di Umberto Eco
È impossibile immaginare la civiltà occidentale e in particolare la civiltà europea senza che si profili ai nostri occhi il “miracolo greco” in tutta la sua compiutezza: scultura, architettura, letteratura, filosofia e scienza. Se la cultura europea è stata permeata dal pensiero giudaico-cristiano, questa influenza è passata attraverso il filtro della grecità (e dell’antichità romana), così che la stessa Bibbia è circolata per secoli nella sola versione latina.
Ma cosa pensiamo quando parliamo di un modello greco? Di solito ci riferiamo a una elaborazione piuttosto tarda, vuoi rinascimentale, vuoi neoclassica. Quando vagheggiamo (e spesso la scuola o una editoria compiacente ci incoraggiano in tal senso) una grecità bianca, dalle bianche statue e dai bianchi templi, dimentichiamo o ignoriamo che statue e templi erano colorati. Spesso noi vediamo la “grecità” più come la immaginavano i devoti rinascimentali della divina proporzione o gli esteti raffinati dell’epoca di Canova che come la vivevano i contemporanei di Parmenide, o di Socrate, o di Tolomeo.
Quando pensiamo all’Atene delle conversazioni filosofiche, illuminate e solenni nell’agorà, ci dimentichiamo sovente dell’Atene dei mercanti, dei marinai del Pireo, degli schiavi, di quel mondo brulicante di attività rappresentato da Aristofane.
Pensando alla Grecia noi ricordiamo di preferenza il suo modello apollineo, dimenticandoci dell’altro volto, quello di Dioniso; e studiando a scuola l’Atene dell’Accademia e del Liceo lasciamo nell’ombra, in cui già allora si nascondeva, la Grecia dei misteri, più vicina all’Ade che all’Olimpo.
E lo stesso vale per Roma. Vogliamo allora fare un accenno ai lati oscuri della civiltà greco-romana, accorgendoci peraltro che oscuri non erano, ma venivano rappresentati da poeti e artisti?
Nei nostri musei noi vediamo statue di Afrodite o di Apollo che nel candore del marmo esibiscono una bellezza idealizzata. Nel V secolo a.C. Policleto aveva prodotto una statua, detta poi il Canone, in cui si sommavano armonicamente tutte le regole per una proporzione ideale e più tardi Vitruvio avrebbe dettato le giuste proporzioni corporali in frazioni della figura intera. È naturale che, alla luce di questa idea di bellezza, fossero visti come brutti tutti gli esseri che non incarnavano tali proporzioni. Ma se gli antichi avevano idealizzato la bellezza, il neoclassicismo ha idealizzato gli antichi, dimenticando che essi (spesso influenzati da tradizioni orientali) hanno consegnato alla tradizione occidentale anche le immagini di esseri goffi, grotteschi, sproporzionati, la negazione di ogni canone.
L’ideale greco della perfezione era rappresentato dalla kalokagathia, termine che nasce dall’unione di kalos (genericamente tradotto come “bello”) e agathos (di solito tradotto come “buono”, ma che copre tutta una serie di valori positivi). È stato osservato che l’essere kalos e agathos definiva genericamente quella che nel mondo anglosassone sarebbe poi stata la nozione aristocratica di gentleman, persona di aspetto dignitoso, dotato di coraggio, stile, abilità e conclamate virtù sportive, militari e morali. Alla luce di questo ideale la grecità ha elaborato una vasta letteratura sul rapporto tra bruttezza fisica e bruttezza morale.
Certamente, se per Platone la vera realtà era quella del mondo delle Idee, di cui il nostro mondo materiale è ombra e imitazione, il brutto avrebbe dovuto identificarsi con il non-essere, dato che nel Parmenide si nega che possano esistere idee di cose immonde e spregevoli come le macchie, il fango o i peli. Il brutto esisterebbe dunque solo nell’ordine del sensibile, come aspetto dell’imperfezione dell’universo fisico rispetto al mondo ideale. Più tardi Plotino, che più radicalmente definisce la materia come male ed errore, opererà una identificazione netta del brutto col mondo materiale.
Eppure nella realtà quotidiana l’uomo greco sapeva che una grande bellezza morale poteva accompagnarsi a una grande bruttezza fisica. L’aspetto di Sileno che sfigurava Socrate ne celava la grande anima, e bruttissimo era stato lo schiavo Esopo, pur tuttavia maestro di saggezza.
