La vita quotidiana

di Isabella Tondo

La vita quotidiana degli antichi Greci, cittadini maschi, adulti e liberi, si svolge per lo più all’aperto, fuori casa fin dalle prime luci dell’alba. A questo mondo esterno si contrappone quello interno ed esclusivamente domestico delle donne, dedite alla cura della casa, all’educazione dei figli e alla tessitura: la soglia separa due distinti ambiti sessuali e, nel contempo, anche lavorativi e culturali. Il tempo, i consumi alimentari e la cura del corpo scandiscono la giornata del cittadino greco, in modi talvolta non troppo dissimili nelle varie località,anche se, tra tutte, Atene è la città protagonista delle maggiori narrazioni pervenute.

Il tempo e la sua misura

Eraclito (fr. 123) dice: “L’eternità è un fanciullo che gioca muovendo i pezzi sulla scacchiera: di un fanciullo è il regno” (trad. A. Tonelli).

La concezione greca del tempo ha fin da sempre associato la durata dei giorni alla forza vitale. Aión è “vita” e “forza vitale” (Iliade, X 415), ma anche “durata della vita”, “età”, fino a significare “eternità” da Platone (427-347 a.C.) in poi. Aión è in origine il tempo vissuto, coincide con la durata della vita di un uomo e si oppone a chrónos, il tempo “misurato” (per giorni o per stagioni): tempo come vitalità l’uno, tempo “secondo il numero” l’altro.

Accanto ad aión e chrónos esiste il kairós ovvero l’istante, l’occasione inattesa, il momento opportuno di cui approfittare (“kairós è di tutte le cose l’ottimo” scrive Esiodo, Opere e giorni, 694), un punto nel flusso ininterrotto del tempo; è l’incontro tra il tempo e l’azione dell’uomo. Nel fluire indistinto dei giorni e delle epoche, kairós coincide con l’“adesso”, l’istante irripetibile da afferrare al volo e in cui, misteriosamente, il tempo raggiunge il culmine, una pienezza unica.

Dire e pensare il tempo non equivale, però, a misurarlo, attività che richiede innanzitutto uno sguardo attento ai fenomeni naturali. In Grecia, come in molte società antiche, il sistema più semplice di misurazione del tempo è alle origini l’alternarsi del giorno e della notte. Omero conta secondo le “aurore” e, in assenza di illuminazione artificiale, il “giorno” considerato è quello illuminato dalla luce solare che consente di svolgere il lavoro; la notte, tempo dell’oscurità, è un tempo vuoto (E. J. Bickerman, La cronologia nel mondo antico, tr. it. 1963). Se in un primo momento bastano la luce e il buio a scandire il lavoro dell’uomo, in seguito, per influenza di Egiziani e Babilonesi, i Greci si pongono il problema della misura del tempo. Così, se prima si determina l’ora del giorno dalla lunghezza delle ombre, in età ellenistica si diffonde la divisione del giorno in 12 parti; nel IV secolo d.C. la parola hóra, che prima indica genericamente il “tempo”, viene usata nel nostro senso moderno di “ora” intesa come parte del giorno. La divisione di un giorno in 24 ore uguali, ciascuna di 60 minuti, derivata dall’astronomia egiziana, babilonese ed ellenistica, si diffonde solo nel Medioevo.

L’alternanza di luce e buio appartiene al tempo naturale, allo stesso modo dell’avvicendarsi delle fasi lunari o della stagione calda e fredda. Questo tempo naturale è quello “ciclico” che sta alla base della società agricola di epoca arcaica, fondata sull’osservazione dei mutamenti della natura e delle attività di semina e raccolta; è quello circolare del rito e della festa, concepito come “sacro”, rappresentato nel mito agricolo del perenne ritorno di Persefone, figlia della dea Demetra, dal mondo dei morti al mondo degli dèi. Il tempo ciclico è quello del calendario e dell’orologio. L’elaborazione del calendario scaturisce da vari fattori: dipendenza dalla natura, ruolo del potere dominante, forza del sistema economico-culturale, debolezza dell’attrezzatura scientifica.

