libri o per le sculture. Ma sopra ogni altra cosa amavano le due figlie.

«E dal momento che l’amore non si vede, la coppia fece del suo meglio per rendere visibile qualcosa di invisibile. Così, quando le sorelle erano ancora molto piccole, i genitori commissionarono uno splendido giardino, una meraviglia che la gente sarebbe venuta ad ammirare da chilometri e chilometri di distanza. Si estendeva per l’intera lunghezza della casa e non somigliava a nessun altro giardino passato, presente o futuro.

«Una metà traboccava di fiori bianchi di ogni genere: candide corolle panciute e vellutate di mughetto, guglie di digitale dai petali lattei e dalle gole maculate, rampicanti di campanelle argentee e anemoni splendenti; dalla più piccola margherita a dalie color avorio grandi come piatti di portata. E...»

«Si chiamava Giardino di Ghiaccio» la interruppe Biancaneve.

«Si chiamava Giardino di Ghiaccio» ripeté Rosarossa con un sorriso triste. «L’altra metà, invece, esplodeva di fiori esclusivamente rossi: papaveri vermigli, viole scarlatte, bocche di leone color vino, alkekengi color fuoco. E decine e decine di rose, ognuna con cento petali rossi...»

La voce di Rosarossa si affievolì. Capiva che ascoltare quella storia rendeva felice Biancaneve, altrimenti non l’avrebbe chiesta in continuazione. Ma a lei raccontarla creava un vuoto dentro che cresceva a ogni parola.

Rosarossa sapeva che sua sorella era il tipo di persona che pretendeva di vedere, sentire o gustare all’infinito una cosa che le piaceva per ricordare a se stessa che era reale. Lei, però, era diversa: lei preferiva tenersi ben stretta una cosa che le piaceva. Proteggerla e averne cura, per paura che si consumasse... o peggio, che le sfuggisse, come la sabbia o lo zucchero che scivolano tra le dita.

«Sai molte parole per dire rosso» mormorò Biancaneve, a occhi chiusi. «Adesso racconta dei cigni.»

Rosarossa guardò il viso della sorella, una piccola luna pallida e soddisfatta nel buio.

Fece un respiro profondo e si tirò al petto la trapunta. Proseguì diligentemente nel suo racconto, tenendo la voce più bassa possibile, così bassa che la si sentiva appena. «Al centro, tra il Giardino di Ghiaccio e il Giardino di Fiamma, c’era un laghetto contornato di salici, dove due cigni – uno bianco con il becco arancione scuro e l’altro nero con il becco del rosso più acceso – disegnavano cerchi sull’acqua.

«Lì erano nate e cresciute le bambine. Lì avevano armadi colmi di splendidi vestiti, e bambole di porcellana con una tale quantità di abitini graziosi da aver bisogno anche loro di armadi. Lì avevano un gatto grassissimo di nome Earl Grey, seguivano le lezioni, mettevano in scena commedie e prendevano il tè. Quando poi giocavano a nascondino, Biancaneve si nascondeva sempre nel Giardino delle Sculture e Rosarossa in biblioteca, sicché alla fine non era un gran bel gioco...»

Rosarossa chinò lo sguardo per vedere se la sorella era sveglia. Biancaneve batteva le palpebre, ma pareva non aver notato che il racconto si era interrotto.

Così Rosarossa proseguì, la voce ancora più sommessa di prima, lieve come un respiro. «Era sempre lì che la sera le mettevano a dormire, in grandi letti di ottone lavorati con motivi floreali e figure di uccelli, dopodiché il padre leggeva qualcosa per farle addormentare o narrava loro storie di lampade magiche e draghi e luoghi lontani...»

Pian piano, Rosarossa scivolò fuori dalle coperte calde e le rimboccò intorno alle spalle di Biancaneve. «E mentre la madre spegneva le luci, il padre diceva: “Dormi, ora, mia unica Biancaneve. Dormi, ora, mia unica Rosarossa”.»

Fece ritorno al proprio letto e con un soffio spense la candela.

«Fine

Quella, però, non era realmente la fine.

C’era dell’altro, ma il seguito nessuno avrebbe avuto voglia di raccontarlo, figurarsi poi definirlo la “propria” storia, perché era pieno di lacrime, e cavalli che non potevano parlare, e padri che non tornavano mai a casa, e domande che non avevano risposta.

La versione breve era questa: un giorno il padre di Rosarossa e Biancaneve era entrato nei boschi e non aveva più fatto ritorno. Il suo cavallo, unico testimone dell’accaduto, era rientrato da solo. La madre aveva aperto la sacca che pendeva dal fianco dell’animale e ne aveva sparso a terra il contenuto, ma a quanto pareva gli averi del marito non erano stati toccati. I suoi libri mastri, la pipa con il tabacco, persino un rotolo di banconote erano ancora tutti lì. Mancavano soltanto tre cose: un orologio, una coperta e un coltello.

