ISTINTO E INTUIZIONE

Sui vent’anni, io ero fascista sino alla radice dei capelli. Non trovo alcuna attenuante per questo: mi attirava, del fascismo, quanto esso aveva di peggio, e non posso invocare per me le scuse a cui ha diritto un borghese conservatore soggiogato dalle parole Nazione, Stirpe, Ordine, Vita tranquilla, Famiglia, ecc. Per effetto di non so quale triste tendenza, che si annidava nel fondo della mia natura, e che ancor oggi mi fa dormire con un solo occhio come il custode nella casa già visitata dai ladri, sui venti anni io mi vergognavo sinceramente di ogni qualità alta e nobile e aspiravo ad abbassarmi e invilirmi con lo stesso candore, avidità, veemenza con cui si sogna il contrario. Forse a causa della mia gracilità (e un poco delle letture: Ibsen, Anatole France, Pirandello, Bergson, Gentile, Leopardi frainteso…) io guardavo con stupita ammirazione, come a statue di Fidia, a quelli fra i coetanei ch’erano più robusti e più idioti, e avrei dato due terzi di cervello per un bicipite ben rilevato. Davo al Pensiero (studio, meditazione, esame di coscienza, disamore per il pratico e l’utile) la colpa della mia magrezza, e lo ripagavo con una fortissima antipatia. Una parola mi abbagliava e riscaldava come un sole: istinto, e dietro le veniva, più filosofica ma non meno luminosa, l’altra parola di moda: intuizione. Facevo scherma e atletica leggera, portando il cigolio delle mie ossa sugli anelli, in cima alle pertiche e sotto il fischio delle piattonate (giunsi al punto da vincere un campionato schermistico; e la fotografia di un giornale mostra ancora una coppa d’argento fra le mani di un magrolino che appena la sa reggere); scambiavo il senso di benessere dopo la ginnastica (a me ignoto durante l’adolescenza sedentaria e poetica) per il più alto sentimento umano. Afflitto dall’idea della morte che, nello specchio, pareva guardarmi attraverso la mia pelle diafana, e della quale i miei nervi esauriti mi facevano spesso provare almeno due dei tre stadi con cui essa progredisce e si conclude, il mio più grosso problema non era quello morale, ma l’altro di esistere. Star bene in salute era per me un attimo inebriante nel quale si compendiavano il pensar bene, l’operare bene, il sognar bene, l’esprimersi bene. Una confusione simile credo che non sia mai accaduta in un cervello umano. Il mondo era capovolto, col cielo in basso e l’inferno in alto: la salute mi avvicinava all’alto, e la malattia al basso, e poiché sapevo che in alto c’era Dio e in basso il diavolo, credevo in buona fede di vedere Dio sorridere alle mie smargiassate, e il diavolo trasparire fra la malinconia, la pensosità e il rimorso, i tre veli della mia adolescenza che ogni tanto cercavano di riavvolgermi. Provavo per Croce l’acuto fastidio che il dormiglione e poltrone prova per colui che lo scuote e sbatte per i capelli: sentivo in Croce l’unico serio pericolo, esistente a quei tempi, per i miei velenosi e ormai piacevoli sogni.