Nella Grecia antica è in vigore l’anno lunare, sul modello babilonese, costituito da 354 giorni e corrispondenti a 12 lunazioni; l’inizio del mese coincide col novilunio. Per la fissazione di un giorno preciso del mese si tiene conto di tre decadi in cui viene suddiviso il mese (iniziale, mediana, finale); il primo giorno è detto ad Atene numènia (luna nuova) e l’ultimo éne kaì néa (vecchio e nuovo); gli altri giorni sono stabiliti in rapporto alle tre decadi. Tuttavia, anche se il ciclo della luna è più facile da osservare, col tempo presenta difficoltà perché meno regolare rispetto al moto (apparente) del Sole. Così, per ristabilire la corrispondenza tra mese lunare e anno solare ed evitare lo sfasamento del calendario rispetto alle stagioni, si ricorre a un ciclo più regolare, di otto anni, detto octaeteride (5 anni con 12 mesi lunari e 3 anni di 13 mesi lunari) e, a partire dal solstizio del 27 giugno del 432 a.C., al sistema di intercalazione di 7 mesi lunari ogni 19 anni solari (ciclo di Metone).

L’anno civile e religioso comincia al solstizio d’estate (Atene e Delfi) o d’inverno (Beozia e Delo), oppure agli equinozi. Il calendario ateniese inizia con il mese di Ecatombeone (luglio), con l’entrata in carica dei magistrati; in questo mese si celebra la grande festa delle Panatenee in onore di Atena. Seguono i mesi di Metagitnione, Boedrimione, Pianepsione (ottobre), il mese più ricco di rituali, quali le Tesmoforie in onore di Demetra e gli Apaturia, feste civiche delle fratrie. Si prosegue con Memacterione, Poseidione, Gamelione (gennaio), mese dei matrimoni (gamoi) e della festa delle Lenèe dedicata a Dioniso e al teatro. E ancora Antesterione, Elafebolione, mese delle importanti Grandi Dionisie, anch’esse dedicate alle rappresentazioni teatrali, poi Munichione, Targelione e infine, ultimo mese, quello di Sciroforione.

Decisamente più tardi arriva in Grecia la misurazione delle ore, prima abbastanza approssimativa e generica. Intorno al V secolo a.C. l’astronomo Metone introduce ad Atene il quadrante solare. Si tratta di una calotta di pietra detta polos al cui centro si erge la punta metallica di un’asta o stilo chiamata gnomone. Al sorgere del Sole, l’ombra dello stilo si proietta nella pietra concava, permettendo di dividere il giorno in dodici parti o “ore” che scandiscono il percorso del Sole: da qui il nome horológion, cioè “conta-ore”. Ad Alessandria è invece in uso la clessidra ad acqua che ha poi grande diffusione in tutto il Mediterraneo. Si tratta di due vasi comunicanti per mezzo di un ugello; l’acqua cade nel vaso sottostante con un ritmo identico. Le clessidre ad acqua – come i quadranti – non tengono però conto delle diverse latitudini e del diverso cammino solare, pertanto risultano strumenti imprecisi se spostati in un luogo diverso e lontano da quello in cui sono stati messi a punto.

Accanto a questa idea ciclica del tempo coesiste quella “lineare” della successione degli eventi in un lasso di tempo più ampio, indispensabile per la determinazione del cosiddetto “tempo civile”. Se il tempo ciclico, infatti, governa bene la quotidianità nell’arco del mese o dell’anno, lo stesso non vale per i periodi più lunghi. Come distinguere, infatti, un evento accaduto lo stesso giorno dello stesso mese ma in anni diversi? “La differenza più evidente fra la cronologia classica più antica e la nostra consiste nella mancanza di un punto di riferimento fisso” (Santo Mazzarino, “L’intuizione del tempo, in Il pensiero storico classico, 1990, vol. III); come noi usiamo “prima” e “dopo” Cristo per le età più remote, gli antichi usano un sistema diastematico, basato cioè sulla distanza (diástema) rispetto a un evento importante collocato alle origini, come la guerra di Troia o la fondazione di una città.

