La notte precedente il compleanno di Biancaneve, Rosarossa non riuscì a dormire. Restò sveglia, al freddo, ascoltando un suono che non sapeva bene se fosse reale o solo immaginazione: il bramito sofferente dell’orso.
Alla fine, scese silenziosamente in cucina a prendere un po’ d’acqua e trovò la porta d’ingresso aperta. Un mozzicone di candela brillava nell’aria gelida appena fuori. Sua madre se ne stava lì da sola, avvolta in uno spesso maglione, con le ginocchia strette al petto. Un aroma familiare le aleggiava intorno, e davanti a lei si alzava un filo di fumo. Rosarossa non sapeva se fosse una di quelle volte in cui voleva essere lasciata in pace o se invece non avrebbe preferito che lei si sedesse al suo fianco.
«Sei tu, Rosarossa, cara?» chiese la donna, sentendo o avvertendo la sua presenza. Si girò, e la bambina notò che stava fumando la vecchia pipa del marito. Rosarossa le si sedette accanto, sorpresa nel vedere la pipa.
«Vorrei tanto che potessimo organizzare una grande festa per Biancaneve, qualcosa di magnifico...» Sospirò sua madre risistemandole i capelli raccolti. «Ma cos’è che tiene sveglia te?» Fece un anello di fumo e rivolse un mezzo sorriso alla figlia. «Con Biancaneve so sempre cosa c’è che non va. Lei è trasparente come il vetro. Tu, invece, sei... sei fatta di una materia attraverso la quale non riesco a vedere. Legno, forse. O latte. Sei enigmatica. La mia bambina enigmatica.»
«No, non c’è niente che mi tiene sveglia» disse Rosarossa. Non voleva raccontarle del verso dell’orso. O dell’orso. «Non sapevo che tu...» Accennò alla pipa.
«Oh!» esclamò la madre, ridendo piano. Sembrava imbarazzata. «Non so se fumo perché mi tranquillizza o perché mi ricorda tuo padre o... quale delle due cose, esattamente.» Emise un minuscolo pennacchio di fumo, chiaro contro la notte nera. «Forse entrambe.» Ebbe un attimo di esitazione. «Faccio tutto quello che posso, piccola mia.»
Rosarossa posò la mano su quella della mamma. «Anch’io.»
La mattina seguente, quando le bambine si svegliarono, la stanza principale della casetta era la versione silvestre dei grandiosi compleanni del passato. Rosarossa trattenne il fiato mentre lo sguardo di Biancaneve si spostava da un punto all’altro. Invece di stelle di vetro tempestate di lustrini c’erano rami carichi di bacche e mazzolini di ghiande annodati con un nastro. Invece di festoni argentati c’erano ghirlande di pigne che si rincorrevano lungo il soffitto. Al posto di sontuose montagne di pasticcini perfetti c’era una semplice torta margherita con più strati di composta di frutta. Là dove avrebbe dovuto esserci un tavolo straripante di doni dai pacchetti lussuosi c’erano solo due regali avvolti nella carta marrone e legati con uno spago azzurro.
Biancaneve si rivolse a Rosarossa. «Tutto questo è opera della mamma?» I suoi occhi corsero di nuovo alla stanza. «È splendido.» Sorrise e fece un cenno della testa in segno di gratitudine.
Rosarossa sbadigliò. «Io ho dato una mano» disse con un sorriso sonnacchioso. Si sporse verso la sorella per bisbigliarle: «E ho usato le forbicine della biblioteca per tagliare i nastri. Magari la loro storia riguarda una festa di compleanno».
Biancaneve scosse il capo. «L’ultima volta abbiamo salvato un orso» sussurrò. «Devono essere fatte per qualcosa di più emozionante di una festa.»
Alle loro spalle comparve la madre, i capelli pettinati e tirati su, le labbra rosa. Rosarossa si sorprese di vederla così dopo la sera prima, dopo che per mesi e mesi aveva avuto tutt’altro aspetto. Era come se avesse dormito per un periodo lunghissimo e un bel giorno, quel giorno, si fosse svegliata con gli occhi splendenti e l’abito più grazioso addosso.
«Ma che fortuna ho avuto a stare con te per dieci anni interi?» disse la donna, stringendo Biancaneve tra le braccia.
Sentirono bussare alla porta.
«Chi potrà mai essere?» chiese la madre delle bambine, andando ad aprire. L’aria fresca e l’odore delle foglie riempì l’entrata.
Ivo aspettava educatamente, la sagoma sottile delineata dalla luce vivida del sole. Portava la sua viola a tracolla sulla schiena e stringeva tra le mani un piccolo pacchetto bitorzoluto avvolto nella stoffa. La mamma di Biancaneve e Rosarossa lo ringraziò, poi posò il regalo sul tavolo, insieme agli altri due. «Vieni dentro» disse.