Platone nella Repubblica, ritenendo che il brutto come mancanza d’armonia fosse il contrario della bontà dell’animo, raccomandava che ai fanciulli fosse evitata la rappresentazione delle cose brutte, però ammetteva che in fondo esistesse un grado di bellezza proprio a tutte le cose, nella misura in cui adeguavano l’idea corrispondente; per cui si potevano dire belle una fanciulla, una giumenta, una pignatta, ciascuna di queste essendo però brutta rispetto alla precedente.
Aristotele nella Poetica sanciva un principio che sarebbe rimasto universalmente accettato nel corso dei secoli, e cioè che si possono imitare bellamente le cose brutte – e sin dalle origini si ammirava il modo in cui Omero aveva bene rappresentato la sgradevolezza fisica e morale di Tersite.
Infine vediamo come più tardi, in ambiente stoico, Marco Aurelio riconosca che anche il brutto, anche le imperfezioni, come le screpolature sulla crosta del pane, contribuiscono alla gradevolezza del tutto.
Il mondo greco era ossessionato da molti tipi di bruttezza e malvagità. Anche se nei cortei di Bacco appaiono sileni ebbri e comicamente ripugnanti, proprio nel Simposio si elogia come bella prodezza la resistenza di Socrate alle più generose libagioni.
Nella cultura greca ci sono le zone sotterranee dove si praticano i misteri (come ad Eleusi), e gli eroi (come Ulisse ed Enea) si avventurano nelle nebbie tristi dell’Oltretomba, di cui già Esiodo ci racconta gli orrori. La mitologia classica è un catalogo di inenarrabili crudeltà: Saturno divora i propri figli, Medea li massacra per vendicarsi del marito fedifrago, Tantalo cuoce il figlio Pelope e lo imbandisce per sfidare la perspicacia divina, Agamennone non esita a sacrificare la figlia Ifigenia per propiziarsi gli dèi, Atreo offre le carni dei figli al fratello Tieste, Egisto uccide Agamennone per sottrargli la sposa Clitennestra, che sarà uccisa da suo figlio Oreste, Edipo, sia pure senza saperlo, commette parricidio e incesto… È un mondo dominato dal male, dove esseri anche bellissimi compiono azioni “bruttamente” atroci.
In questo universo vagano esseri spaventevoli, laidi in quanto ibridi, che violano le leggi delle forme naturali: si vedano in Omero le Sirene (che non erano come le ha rappresentate la tradizione posteriore, donne affascinanti dalla coda di pesce, bensì uccellacci rapaci per metà), Scilla e Cariddi, Polifemo, la Chimera; in Virgilio Cerbero e le Arpie; e poi le Gorgoni (dalla testa irta di serpenti e le zanne di cinghiale), la Sfinge, dal volto umano su un corpo leonino, le Erinni, i Centauri, famosi per la loro doppiezza, il Minotauro, dalla testa taurina su corpo umano, le Meduse. Se i posteri hanno vagheggiato l’era della kalokagathia, sono stati anche ispirati da queste manifestazioni dell’orrendo, da Dante sino ai giorni nostri.
La vergine romana, uscita dal tempio di Vesta, incontrava all’angolo della strada la statua di Priapo, divinità minore dotata di un organo genitale enorme. Figlio di Afrodite, era protettore della fertilità e le sue immagini, di solito in legno di fico, venivano poste nei campi e negli orti per proteggere i raccolti e come spaventapasseri; si riteneva che potesse allontanare i ladri sodomizzandoli. Era certamente osceno, era considerato ridicolo a causa di quel membro esorbitante e non era considerato bello, anzi era definito amorphos, laido (aischron), in quanto privo della giusta forma. In un bassorilievo di Aquileia dell’epoca di Traiano è rappresentato mentre Afrodite, disgustata dalle fattezze di quel figlio mal nato, lo respinge. Infine, non era un dio felice: veniva definito anche come “monolitico”, in quanto era intagliato in un unico blocco di legno, e issato nel campo, senza possibilità di muoversi, senza la capacità di metamorfosi propria di molti altri personaggi mitologici, oppresso dalla solitudine e dalla incapacità, malgrado le sue ipertrofiche possibilità, di sedurre una ninfa. E si veda il tono di compatimento con cui lo considera Orazio: “Un tempo ero un tronco di fico, / un legno buono a nulla, / quando un falegname incerto se farne / uno scanno o un Priapo, / decise per il dio. / E dio sono d’allora, / spauracchio senza pari d’uccelli e ladri: / i ladri li tengono a bada la mia destra / e il palo rosso / che s’erge oscenamente dal mio inguine, / mentre un fascio di canne fissato alla testa / atterrisce i volatili dannosi…” (Orazio, Satire I, 8, trad. it. M. Ramous).