Questa funzione è assolta dal “ciclo delle Olimpiadi”: nel 260 a.C. viene fissata in Grecia l’origine della datazione storica al 776 a.C., data in cui cominciano ad essere conservati i registri con i nomi dei vincitori dei giochi olimpici; l’età olimpica è calcolata per quadrienni (ogni anno ha il suo numero all’interno di un ciclo di quattro anni).

Altre soluzioni analoghe, più imprecise, sono quelle di dare a ciascun anno il nome degli arconti in carica (Atene), degli efori (Sparta) o dei consoli (Roma): sono i detentori del potere a farsi eponimi dell’anno, prova dell’interesse e del controllo del tempo da parte di chi governa la città e, insieme ad essa, i suoi archivi.

A tavola con i Greci

In Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, II, 27), si legge: “[Socrate] era solito dire che nel modo più dolce mangiava quando non sentiva il bisogno di companatico e nel modo più dolce beveva quando non era in attesa di altra bevanda: bisognoso di pochissime cose, era vicinissimo agli dei” (a cura di M. Gigante, 1976). Il cibo assume la valenza di parametro per la scansione del tempo e delle fasi della giornata (colazione, pranzo, cena), i momenti quotidiani da quelli solenni della festa, così come le fasi di passaggio importanti della vita (nascita, compleanni, matrimoni, morte). In Grecia, come poi a Roma, determinate feste del calendario sono legate al cibo: ad Atene si celebrano in primavera le Antesterie, la festa dei fiori, in cui si sturano le botti con il vino nuovo e si prepara una zuppa di verdure per i defunti; o ancora le Pianepsie, a novembre, in onore di Apollo, con l’offerta di focacce di fave.

L’alimentazione di un popolo non è solo risposta a un bisogno fisiologico, ma è pervasa da valori culturali e significati simbolici complessi; la cucina, infatti, è cultura e dunque mediazione tra l’uomo e il mondo. Già nella società arcaica greca le abitudini alimentari marcano differenze etniche e segnano l’identità: mangiare carne cruda, ad esempio, si identifica con la bestialità, il selvaggio e la barbarie. I Greci si ritengono “uomini” perché mangiano carne cotta e si cibano dei cereali, dell’olivo e dell’olio, della vite e del vino, doni degli dèi Demetra, Atena e Dioniso (P. Scarpi, Il senso del cibo, 2008).

L’alimentazione della società delle origini è semplice e frugale: pane d’orzo, verdure e formaggi. Alimento base è la máza, farina d’orzo impastata in gallette, ma si sforna anche il pane bianco di frumento (ártos) in forme rotonde. La máza è così essenziale nella dieta che i Greci identificano se stessi come “mangiatori di pane” (Esiodo, Opere e giorni, 82), facendo coincidere l’idea di civiltà con il consumo di cereali, oltre che di miele, vino e olio d’oliva. Ci vorrà del tempo perché il consumo di carne entri nella dieta, sia pure in forma modesta. La carne è, infatti, costosa e i poveri la mangiano solo in occasione delle feste religiose. Rispetto al ricco abitante della campagna che poteva procurarsi facilmente maiale, capretti o selvaggina, la maggior parte degli abitanti di città o delle coste consuma più spesso pesce che carne.

Oltre a sardine e acciughe, sono graditi anche tonno, frutti di mare e molluschi, seppie e calamari. Particolarmente pregiate e richieste sulle tavole dei ricchi sono le orate e le anguille; si vendono anche carne e pesce conservati sotto sale o affumicati. Tra i preparati di carne di cui si ha notizia, pare sia particolarmente gradito agli spartiati il brodetto nero, una sorta di ragù aspro a base di carne di maiale, sangue, aceto e sale.