«Grazie, signora» rispose Ivo, pulendosi con cura le scarpe prima di entrare. «Posso restare finché fa buio» aggiunse, la faccia seria. La donna annuì, ricambiando il suo sguardo grave.
«Hai trovato facilmente la strada?» chiese Rosarossa.
Il ragazzino fece segno di sì. «Le tue indicazioni erano precise.»
«Sono contenta che ti abbiano lasciato venire» intervenne Biancaneve.
Le orecchie di Ivo si fecero più rosee. «Be’, se fosse dipeso dalla mamma, avrei scavato una galleria fino a casa vostra.»
Fissò l’interno della casetta come se fosse un imponente salone da osservare con attenzione. «Non sapevo che abitaste in un posto così bello» disse, prendendo l’elefantino di ottone e tenendolo con delicatezza. Passò davanti alla piccola libreria, tamburellando sul dorso dei volumi con i polpastrelli. Girellò per tutta la stanza, ammirò il tavolo, fece scorrere la mano sulle trapunte poggiate sullo schienale di una panca senza cogliere né con lo sguardo né con le dita i fori dovuti ai nodi del legno o i punti logori del tessuto.
Trascorsero il pomeriggio tra musica e giochi. Ivo era particolarmente bravo con il teatrino delle ombre. Tirarono le tende e lo guardarono proiettare cani e conigli sulla parete, e per finire uno splendido cigno.
Per la prima volta da quando erano arrivate lì, Biancaneve prese il violino dallo scaffale e suonò la sua canzone preferita. Era bella e malinconica, e anche se alcune note non sembravano giuste, del brano ricordava più di quanto avesse dimenticato. Poi fu il turno di Ivo, che suonò una giga esuberante e veloce, di quelle fatte apposta per ballare. Alla fine, Biancaneve e Ivo si inchinarono, e il loro pubblico batté le mani.
Bevvero bicchieri di sidro di mele selvatiche aromatizzato con la noce moscata e mangiarono troppe fette di torta, poi fu il momento dei regali.
Quello di Ivo era un pacchetto di dolci dalle forme improbabili, alcuni di zucchero a pallini rossi, altri ricoperti di cioccolato. «Funghi caramellati» disse il ragazzino. «Ma dentro non ci sono dei funghi veri» aggiunse nel vedere la faccia di Biancaneve. «Li fa la mamma per regalarli.»
Due piccole pietre ruzzolarono fuori dal pacchetto subito dopo i dolci. «Sono pietre scoppiettanti» spiegò Ivo, affrettandosi a precisare: «Però sono vere, non dei dolci».
«E cosa fanno?» chiese Rosarossa.
Ivo prese le pietre scure e le batté una contro l’altra. «La stessa cosa delle vostre pietre focaie...» Alcune scintille lampeggiarono nell’aria, illuminando il tavolo. Ivo ne mise una nella mano di Biancaneve. «E in più, ti scaldano le tasche.» La pietra era liscia e il suo gradevole calore le si diffuse dal palmo alla punta delle dita. La bambina la passò alla madre e alla sorella perché anche loro la toccassero.
«Grazie» disse con un sorriso mentre dava un morso al cappello di uno dei funghi al cioccolato.
Scartò una sciarpa ruvida e tutta nodi di lana grigio chiaro che Rosarossa aveva sferruzzato per lei.
«Prometto che ti farò qualcosa di più bello quando migliorerò nel lavoro a maglia» si scusò Rosarossa, avvampando. «Volevo farti una cosa carina.» Guardò la sciarpa, scontenta. «Ma questa proprio non lo è.»
«No, è... interessante» replicò Biancaneve, tentando coraggiosamente di annodarsela al collo. «È... calda?»
«È orrenda!» gridò Rosarossa, scoppiando a ridere e facendo ridere tutti gli altri.
«Ti ho fatto anch’io qualcosa di caldo, mia piccola Biancaneve» disse sua mamma, mettendole davanti l’ultimo pacchetto.
Dentro c’era una mantella di soffice lana azzurro chiaro. «Il colore dei tuoi occhi» aggiunse la madre con uno dei suoi rari sorrisi sulle labbra e nella voce.
Biancaneve si guardò intorno. «E... questo è tutto» disse.
Sorridevano ancora tutti, ma l’espressione felice della bambina cominciava già a svanire.
«Be’, allora, hai espresso il tuo desiderio di compleanno?» le chiese la mamma, nel tentativo di prolungare quel momento di allegria.