Il fascismo, lo reputai una religione; e in verità non potevo trovare un culto più macchinoso e fervido della bassezza e un odio più sincero e meglio armato per le cose alte e nobili. L’Italia fascista, la reputai un tempio: nessuna società infatti aveva mai dichiarato, con tanto concorso di popolo, grandiosità e strepito, dalle sue piazze, dalla sua radio, dai suoi giornali, dalle sue Camere, dalla sua scuola, guerra al Pensiero. Quel credere non si sapeva bene a che cosa, mentre non era moralità per il fatto che non era credere a Gesù Cristo né al Bene e dunque non imponeva alcuna altra rinunzia, era un gradevolissimo e sicuro antidoto del pensiero: quel credere si risolveva in sostanza nel categorico invito a non pensare. Mirabile credo per uno che si trovasse nello stato in cui allora mi trovavo io. Provai la gioia dell’animale da gregge: di essere d’accordo con milioni di persone (e di conseguenza coi loro prefetti, i loro giudici, la loro polizia, ecc.), e sentire, con un grado in più d’intensità, quello che, non esse, ma il loro insieme sentiva. Un ottimismo di terz’ordine s’impadronì di me, e un’ilarità da gitante in comitiva s’attardava sul mio viso anche nella più completa solitudine. La mia stupidità si atteggiava a genio, e del genio imitava i miracoli nel ridurre le cose più complesse e ingarbugliate a unità semplici ed eterne (com’è naturale, si trattava di un’eternità che avrebbe fatto ridere di disprezzo la meno longeva delle effimere!). Nello stesso tempo, amavo e ammiravo Borgese, ma non per le ragioni che dovrebbero indurre una persona ad amarlo e stimarlo, sibbene per altre, del tutto opposte, che io trovavo in seno alla confusione tenebrosa da cui ero occupato. Mi pareva che Borgese moralista celebrasse la vittoria dell’uomo attivo sul pensatore; vedevo in lui la stessa sfiducia nel pensiero che faceva battere il mio cuore e sulla quale credevo che potesse ergersi una nuova moralità. Il suo Rubè che si lasciava misticamente calpestare dai cavalleggeri, il suo Elio Gaddi che annunziava misticamente una generazione di barbari di gran lunga superiore a quella di uomini perbene a cui egli apparteneva, mi parvero i simboli poetici del fascismo. E con perfetta sincerità facevo le mie grandi meraviglie perché Borgese non fosse ancora esplicitamente fascista; e a lui che, da uomo tollerante e civile, sopportava le mie sciocchezze, mandavo lettere per esortarlo ad essere anche nelle apparenze quello che io credevo fosse già nella sostanza. A una lettera, che gli mandai in America, Borgese rispose con un’altra che mi giunse quando la mia ubbriachezza di stupidità era per dissiparsi, lasciandomi fra sofferenze e disordini morali talmente forti da non far capire che cosa andasse alla malora, se le mie larve o la mia gioventù o la mia vita stessa.

La lettera è dell’8 luglio 1933, e io la pubblico testualmente, togliendovi quei passi in cui l’affetto spinge il Borgese ad espressioni soverchiamente gentili nei miei riguardi:

«… Ella non può far nulla.

«Si tratta di questo. Non certo sollecitato da me l’Istituto di Cultura Italo Argentino, B. Aires, mi chiedeva fin dalla primavera del ’31 un giro di conferenze nell’America del Sud. Tutto fu fissato per l’estate scorsa, poi prorogato a questa. Infine, a patti già conclusi, ostinatamente tacquero, e non ebbero nemmeno il coraggio di confessare il perché della rottura.

«Essa è stata voluta da Roma, o più precisamente dal gang dei miei nemici che fa capo a un certo Piero Parini.

«L’altro gang è a Milano, e fa capo al sen. Gaudenzio Fantoli, il quale dispone del Guf. Né l’uno né l’altro caso possono riportarsi, salvo che indirettamente, ad avversioni personali; né l’uno né l’altro ad avversioni letterarie (poiché tutti e due i capi sono illetterati). Sono casi di nequizia pura, d’imbecillità pura. Non sanno quello che fanno.

«L’azione combinata dei due gruppi mi procurò alquanti anni, molti anni, di una tortura inenarrabile e incessante: tale che non posso pensarvi senza che una specie di raccapriccio per la più che cristiana virtù con cui la sopportai.

«Tale tortura non sarebbe stata possibile senza tolleranze superiori.

«Infine la banda di Milano mi costrinse all’esilio; quella di Roma, inseguendomi perfino in Argentina, mettendomi spie alle calcagna perfino nei recessi più rustici della Nuova Inghilterra, facendomi insomma in tutti i modi sapere quali accoglienze mi prepara al ritorno, m’impedisce ancora il ritorno.

«In relazione al mio programma di lavoro, l’impossibilità del viaggio in Sud America è, come dicono qui, “una benedizione sotto mentite spoglie”; la solitudine in cui passo quest’estate è fertile e serena; ed è pur vero che i tre quarti dei nostri beni li dobbiamo ai nemici. Resta però il valore di sintomo.