Esiste anche una forma di dessert (trágema) costituita da frutti secchi, fichi – molto diffusi in Grecia – noci o dolci fritti al miele. Alimenti di gran consumo sono poi formaggio, cipolla e aglio. Si mangia su piatti o scodelle di legno o terracotta aiutandosi con coltelli per la carne o cucchiai per le puree di fave o lenticchie; per il resto si usano le mani.

A tavola si beve acqua o latte, soprattutto di capra, in coppe di terracotta, di legno o metallo. La bevanda più gradita rimane però il vino. Considerato il dono migliore degli dèi, il vino è stato fin dal suo apparire un eccezionale marcatore culturale, tra uomini e bestie, tra Greci e barbari, tra uomini e dèi. Con il “vino di Ismaro”, con il prodotto della cultura, l’astuto Odisseo sconfigge il ciclope Polifemo, che perde i sensi, poiché non è avvezzo a bere il liquido inebriante. Per godere più a lungo e senza danni del vino, i Greci infatti non lo bevono mai puro, ma lo miscelano con l’acqua e lo addolciscono con il miele; talora lo aromatizzano con timo, menta o cannella o lo bevono dopo averlo fatto a lungo sobbollire, come vino cotto. Il vino destinato al consumo immediato si tiene in otri di pelle di capra mentre quello che va conservato o commercializzato si versa in grandi anfore di terracotta le cui pareti sono spalmate di pece. Sulle anse delle anfore è inscritta l’origine geografica del vino.

I pasti quotidiani sono tre. Poiché il lavoro e le riunioni politiche cominciano al levar del sole, il cittadino ateniese consuma molto presto un pasto leggero (acrátisma), che consiste in un piccolo pane d’orzo o di grano intinto in un po’ di vino puro; il pasto si può arricchire con olive o fichi. Intorno a mezzogiorno prende un pasto rapido (áriston), cui può talvolta seguire una merenda verso sera. Il pasto più importante, però, si consuma alla fine della giornata o anche sul far della notte ed è la cena o deîpnon.

In occasione della cena si allestisce talvolta un banchetto (sympósion) per celebrare feste cittadine o, in forma per lo più privata, per eventi familiari e per consolidare rapporti d’amicizia. Il simposio, da originario pasto sacrificale a momento centrale della socialità dell’élite aristocratica e guerriera, fino alla forma più comune di banchetto ospitale, è di solito offerto nelle case dei più abbienti o indetto dai componenti di un tiaso, che contribuiscono alle spese portando con sé cibi pronti.

Nell’uno e nell’altro caso, pasto ospitale o convito di un gruppo preciso, si tratta sempre di pasti fra uomini, perché le donne libere sono escluse tanto dalle riunioni politiche quanto da quelle sociali. Le uniche donne a comparire nella seconda parte del banchetto sono musicanti, danzatrici ed etere, le cortigiane.

Il banchetto greco si divide in due momenti: una prima parte coincide con il tramonto ed è destinata al pasto e al consumo di cibo (il deipnon); la seconda, più lunga, è chiamata propriamente simposio, cioè il momento del “bere insieme” tra una conversazione e l’altra o in mezzo a danze e giochi di vario tipo.

Prima di entrare a casa dell’ospite per un banchetto, il primo atto è quello di togliersi le scarpe. I servi lavano i piedi a ciascun convitato che può così entrare nella sala dei banchetti e adagiarsi sul letto senza il rischio di imbrattare il giaciglio. I convitati, talora coronati di foglie o fiori, mangiano coricati o con le gambe distese, a due a due su letti disposti intorno a piccoli tavoli. La seconda abluzione prima del pasto è quella delle mani in bacili portati dai servi, tanto più che il cibo si prende con le dita e non sono in uso i tovaglioli; ci si asciuga la bocca con pezzi di mollica di pane che vengono poi gettati in terra insieme agli avanzi. Il pasto comincia con una sorta di “aperitivo”, ovvero una coppa di vino aromatizzato che si fa passare tra i convitati. Al termine del pasto si tolgono le mense e si ripuliscono i pavimenti. Si versano poi le libagioni e si intona l’inno: comincia il simposio.