Eppure Priapo era una divinità divertente e simpatica; amico dei viandanti, come tale viene rappresentato da vari poeti, da Teocrito ai numerosi autori dell’Antologia Palatina. Priapo simboleggia così la stretta parentela che si è sempre stabilita sin dagli inizi tra bruttezza, sconcezza e comicità.
D’altra parte il mondo classico era molto sensibile ai portenti o prodigi, che venivano visti quali segni di sventure imminenti: erano fatti meravigliosi come piogge di sangue, incidenti inquietanti, fiamme nel cielo, nascite anomale, bambini dal doppio sesso, descritti nel Libro dei Prodigi di Giulio Ossequente (che nel IV secolo annota tutti i fatti strabilianti accaduti a Roma nei secoli passati).
Forse in base all’esperienza di queste anomalie Platone era riuscito a immaginare la figura dell’androgino originario, e in parte sulle stesse basi erano stati probabilmente concepiti molti dei mostri che si diceva abitassero le terre dell’Africa e dell’Asia, di cui si avevano scarse e imprecise notizie. Sulle meraviglie dell’India aveva scritto nel IV secolo a.C. Ctesia di Cnido; la sua opera è andata perduta, ma di creature straordinarie è ricca la Storia naturale di Plinio, che ha poi ispirato una miriade di compendi successivi. Nel II secolo Luciano di Samosata, nella sua Storia vera, sia pure per parodiare la credulità tradizionale, metteva in scena ippogrifi, uccelli dalle ali di foglia di lattuga, minotauri e le pulci sagittario grandi come dodici elefanti.
La Grecia e Roma conoscevano davvero solo le dee che popolano i nostri musei? E che dire di come l’opinione comune vedeva la donna, relegata in casa, ammessa a discutere di filosofia con gli uomini solo se aveva accettato di diventare etera, ovvero cortigiana? La misoginia greca e latina raggiunge spesso limiti veramente offensivi; Catullo e Marziale ci forniscono disgustosi ritratti femminili, e ferocemente misogina è la Satira VI di Giovenale. E Orazio? Si legga l’Epodo XII:
“Che cerchi tu, donna, indicatissima per elefanti neri? / perché mandi regali, oh perché lettere amorose a me, / che non sono un giovine esuberante e non ho le narici turate? / Poiché, solo col fiuto, più sagacemente di un cane da caccia, / che scova dov’è nascosto il cinghiale, io m’accorgo se nel naso si appiatti un polipo, / o sotto le ascelle pelose un fetido becco. / Deh, qual sudore e che tristo lezzo si leva d’ogni parte dalle membra disfatte di costei! / allorché, sbrigliato il pene, / ella si affretta a saziare la sfrenata libidine; / né più mantiene sulle guance il belletto liquefatto / e la tintura, preparata con sterco di coccodrillo; / e, sfogando la sua foia, rompe il letto teso, / con tutto il baldacchino…”
Ma siamo ancora più severi. L’Atene classica ci si offre come il modello stesso della polis bene ordinata e retta da leggi democratiche. Lasciamo parlare chi ne ha tessuto le lodi più alte, rileggendo il discorso di Pericle (che Tucidide riproduce ne La guerra del Peloponneso, II 37-40). Questo discorso è ed è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo la felicità ai propri concittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione delle leggi, il rispetto delle arti e dell’educazione, la tensione verso l’uguaglianza.
“Abbiamo una forma di governo che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale... E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango. [...] Senza danneggiarci reciprocamente esercitiamo i rapporti privati e nella vita pubblica la reverenza soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in obbedienza a coloro che sono nei posti di comando, e alle istituzioni poste a tutela di chi subisce ingiustizia, e in particolare a quelle che, pur essendo non scritte, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta. [...]