«Le accuse che mi si fanno, e che mi hanno costretto all’esilio, sono di doppio ordine. Una è positiva, l’altra è negativa.

«L’accusa positiva si riferisce alla mia politica cosiddetta rinunziataria degli anni ’17 e seguenti.

«Supponendo che ciò ch’io feci allora fosse delitto, e che questo delitto sia prescritto, io devo poter vivere nella mia patria senza condanna. Se invece è soggetto a sanzione, mi si deve imputare e giudicare. Davanti a qualsiasi tribunale, se non mi si toglie la parola, io dimostrerò che la mia politica cosiddetta rinunziataria è il solo pensiero seriamente imperialista che si sia avuto in Italia da molti anni. Qualunque imperialismo territoriale è flatus vocis o catastrofe.

«L’accusa negativa è che io non abbia fatto e non faccia dichiarazioni fasciste. Lei pure me ne ha chieste; e da Lei, Brancati, non m’aspettavo questa richiesta.

«Lei ne ha fatte e ne fa; ma, senza dubbio, con animo convinto. Dunque la Sua servitù è libertà. (In verità, io non mentivo; ma questo scusava o aggravava la mia colpa? Non ero servo della menzogna, ma ero servo del diavolo “ch’è padre di menzogna”.)

«Io – a prescindere dall’inumanità di chiedere che il torturato incensi gli aguzzini – fui nella mia verde gioventù dannunziano diciotto mesi, e non ortodossamente…; nemmeno nei momenti di misticismo più sentimentale, a cui accresceva attrattiva la nostalgia della patria in paesi protestanti, seppi decidermi alla comunione; non fui mai socialista o massone. Qualunque cosa valga la mia vita, essa è stata una testimonianza di dignità e di ragione. Non mi fingerò fascista a cinquant’anni sonati.

«Potrebbe darsi ch’io dovessi trovarmi davanti all’alternativa di rovinare la mia vita o di corrompere la mia anima. In questo caso Lei che mi vuol bene mi dovrebbe consigliare di scegliere l’anima.

«Forse questa lettera Le spiacerà. Ma la riponga tra le Sue carte, ed aspetti a giudicarla dieci anni…»

Non dovevo aspettare dieci anni. E già nella lettera seguente, Borgese indovinava il mio stato:

«Probabilmente la crisi di salute che ha avuto in questi mesi dipende da incertezza e travaglio interiore. Non se ne affligga…»

Ma qui comincia per me una storia del tutto diversa, la quale, non facendomi il disonore che mi fa la prima, non conviene sia narrata.

Storia della sahariana di un gerarca.

Nel 1939 si agitò e gesticolò, zeppa di una carne che sussultava, mentre il colletto rafforzato da due fasci dorati, sentiva gorgogliare dentro di sé le seguenti parole: «Sono popoli vecchi!… Devono uscire dal Mediterraneo! Non vedete che basta gettare una voce, e scappano?… Per Dio, com’è che non capite queste cose? Disfattisti maledetti, v’impiccherei agli alberi della strada!».

Nel 1943, questa sahariana ballava fra le braccia di un soldato canadese, avendo sulle spalle una grossa mano dal pelo rosso che le scivolava lentamente verso giù. Dimessi i fasci littori e le spalline, e trasformata in giubbetto per la figlia del suo primo indossatore, essa stringeva teneramente un petto agitato dai battiti d’amore, e si divertiva a confrontarli coi battiti d’odio del cuore paterno – gli uni e gli altri sempre per l’Inghilterra.

Chiudendo il collo delicato, il vecchio colletto si mise poi a contare i o yes che vi passavano, e concluse: «Troppi!».

Grandezza dell’uomo medio, poco appariscente, ma vera e sostanziale. Come uno scoglio contro cui s’infrangono i cavalloni, egli sta eretto in mezzo alla superbia, violenza, dismisura, follia della sua epoca. Richiami belluini, tentazioni ed esortazioni d’ogni sorta, Nietzsche, Freud, attivismo, fanatismo, materialismo, intellettualismo, vengono a morire ai suoi piedi. Placidamente egli continua a lavorare, e ogni mattina, svegliandosi con una faccia comune, annunzia che, nonostante gli sforzi compiuti durante la notte dai pazzi e dai violenti, l’uomo rimane sempre l’uomo.