Prima di bere si nomina un simposiarca o re del banchetto che fissa il numero di coppe che un convitato può bere; a turno si brinda alla salute di tutti.

Musica e danze possono allietare i convitati che durante il simposio – divenuto poi un vero e proprio genere letterario – conversano o si abbandonano ai piaceri dell’amore e si destreggiano in giochi di abilità come il còttabo. La pratica del còttabo, forse di origine sicula, possiede più varianti. Il còttabo classico è quello in cui il giocatore deve colpire un bersaglio col vino rimasto nella coppa; talvolta il vino è lanciato contro piccole coppe galleggianti in un recipiente. Il vincitore del còttabo, che si distingue anche per l’eleganza del gesto – oggetto sempre di attenzioni in Grecia – riceve in premio dolci, frutti, ma anche sandali, collane o altro.

Diverso da quello ateniese appare invece nelle fonti il sissizio (pasto comune) spartano che, secondo la tradizione, è regolato da Licurgo. Il convito non è privato ma aperto ai cittadini che mangiano gli stessi cibi secondo un menù fisso che limita gli eccessi e che non contempla, per esempio, i dolci, considerati superflui. Il sissizio funziona come dispensa e mensa comune in cui ognuno apporta un contributo alimentare mensile. Scrive Plutarco che si invitano in gruppi di 15 persone e ciascun commensale porta un medimno di farina (= 51,84 litri), otto congi di vino (1 congio = 3,24 litri), cinque mine di formaggio, due mine e mezzo di fichi e una modesta somma di denaro (Plutarco, Vita di Licurgo, 12). Ai sissizi partecipano anche i ragazzi. Analoghi pasti comuni sono gli andreîa cretesi che vengono però finanziati a spese pubbliche.

Tra gli alimenti presenti a tavola, alcuni cibi sono occasionalmente soggetti a particolari interdizioni per le loro valenze simboliche e religiose. Secondo questa dietetica sacra, vero e proprio tabù alimentare sono ad esempio le fave per i pitagorici, perché ritenute un punto di passaggio tra l’Ade e il mondo dei vivi, collegate alla sfera della sessualità e associate agli spiriti dei morti (Plinio, Naturalis historia, 18,118).

“Cibo dei morti” è ritenuto anche il chicco di melagrana, fatto ingoiare a Proserpina da Hades, dio degli Inferi, per sedurre la bella figlia di Demetra e portarla nel suo mondo: da tale frutto si astengono gli iniziati ai misteri di Eleusi mentre se ne cibano le donne durante la festa delle Tesmoforie, dedicata a Demetra.

L’interdizione della carne è invece presente tanto nel vegetarianesimo pitagorico, che esclude la carne e tutto ciò che è dotato di “anima” (psyché), quanto nella dieta proposta verso la metà del V secolo a.C. dalla scuola ippocratica, che promuove un regime alimentare fondato sui cereali. Allo stesso modo il filosofo Platone, nella costruzione della sua città ideale, immagina per i suoi abitanti una dieta a base di vegetali e formaggi, alimentazione della società greca arcaica.

Cura del corpo e abbigliamento

Plutarco (L’educazione dei ragazzi, Moralia 2 7 D) dice: “Per la cura del corpo gli uomini hanno escogitato due scienze, la medicina e la ginnastica, che assicurano rispettivamente la salute e la vigoria” (a cura di G. Pisani e L. Citelli, 1990).

La cura del corpo ha grande importanza per l’uomo greco e non è solo una prerogativa nobiliare: ginnastica, massaggi e bagni sono attività frequenti e indispensabili per mantenere il corpo bello, secondo i canoni estetici dell’antichità, ma anche sano, al punto che l’esercizio fisico ha talvolta un precipuo scopo terapeutico. Socrate stesso, in età avanzata, pratica esercizi ginnici per ridurre il ventre che supera la “giusta misura” (Senofonte, Simposio, 2).

