LE MASSE

Lasciai Roma nel marzo del ’43, viaggiando verso il sud in un treno carico di ministri e propagandisti che andavano a celebrare non so che cosa nella Sicilia martirizzata dai bombardamenti. Ogni tanto questi oratori sporgevano dai finestrini una testa rapata e “volitiva”, un modello di cranio attorno al quale la sciagura e la sconfitta stringevano sempre di più il loro volo di corvi. Al luccichio degli alamari sul giubbone nero, la gente toccava ferro e borbottava: «Malanuova a lui! Perché si affaccia?». In buona fede credevano che i mitraglieri americani, non appena scorta dal cielo quella divisa si sarebbero gettati a piombo per mitragliare il treno innocente.

Quando lasciai Roma, l’apparato fascista era tutto in piedi: palazzo Venezia, il Viminale, palazzo Littorio, palazzo Chigi, la Farnesina, circoli rionali, Gil, Dopolavoro, Guf, Milizia volontaria, Mistica fascista, Ovra, Razzismo, Impero, ecc. si ergevano con quell’aria di “sfida ai secoli” con la quale il tempo e la morte furono provocati per vent’anni nel modo più insolente e più buffo.

Dopo due anni, senza che la città porti la minima scalfittura (almeno nei quartieri che visito), senza che alcuno possa mostrarmi il segno, non dirò di una granata, ma di una sassata, Roma non ha più Gil, Ovra, Guf, Razzismo, Milizia volontaria. La pazzia è stata catturata di notte, imbavagliata, chiusa nella camicia di forza e portata via col favore delle tenebre, nel più assoluto silenzio… Questa è l’impressione che prova un forestiero partito nel ’43 e tornato nel ’45.

Mi metto a osservare i visi dei passanti, e li paragono a quelli di due anni fa.

Se dovessi indovinare da queste facce che la tirannide è terminata, correrei novantanove volte su cento il rischio di sbagliare. Comprendo che siamo dei vinti. Ma al diavolo! Saremmo rimasti così permalosi e nazionalisti da conferire a una sconfitta militare tanta importanza? La sconfitta militare, quando non è sconfitta del meglio che possegga un popolo, delle sue virtù, del suo sentimento della libertà, delle sue leggi più alte e dei suoi costumi più civili, ma al contrario è la disfatta dei suoi errori momentanei, dei suoi peccati, dei suoi vizi, non dovrebbe costituire una sciagura così grave. Io non invidio gl’inglesi da quando si sentono “vincitori” e mandano dalle scarpe lo scricchiolio di chi “cammina da vincitore”. Mostrate un uomo, un mortale qualunque, indicate il suo viso, nel quale spicca un naso che pesca continuamente nell’aria l’ossigeno necessario per la combustione, e aggiungete le parole: «Ecco un vincitore!»: non potrete evitare di apparire maligni. Capisco che non è lui che ha vinto, bensì le sue “buone ragioni”; ma le buone ragioni non danno ad alcuno il diritto di rappresentarle per sempre, e i vincitori, i forti, sono per la massima parte dei tristi sopravvissuti alle buone ragioni che rappresentarono da combattenti e da deboli. (La gloria che circondava la Camera dei Comuni al tempo in cui sedeva a discutere sotto l’assalto dei bombardieri di Goering, o i teatri di Mosca quando risuonavano di concerti sotto lo sguardo di Hitler che i telescopi militari prolungavano fin laggiù, non è certo da paragonarsi con l’aura che ha circondato la conferenza di Mosca. Se il popolo italiano non ricorrerà mai più alle sue fanfare nazionalistiche, ma si farà forte dei princìpi umani contro quelli imperialistici, e non dirà, nemmeno nel sogno più arrabbiato la frase: «E se è così, aveva ragione il duce!» ma con vero disgusto scoprirà negli altri popoli quanto gli possa ricordare il suo più disgustoso errore: il fascismo, noi vedremo presto la Giustizia e la Civiltà rimuovere il loro trono dall’Inghilterra, dalla Russia e dall’America e piantarlo trionfalmente fra i nostri miseri cenci.)

In ogni modo, troppi visi sono ancora quelli del ’43: timidi nella casa del padrone. Anch’io del resto, in piazza Venezia, mi volto con sospetto verso uno sconosciuto altissimo che si è fermato alle mie spalle e sembra spiarmi. (Il “male della spia”, consistente nel gettare un’occhiata di sbieco prima di parlare a voce alta di un argomento scabroso, ci accompagnerà per molto tempo. È il tic dei popoli vissuti sotto la tirannide. Speriamo che i nostri figli ne siano talmente immuni da non saper frenare le risa ogni volta che noi vi cadiamo.)

Quello che di più mi sbalordisce è il viso dei lavoratori manuali: anche viaggiando nella macchina di un qualche personaggio di sinistra, si vede, alla fine della corsa, un essere del tutto privo d’orgoglio umano brancolare presso il finestrino e aprire umilmente lo sportello. Ma come? Dopo tanti articoli dell’«Avanti!» e dell’«Unità», dopo tante radunate e grida rivoluzionarie, ancora questi autisti non hanno trovato il sentimento della parità? Che le adunate facciano sempre male agli uomini, anche quando essi siano unicamente operai, contadini, tranvieri, e i loro oratori sono comunisti e socialisti, e che l’anima urlante e minacciosa, della quale si riempie per un’ora un’accolta di persone, non riesca a scacciare da nessuno l’anima servile di ogni giorno?

D’altro canto, dopo le tante adunate del ventennio, sarebbe meglio che noi italiani non c’incontrassimo in piazza per almeno dieci anni: la figura, che componiamo così stretti insieme a gridare la stessa parola, somiglia troppo al mostro che acclamò l’impero e la guerra. Quanto agli operai, ai tipografi, ai tranvieri, ecc., perché non trattarli come gli avvocati, i professori, gl’ingegneri? Che hanno fatto di male, in che cosa difettano, da essere chiamati “massa” dai loro stessi difensori politici, e come tali trattati? Perché attribuire a questi uomini seri un gusto deteriore per cui avrebbero bisogno di scritte murali, di enormi “fotomontage”, labari, divise, inni, saluti, ecc.?

In questo modo, essi hanno accresciuto di molto il loro peso collettivo, e di poco o di nulla il loro peso individuale. Si ha paura di ciò che possono decidere e mettere in opera quando si riuniscono in centomila, e non si ha la minima preoccupazione degli argomenti che ciascuno di loro può dire a quattr’occhi o della scheda che può votare recandosi solo e “non inquadrato” al seggio elettorale. (E se domani, i tranvieri, i postini, i tipografi, ecc., fra i quali conto molti amici, e dei quali conosco i figli per averli avuti alunni nell’istituto magistrale, chiederanno ragione dell’essere stati insultati per più di un secolo con la denominazione dispregiativa di “massa”?)