… Questo viso comune faceva perdere le staffe ai teorici del fascismo. Essi avrebbero dato metà del loro sangue per cambiare l’aspetto dei loro contemporanei. Ordini di radersi i baffi, di rapare le teste, di non ridere, di non ammiccare, di tenere la nuca eretta, emessi dalle centrali del fanatismo (le cosiddette centrali del buio, dalle quali nel ’39 si diramò la tenebra, o meglio l’oscuramento per tutta l’Europa) non riuscirono, almeno in Italia, che a dare una posa stranamente buffa a una faccia comune.

L’uomo medio, l’uomo comune: ecco la bestia nera dei fanatici! Essi sanno che quella faccia, in apparenza così debole e insignificante, ha in verità la grandezza di un mare tranquillo nel quale sprofonderanno come sassolini, e si perderanno per sempre, senza lasciare alcuna traccia, i loro sforzi, i loro urli e le loro teorie.

Il cittadino che, per aver partecipato a una guerra, rimane combattente per tutta la vita; il contadino che, zappando la terra, fa la battaglia del grano; il giornalista e lo scrittore combattivi; l’oratore che ruggisce… Alle statue preferire le «bandiere strappate al nemico» (quante statue hanno abbandonato l’Italia, da quel giorno, e quante bandiere, al loro posto, polacche, francesi, inglesi, canadesi, russe, jugoslave, americane, sudafricane, indiane, greche!); l’azione al principio di tutto; sedere al caffè, sotto l’insegna «Caffè della Marcia su Roma» e pensare: “In quest’epoca di rivoluzione, io…”; sedere allo stesso caffè, sotto l’insegna Caffè Piazzale Loreto e pensare: “In quest’epoca di rivoluzione, io…”. Ecco l’arcadia politica, i cui affiliati sono tutti travestiti da tigri, pantere, leoni, e che bilancia perfettamente l’arcadia letteraria i cui affiliati sono tutti travestiti da colombi, agnelli, pastorelli.

Benda ha pubblicato un articolo sulla «Trahison des laïcs». «Qu’est-ce qu’être homme?» scrive Benda. «Est-ce présenter une certaine conformation anatomique? Ou est-ce avoir su s’élever à un certain degré de moralité, tel que ceux qui n’y ont pas réussi, individu ou groupe, n’ont pas droit au nom d’homme? Ne doit-on pas, si on repousse l’idée de races biologiques, accepter l’idée de races morale?»

Un razzismo morale potrebbe generare altrettante crudeltà che un razzismo biologico.

Uomo è colui che ha saputo elevarsi a un certo grado di moralità? Senza dubbio. Ma la più chiara prova di moralità consiste nel trovare l’uomo (il fratello) anche nel bruto, per il solo fatto che questo bruto può, in ogni istante, elevarsi al nostro grado di moralità, e anche sorpassarlo.

Il giudice che, nel condannare l’autore di un delitto efferato, pensa di mandare alla morte una bestia, si spoglia di altrettanta umanità quanta ne manca all’immagine, che egli si è fatta, del suo condannato.

Di nessun essere, che abbia il nostro viso, si può finir di sperare, in nessun momento, che, in seguito a un atto di volontà o a un “lampo interno”, egli divenga, non dirò un uomo onesto, ma addirittura un santo.

Se noi siamo privi di una simile fiducia, non potremo dirci moralmente maturi, e presto decadremo al grado di fatalisti, per passare subito a quello di fanatici. Considerando bestie taluni colpevoli (o immorali, o amorali), perderemmo anche noi il diritto di chiamarci uomini perché un simile giudizio ci avrebbe fatto scivolare giù dal primo gradino della moralità.

L’amore non deve confondersi con la giustizia (su questo punto, Benda dice cose di grande importanza). Ma la giustizia non può, al fine di garantire sonni tranquilli ai suoi ministri, chiedere alla ragione di accecarsi a tal punto da vedere sui patiboli, non più uomini, ma animali.