Già nei poemi omerici l’eccellenza di una prestazione fisica è segno della nobiltà della stirpe (Iliade, XXIII 257-297), ma è associata anche al divertimento e allo svago. L’importanza di atletica e ginnastica nella civiltà greca è attestata anche dal fatto che molte feste religiose includono gare atletiche, e in tale direzione si colloca l’istituzione dei giochi olimpici.

La ginnastica occupa un posto primario nell’attività efebica come addestramento premilitare almeno nel IV secolo a.C., per un’educazione fisica e morale completa che mira a preparare il giovane ad un’attiva partecipazione alla vita politica della città.

Il mondo ginnico-atletico ha avuto poi grande importanza anche nelle acquisizioni dell’arte greca, come nella canonizzazione della figura umana ideale fissata con Policleto nel IV secolo a.C. Simmetria e proporzione tra le parti sono da sempre alla base della riflessione classica sulla bellezza, frutto di un equilibrio, di una misura (métron) che funziona sia sul piano fisico che etico: su tale idea si fonda una nozione fondamentale del pensiero greco nota come kalokagathìa (ciò che è bello, kalós, è anche buono, agathós). Monumenti eretti alla cura del corpo, ginnasi e palestre, centri di scienza medica, igienica e terapeutica, contribuiscono non poco a diffondere in Grecia l’abitudine alla pulizia quotidiana. Spesso situati vicino a fonti o corsi d’acqua, tali impianti ginnici sono, infatti, dotati di vasche per le abluzioni in cui gli atleti si lavano prima di immergersi nella piscina. Dal V secolo a.C. si diffondono ad Atene i bagni pubblici, luoghi d’igiene personale e di ritrovo sociale. Si tratta di ambienti riscaldati, amministrati da un proprietario che sovrintende al lavoro di schiavi addetti a versare acqua e cospargere di olio i bagnanti; alle donne è riservata una sala a parte.

Accanto ai luoghi pubblici, nelle dimore aristocratiche si diffonde, in epoca classica, il bagno individuale in vasca di terracotta o di pietra, riempita e vuotata a mano, mentre per lavaggi parziali si usano bacili ovali di metallo o terracotta. Ci si lava solo con acqua e, talvolta, con detersivi composti di soda. In alternativa, sull’esempio degli atleti, prima di bagnarsi si usa anche cospargere il corpo con olio e spalmarlo di sabbia per poi portar via l’unto e lo sporco con lo strigile, una sorta di cucchiaio stretto e incavato che viene passato sul corpo.

Il bagno si fa solitamente prima del pasto serale, soprattutto in occasione di un invito a banchetto, quando si rende anche necessario recarsi dal barbiere. Se eroi e dèi omerici portano barba e capelli lunghi (Iliade, I 529), gli Ateniesi di età classica tengono per lo più i capelli corti ad eccezione dei ragazzi che, però, raggiunta l’età dell’efebia, li tagliano offrendoli agli dèi, e dei filosofi, noti per la lunga barba.

Più curata l’acconciatura delle donne: i capelli sono raccolti in cima con spille o trattenuti da bande di stoffa. A Sparta le fanciulle portano i capelli lunghi e sciolti; li rasano del tutto il giorno del loro matrimonio, secondo quanto scrive Plutarco (Vita di Licurgo, 15).

In occasione di un lutto o di un evento spiacevole, i capelli, segno di vitalità e bellezza, vengono tagliati o strappati. In Omero, Achille e i Mirmidoni tagliano i propri capelli sul corpo di Patroclo (Iliade, XXIII, 135); nelle cerimonie rituali per un lutto, le donne piangono il defunto con i capelli sciolti e con le mani in testa nell’atto di strapparli, un gesto simbolico di annullamento di sé e “automutilazione”. Talvolta, sempre per un lutto, piuttosto che rasarli, capelli e barba vengono fatti crescere in modo incolto e trascurato. Del tutto rasati sono invece gli schiavi, distinti così dai chiomati uomini liberi.