E abbiamo dato al nostro spirito moltissimo sollievo dalle fatiche, istituendo abitualmente giochi e feste per tutto l’anno, e avendo belle suppellettili nelle nostre case private, dalle quali giornalmente deriva il diletto con cui scacciamo il dolore. E per la sua grandezza, alla città giunge ogni genere di prodotti da ogni terra, e avviene che noi godiamo dei beni degli altri uomini con non minor piacere che dei beni di qui.
[...] Amiamo il bello, ma con compostezza, e ci dedichiamo al sapere, ma senza debolezza; adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire che essa offre, che per sciocco vanto di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo è assai di più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici” (trad. it. Ugo Fantasia).
Ma a cosa mira questo elogio della democrazia, idealizzata al massimo? A legittimare l’egemonia di Atene sugli altri suoi vicini greci e sui popoli stranieri. Pericle ci dice in sostanza che gli Ateniesi hanno il diritto di imporre la loro forza sugli altri perché incarnano la forma migliore di governo che esista. Dipinge in colori affascinanti il modo di vivere della città per legittimarne la prepotenza, e lo fa elaborando quella che potremmo chiamare una “retorica della prevaricazione”.
Ed è sempre Tucidide che ci offre un tragico esempio di prepotenza, in cui non è neppure necessario trovare pretesti e casus belli, ma dove si afferma direttamente la necessità e l’inevitabilità della sopraffazione. Nel corso del conflitto con Sparta, gli Ateniesi decidono una spedizione contro l’isola di Melo, colonia spartana che era rimasta neutrale. La città era piccola, non aveva dichiarato guerra ad Atene, né si era alleata con i suoi avversari. Bisognava dunque giustificare quell’attacco, e prima di tutto mostrare che i Meli non accettavano i principi della ragionevolezza e del realismo politico. Pertanto gli Ateniesi mandano una delegazione e avvertono che non li distruggeranno se essi si sottometteranno. I Meli rifiutano per orgoglio e senso della giustizia. Nel 416 a.C, dopo un lungo assedio, l’isola viene conquistata. Come scrive Tucidide: “gli Ateniesi uccisero tutti i maschi adulti caduti nelle loro mani e resero schiavi i fanciulli e le donne”. È ancora Tucidide a ricostruire il dialogo tra Ateniesi e Meli che ha preceduto l’attacco finale (La guerra del Peloponneso, V 84, 116).
Riprendiamone i punti fondamentali. Gli Ateniesi dicono che non faranno un discorso lungo e poco convincente, sostenendo che è giusto per loro esercitare l’egemonia perché hanno sconfitto i Persiani, oppure dicendo che ora si avvarranno di un diritto di rappresaglia perché i Meli hanno fatto torto agli Ateniesi. Rifiutano il principio del casus belli, e invitano i Meli a trattare partendo dalle vere intenzioni di ciascuno, perché i principi di giustizia sono tenuti in considerazione solo quando un’eguale forza vincola le parti, altrimenti “i potenti fanno quanto è possibile e i deboli si adeguano”.
Si noti che in effetti, così dicendo gli Ateniesi affermano, negandolo, che così fanno proprio perché le loro vittorie sugli Spartani hanno assicurato loro il diritto di dominare sulla Grecia, e perché i Meli sono coloni dei loro avversari. Ma di fatto, e con straordinaria lucidità – vorrei dire onestà, ma forse l’onestà è di Tucidide che ricostruisce il dialogo – spiegano che faranno quel che faranno perché il potere è legittimato solo dalla forza.…
I Meli, visto che non riescono ad appellarsi a criteri di giustizia, rispondono seguendo la stessa logica dell’avversario, e si rifanno a criteri di utilità, cercando di persuadere gli invasori che, se poi Atene dovesse essere sconfitta nella guerra contro gli Spartani, rischierebbe di sopportare la dura vendetta delle città ingiustamente attaccate come Melo. Rispondono gli Ateniesi: “Lasciate a noi di correre questo rischio; piuttosto vi mostreremo che siamo qui per sostenere il nostro dominio e che ora faremo le nostre proposte per la salvezza della vostra città, perché vogliamo dominarvi senza fatiche e conservarvi sani e salvi nel vostro e nel nostro interesse”.