«Sì» rispose Biancaneve, la voce sempre più soffocata. Il suo sguardo si fece distante mentre si sforzava di sorridere ancora, ma il suo sorriso pareva una maschera. Le sue labbra ebbero un tremito, e dall’angolo dell’occhio le scese una lacrima.
Rosarossa capì che stava lottando contro l’emozione che voleva prendere il sopravvento.
Biancaneve batté le palpebre e ricacciò le lacrime. «Grazie per...» Si interruppe, provò a controllarsi e alla fine riuscì a dire: «Vi ringrazio per la bella festa». Poi qualcosa di caldo, morbido e familiare le urtò una gamba. Biancaneve guardò giù e scoprì di avere un altro invitato. Stavolta il suo sorriso fu autentico. «Earl Grey!» esclamò, asciugandosi gli occhi sulla manica. Ma il gatto soffiò e cercò di graffiarla, dopodiché se ne andò a grandi passi sotto il tavolo.
«Cosa gli prende?» si stupì Biancaneve. Nervosissimo, l’animale schizzò fuori dal suo rifugio e cominciò a correre in tondo per tutta la stanza, quindi si accasciò di botto sul tappeto vicino al focolare con un miagolio lamentoso.
«È malato?» chiese Rosarossa. Sua madre si avvicinò al gatto, che dapprima si acquattò soffiando, poi si lasciò grattare dietro le orecchie, sia pur di malavoglia. La donna si accigliò e posò con delicatezza una mano sulla pancia tonda dell’animale. Alla fine si rialzò e sorrise ai tre bambini. «Il signor Earl Grey sta per avere i piccoli.»
Biancaneve, Rosarossa e Ivo si guardarono, sbalorditi.
«Tutto questo tempo, ed era una femmina!» disse Biancaneve in tono incredulo. Con qualche piccola variazione sul tema, lei e Rosarossa continuarono a ripeterlo almeno una decina di volte mentre aspettavano. Prepararono una specie di grosso nido di coperte sul tappeto per offrirle un po’ di intimità e un posto morbido dove riposare. La gatta vi si nascose, raggomitolata su se stessa come una conchiglia a spirale.
La madre delle bambine fece il tè, e tutti insieme rimasero a osservare le coperte così a lungo che per poco Rosarossa non si addormentò.
Alla fine Earl-la-gatta cominciò a lamentarsi. Dalla tana improvvisata giunsero rumori preoccupanti.
Quando tutto si acquietò, si avvicinarono, e pian piano, delicatamente, Biancaneve scostò la trapunta che era appoggiata in cima. Tre micini, ciechi e viscidi, si dimenavano rannicchiati contro il grosso cuscino soffice della pancia di Earl Grey.
In silenzio, si sporsero tutti per vederli.
«È normale che siano così?» domandò Rosarossa sottovoce.
«Somigliano un po’ a dei topi» sussurrò Ivo. «Non vi pare?»
Earl Grey pulì coscienziosamente i suoi piccoli con la lingua ruvida. A bagnetto finito, i tre simil-topi si erano trasformati in palle di lanugine con le orecchie morbide e il naso rosa all’aria, che agitavano qua e là la coda tozza. Uno era nero, uno bianco, e uno grigio tigrato come la mamma.
«Sono le creature più dolci che abbia mai visto» disse Biancaneve. Poi, rivolta ai gattini: «Non preoccupatevi di nulla. Ci prenderemo molta cura di voi». Guardò la madre. «Possiamo tenerli, vero?»
«Io... io non so se potremo tenerli tutti...» rispose cautamente la donna. «Uno solo, magari.»
«Tutti e tre, magari!» esclamò Biancaneve. «C’è un gattino bianco per me e uno nero per Rosarossa! È destino.» Lanciò alla madre uno sguardo implorante. «E quello grigio, be’... non possiamo darne via nessuno, comunque!»
Sua mamma la baciò sulla testa e disse: «Vedremo».
Biancaneve le circondò la vita con le braccia. Rosarossa sorrise e andò a cercare altre coperte mentre Ivo osservava il tramonto dalle finestre.
Si salutarono tutti davanti alla porta, e le bambine restarono a guardare l’amico che scompariva nei boschi blu scuro.
Quando rientrarono, Rosarossa tentò di aiutare la madre a riordinare, ma a malapena riusciva a tenere gli occhi aperti, così salì sul soppalco e andò a dormire. Biancaneve, invece, si preparò un letto di fortuna accostato al focolare, in modo da poter dormire accanto a Earl Grey e ai suoi gattini. Mentre si sdraiava su un fianco e posava la testa su un cuscino vicino alle tre morbide creaturine, sussurrò: «Buon compleanno».