Indizi di ben poco valore, in realtà. Quegli oggetti potevano trovarsi ovunque insieme a lui. Le bambine sperarono che il padre fosse da qualche parte, da qualunque parte. Magari sarebbe tornato, magari avrebbe spalancato la porta di colpo con una storia bizzarra da raccontare. Magari.

Ma il giorno dopo il rientro del cavallo, le due sorelle sentirono per caso i cuochi che bisbigliavano tra loro. Biancaneve e Rosarossa si fermarono dietro l’angolo, trattenendo il fiato mentre quelli si perdevano in congetture: «Almeno dieci cose potrebbero aver fatto fuori il padrone: qualche belva enorme... certi incantesimi antichi... la Minaccia dei Boschi... o i banditi della Terra di Nessuno... Sì, almeno dieci cose... e le povere signorine non lo sapranno mai...».

I mormorii che rimbalzavano da una stanza all’altra della casa erano tutti concordi: dal momento che la foresta ospitava cose feroci, qualcosa di feroce era stato la causa della sua morte.

Ciononostante, le bambine continuarono a sperare per giorni. Rosarossa e Biancaneve vagavano per le sale echeggianti della dimora in cui vivevano a quel tempo, quasi aspettandosi di vederlo o di sentire la sua voce. Era difficile credere che una persona potesse esserci e poi, all’improvviso, non esserci, non esserci più. Così le sorelle attendevano e vigilavano. Più i giorni passavano, però, più l’aria si faceva greve di una verità spaventosa e senza appello.

Fu allora che la loro madre si chiuse a chiave nella sua stanza. Fu allora che Rosarossa si rintanò in biblioteca, piangendo fino ad assopirsi nella poltrona in cui suo padre era solito sedere quando leggevano insieme. Si addormentava desiderando che la verità fosse diversa. Ma a ogni risveglio, la verità era ancora lì.

Biancaneve non pianse, invece, neppure allora. Non pianse perché la verità di cui tutti gli altri erano convinti non era la sua. Lei non credeva che il padre fosse morto. E nonostante il passare del tempo, era sicura che sarebbe tornato. Rosarossa non poteva dirle, non poteva persuadere sua sorella, che a volte la perdita di qualcuno significa che quel qualcuno non leggerà per te, non ti augurerà la buonanotte, non ti stringerà tra le braccia mai più.

Le domestiche tinsero di nero alcuni vestiti delle bambine, che cominciarono a portarli ogni giorno. Non molto dopo che Rosarossa e Biancaneve avevano messo gli abiti da lutto, arrivò l’uomo con la faccia magra. Le sorelle erano presenti quando informò la madre che non potevano più abitare nella casa con il Giardino di Ghiaccio e il Giardino di Fiamma. Le disse che i giardini, la casa, i vestiti, la biblioteca, la servitù e tutto il resto appartenevano al Consiglio delle famiglie aristocratiche.

Fu allora che Biancaneve sferrò un robusto calcio negli stinchi all’uomo con la faccia magra, ma questo non cambiò ciò che madre e figlie furono costrette a fare.

Se ne andarono e si trasferirono in una casetta tra i boschi, i boschi che avevano rubato loro il padre e il marito, i boschi che si mormorava nascondessero creature strane e feroci. Si trasferirono nei boschi perché non avevano un altro posto dove andare.

E la fine di quella storia è l’inizio di questa.

Biancaneve e Rosarossa non sapevano di vivere in una fiaba... la gente non lo sa mai.

Giunsero alla casetta che la primavera si era fatta quasi estate. Le due bambine e la loro madre portavano con sé il necessario per una nuova vita nei boschi, compreso Earl Grey, che si divincolava tra le braccia di Biancaneve. Per arrivare lì bastava seguire il sentiero che partiva dal limitare degli alberi e risaliva il fianco della collina fino in cima. Non ci si poteva sbagliare perché c’era solo un sentiero, un’unica via attraverso la foresta. Non era proprio una strada, ma un percorso aperto da piedi e ruote e zoccoli.

La casetta, fatta di legno e pietra, sorgeva isolata in mezzo alla fitta vegetazione. Era appartenuta al prozio della madre, il quale l’aveva costruita in gioventù, molto tempo prima. Lei era stata lì a trovarlo da piccolissima, quando ancora la chiamavano Edie invece di Edith.

Biancaneve e Rosarossa non seppero della sua esistenza finché non divenne la loro dimora, e a quel punto era rimasta vuota così a lungo che la pietra all’esterno era incrostata di muschio mentre l’interno, coperto di polvere, era ridotto a un’unica ragnatela.

Quando arrivarono e ne varcarono la soglia, la madre posò le mani sulle spalle delle figlie, dando a ciascuna una lieve stretta che significava: “Non posso farcela da sola”.