Dicono i Meli: “E come potrebbe essere utile per noi essere schiavi, come è utile per voi dominare?”. E gli Ateniesi: “Perché voi invece di subire le estreme conseguenze diventereste sudditi, e noi ci guadagneremmo a non distruggervi...”. Chiedono i Meli: “E se restassimo fuori, senza essere alleati di nessuna delle due parti?”. Ribattono gli Ateniesi: “No, perché la vostra ostilità non ci danneggia quanto la vostra amicizia. La vostra amicizia sarebbe prova di una nostra debolezza, mentre il vostro odio lo è della nostra forza”. In altri termini: ci conviene più sottomettervi che lasciarvi vivere, così saremo temuti da tutti.
I Meli dicono che non pensano di poter resistere alla loro potenza ma che malgrado tutto hanno fiducia di non soccombere perché, devoti degli dèi, si oppongono all’ingiustizia. Risposta ateniese: “Gli dèi? Con le nostre richieste o con le nostre azioni non facciamo assolutamente nulla che contrasti con la credenza degli uomini nella divinità… Siamo convinti che tanto l’uomo che la divinità, dovunque hanno potere, lo esercitano, per un insopprimibile impulso della natura. E non siamo noi che abbiamo imposto questa legge, né siamo stati i primi ad applicarla quando già esisteva. Essa esisteva quando noi l’abbiamo ereditata ed esisterà in eterno. Anche voi, come altri, agireste esattamente come noi, se aveste la nostra stessa potenza”.
È lecito sospettare che Tucidide, pur rappresentando con onestà intellettuale il conflitto tra giustizia e forza, alla fine convenga che il realismo politico stia dalla parte degli Ateniesi. In ogni caso ha messo in scena l’unica vera retorica della prevaricazione, che non cerca giustificazioni fuori di sé, e la Storia non sarà altro che una lunga, fedele e puntigliosa imitazione di questo modello, anche se non tutti i prevaricatori avranno la lucidità e l’indubbia sincerità dei buoni Ateniesi.
Abbiamo con questo definito i tratti “negativi” del modello classico, che ci sarebbero stati occultati? Per nulla. Questi tratti li abbiamo conosciuti e amati; è dalle figure più fosche della tragedia classica che la teoria moderna dell’inconscio ha tratto le sue metafore, e la letteratura come la pittura si sono abbondantemente abbeverate alle gesta tenebrose delle Medee e alle figure inquietanti delle Sirene, il discorso dei Meli ha ispirato tutte le teorie occidentali della Realpolitik… È che il mondo classico ha saputo vivere con intensità e senza infingimenti la dialettica del Bene e del Male, della forma e dell’informe, del limite e dell’infinito.
Noi ricordiamo piuttosto del miracolo greco la capacità di proporre un Bene e un Bello ideale, il meccanismo del ragionamento coerente, la perfezione delle figure geometriche, il trionfo della simmetria; dell’eredità romana ricordiamo la certezza del diritto, la struttura logica della consecutio temporum, la precisione del confine... Ma Greci e Romani hanno saputo anche affrontare il lato oscuro e disordinato del pensiero, delle emozioni, della vita.
Torniamo alle radici della saggezza classica, all’Iliade. Teti si rivolge a Efesto affinché nelle sue fucine appronti nuove armi per suo figlio Achille. Efesto si mette al lavoro e parte del XVIII canto del poema è dedicata alla descrizione dello scudo che egli prepara. Questo scudo è una “forma” perfetta, dove l’intero universo è contenuto e definito nei limiti del cerchio e delle sue zone concentriche, così che nei limiti di quella forma Efesto può rappresentare la Terra, il Mare, il Cielo, il Sole, la Luna, gli Astri, le Pleiadi, Orione e l’Orsa Maggiore, due popolose città con le loro feste e i loro riti civili, la guerra, i lavori agresti e la pastorizia, la vendemmia, la caccia, le danze campestri… Il grande fiume Oceano circonda, limita, termina ogni scena e separa lo scudo dal resto dell’universo.
Lo scudo non lascia supporre che altro ci sia al di fuori dei suoi bordi; esso è un mondo conchiuso, ed è appunto l’epifania della Forma, del modo in cui l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche in cui viene istituito un ordine, una gerarchia, un rapporto figura-sfondo tra le cose rappresentate.