E così, per la prima volta nella loro vita, le bambine dovettero fare le pulizie. Vuotarono la baracca di lamiera, tirarono su acqua dal pozzo e strofinarono la casetta dalla cima delle pareti alle assi del pavimento, togliendo dal caminetto nidi di uccelli abbandonati da tempo. Aiutarono la madre a imbottire i materassi dei tre letti e a riempire la dispensa con il contenuto del carretto che i cuochi avevano voluto mandare con loro, sacchi di farina, cereali, caffè e zucchero.

Tutto ciò che rimaneva della loro vecchia vita stava in tre bauli. Quando ebbero tirato fuori gli oggetti di uso quotidiano, come abiti, pentole e trapunte, e dopo che la madre ebbe appeso il ritratto del marito alla parete, Biancaneve e Rosarossa trovarono la loro cassetta speciale. Era nascosta in fondo all’ultimo baule e racchiudeva i loro tesori. Dentro c’era il violino di Biancaneve, che la bambina pose con cura su uno scaffale vicino al suo letto senza sapere se avrebbe mai più avuto voglia di suonarlo. Gli altri tesori erano i regali che il padre aveva portato loro dai suoi viaggi: una coperta bengalese cucita con diecimila punti, un libro di racconti dal Giappone, un piccolo tappeto turco, un elefantino di ottone dall’Africa.

Quando la casa fu pulita e i bauli svuotati, madre e figlie cominciarono a ricercare una routine in quel luogo insolito. Tuttavia, c’era qualcos’altro di insolito per Biancaneve e Rosarossa. La madre non sorrideva mai. Non dipingeva, non scolpiva, non faceva niente di quello che faceva prima. Si aggirava come una sonnambula, i movimenti e le conversazioni meccanici e distanti. Era più fragile di quanto fosse mai stata, ma avvolta da una pesante cappa di tristezza. E un mantello del genere occupava molto spazio in una casa tanto piccola.

Non sapendo come impiegare il tempo, le due sorelle uscivano tutti i giorni. Si alzavano, facevano colazione, poi Biancaneve scendeva lungo il sentiero tra gli alberi, oltrepassava il limitare dei boschi e rimaneva a guardare la loro vecchia dimora giù nella valle.

Biancaneve non nascondeva affatto che la nuova sistemazione non le piaceva. Non le piaceva lo stufato contadino né il semplice pane che lo accompagnava. Non le piacevano i letti duri né gli spifferi che la notte sibilavano dalle crepe nei muri. Non le piaceva quando Rosarossa le diceva: «Le cose miglioreranno». Come? La casetta era piccola e squallida, e quello che è squallido non “migliora”.

Ma più di ogni altra cosa, a Biancaneve non piacevano le persone che si erano trasferite nella loro casa. A lei avevano rubato la vita e a tutte loro gli amati giardini. E così, con Earl Grey al suo fianco, Biancaneve passò la fine della primavera a fissare la loro vecchia dimora. Ogni giorno, l’uno e l’altra si sedevano a guardare gli andirivieni degli invasori, come due felini affamati pronti a balzare su una preda inconsapevole.

Mentre la sorella, schiumante di rabbia, trascorreva così il suo tempo, Rosarossa si accoccolava sotto un albero con un libro o faceva due passi su e giù per il sentiero con la sua borsa a tracolla. Tra la collera di Biancaneve e la tristezza di sua madre, per lei era difficile non perdersi d’animo, ma le passeggiate aiutavano. Prendendo appunti sulle felci e sui fiori che crescevano ai suoi piedi, spesso strizzava gli occhi per vedere cosa c’era nella cupa foresta al di là del sentiero, e in quei momenti la curiosità soffocava qualunque altra riflessione. In direzione del villaggio, il viottolo era ben battuto e soleggiato. Ma dopo tutto quello che avevano sentito dire, dopo tutto quello che era successo, Rosarossa faceva molta attenzione a non abbandonarlo.

A volte, andava a cercare Biancaneve sul fianco della collina e leggeva a voce alta seduta accanto a lei. Oppure intrecciava ghirlande di fiori, nel tentativo di stemperare la rabbia della sorella.

Lì sulla collina, dove nessuno oltre a Earl Grey poteva sentirle, le due bambine parlottavano tra loro. Si interrogavano sugli oggetti che erano risultati mancanti quando il cavallo del padre era tornato a casa da solo. Sul significato di quegli oggetti, se fossero indizi, se si trovassero da qualche parte nei boschi. Si chiedevano come facessero i boschi a portare via le persone e perché le portavano via.

Quegli interrogativi bruciavano dentro l’animo di entrambe ma assumevano forme diverse a seconda delle convinzioni di ognuna: Rosarossa voleva sapere perché il padre era stato preso, Biancaneve come riaverlo. Tutte quelle domande andavano a sfiorare cose che sfuggivano alla loro comprensione, cose di quel luogo che aveva cambiato le loro sorti una volta e l’avrebbe fatto di nuovo.