Omero ha potuto costruire (immaginare) una forma conchiusa perché aveva una idea chiara di cosa fosse una civiltà agricola e guerriera dei tempi suoi. Esiste però un altro modo di rappresentazione artistica che si manifesta quando, di ciò che si vuole rappresentare, non si conoscono i confini, quando non si sa quante siano le cose di cui si parla e se ne presuppone un numero, se non infinito, astronomicamente grande; o quando ancora di qualcosa non si riesce a dare una definizione per essenza e quindi, per parlarne, per renderlo comprensibile, in qualche modo percepibile, se ne elencano confusamente le proprietà – e le proprietà accidentali di un qualcosa, dai Greci ai giorni nostri, sono ritenute infinite.
C’è un momento in cui Omero vuole dare il senso dell’immensità dell’esercito greco (nel canto II dell’Iliade, anche per rendere il senso di quella massa di uomini che in quel momento i Troiani terrorizzati vedono disporsi sulla riva del mare). Dapprima egli tenta un paragone: “quella massa d’uomini, le cui armi riflettono la luce del sole, è come un fuoco che dilaga per una foresta, è come uno sciame d’oche o di gru che pare attraversare con un rombo il cielo” – ma nessuna metafora lo soccorre, e chiama a soccorso le Muse: “Ditemi, o Muse che abitate l’Olimpo, voi che tutto sapete… quali erano i capi e i guidatori dei Danai; la folla non chiamerò per nome, nemmeno se avessi dieci lingue e dieci bocche”, e pertanto si dispone a nominare solo i capitani e le navi.
Sembra una scorciatoia ma questa scorciatoia prende 350 versi del poema. Apparentemente l’elenco è finito (non dovrebbero esserci altri capitani e altre navi), ma siccome non si può dire quanti uomini ci siano per ogni duce, il numero a cui si allude è per intanto indefinito.
Omero gioca al limite, perché la stessa matematica greca aveva il terrore dell’infinito, e i pitagorici, di fronte all’infinito e a ciò che non può essere ricondotto a un limite, avvertivano una sorta di sacro terrore e cercavano nel numero la regola capace di limitare la realtà, di darle ordine e comprensibilità. Ma in fondo tutti gli aspetti oscuri della civiltà classica che abbiamo cercato di elencare, e che si oppongono alla idealizzazione neoclassica, rappresentano altrettanti modi di fare i conti (spesso senza riuscirci) con l’infinito, con l’irrazionale, col mondo delle pulsioni e delle passioni incontrollabili. Ed è per questo che noi ancora oggi viviamo all’ombra del modello classico, in tutte le sue contraddizioni.
Così, che si tratti di Apollo o di Dioniso, noi ricorriamo alla mitologia antica per individuarvi dei modelli di comportamento, al punto tale che persino i poeti cristiani (si veda tra tutti Dante) non esitano a invocare Apollo o le Muse, o a mettere in scena Cerbero. Noi viviamo usando ancora forme di ragionamento e dimostrazioni geometriche prodotte dal pensiero greco, e arrivate sino a noi dopo aver fecondato sia il pensiero arabo che quello dell’Occidente medievale. I non credenti si appellano ancora a un’etica che è stata proposta da Platone, da Aristotele e dagli stoici, né i credenti la trovano in complesso contraria ai principi dell’etica cristiana – senza contare che in greco scrivevano, e in parte pensavano, i primi Padri della Chiesa. Dalla Grecia abbiamo tratto il modello politico della democrazia, da Roma i principi del diritto, da entrambe le civiltà le tecniche retoriche che, anche quando non le riconosciamo come tali, usiamo ancor oggi nei parlamenti, nei tribunali, nella pubblicità. Noi coltiviamo ancora una visione eroica dello sport che ci proviene dalle Olimpiadi originarie, noi aspiriamo a una forma di educazione che pone le proprie radici nella paideia greca.
Si potrebbe continuare a lungo, ma in queste pagine introduttive ci premeva mostrare la complessità e la multiformità del modello classico, che continua a influenzarci anche in quei modi che rimanevano esclusi dalla sua versione edulcorata. Di tutto quello che non si è potuto dire in un’introduzione, diranno i saggi che seguono.