Per la depilazione si ricorre al rasoio, alla cera, alla candela o a impasti speciali ottenuti con pece mescolata a olio e resine. La bellezza femminile conosce già allora trucchi e ritrovati chimici per apparire ancor più seducente: le donne usano tingere i capelli (si ama la chioma bionda) o, in alternativa, si adornano di parrucche; per apparire più chiare, effetto molto apprezzato, si cospargono di bianca cerussa o con composti tossici come il carbonato di piombo. Le labbra si tingono con un rossetto di orcaneto, gli occhi con la fuliggine.

In base a un’idea di congruenza tra esterno e interno di una persona, che è una costante della cultura greca (si ricordi la kalokagathía), l’identità e l’appartenenza sociale sono valutati sulla cura del corpo, ma anche sul tipo di abito indossato che risulta distintivo di un rango, di uno stato festoso o luttuoso, o, più semplicemente, di un’attività svolta; a fare la differenza sono non tanto la foggia quanto la preziosità della stoffa, i colori e il modo in cui un abito viene indossato. Contrariamente alla società romana antica, dove una veste come la toga distingue i cittadini secondo il rango sociale o l’età, l’abbigliamento greco appare spesso improntato all’egualitarismo sociale: quasi impossibile distinguere dall’abito lo schiavo dall’uomo libero (G. Losfeld, Essai sur le costume grec, 1991), a meno che il primo non sia nudo o del tutto rasato.

La nudità totale in pubblico, infatti, vietata alle donne, è evitata anche dagli uomini tranne che in occasioni particolari, come cerimonie religiose, gare atletiche, combattimenti, o attività che riguardano palestre e terme; le donne sono escluse dal parteciparvi. Al di fuori di queste occasioni in cui è prescritta dalla legge, la nudità corrisponde non al cittadino ma solo a determinate categorie come animali, schiavi e barbari, ritenuti di condizione inferiore rispetto all’uomo.

L’abbigliamento greco maschile comprende quattro pezzi: l’éxomis, il chitone, l’himátion e la clamide. L’éxomis è l’indumento più semplice costituito da un rettangolo di stoffa piegato in due che, trattenuto da un nodo o una cintura, lascia scoperti spalla e braccio; è l’abito dei lavoratori. Il chitone è una tunica senza cuciture, sia lunga che corta, indossata principalmente dagli uomini con o senza cintura e attaccata su una sola spalla (chitone eteromàscalos) o su entrambe le spalle (amphimàscalos): i Greci non amano le maniche, elemento tipico del vestiario orientale. La cintura, di tessuto o di pelle, non ha solo funzione pratica ma anche ornamentale e nel tempo assume un significato simbolico sempre più ampio. Il chitone è per lo più di lino, la stoffa più diffusa, ma può essere tessuto anche in lana o, più raramente, in cotone, tessuto di “lusso” che entrerà in Grecia in epoca ellenistica.

Diverse anche le tinte possibili: oltre al bianco, preferito in occasioni di cerimonie religiose e offerte agli dèi, il chitone è color ocra (nota come la “porpora greca”), nero o rosso dalle svariate tonalità. L’himátion è un mantello drappeggiato, una sorta di “abito nazionale greco”, portato da entrambi i sessi e avvolto intorno al corpo; le tinte sono variegate. La cura con cui il mantello è avvolto e l’attenzione per il drappeggio sono di estrema importanza e forniscono indicazioni sulla persona e sul grado di istruzione di chi lo porta. Anche la lunghezza è importante: un mantello troppo corto è indecoroso; se troppo lungo è invece segno di effeminatezza. La clamide è un mantello originario della Tessaglia, indossato da viaggiatori e militari, meno ampio e più corto dell’himátion e agganciato con delle fibule. Anche per questo indumento le tinte sono varie, dal nero al verde o rosso. Altre varietà note di mantelli sono il tríbon e la chlaîna, mantello pesante molto comune, adatto a chi conduce vita all’aperto. La biancheria intima è invece sconosciuta ai Greci. Le donne indossano solo una sorta di reggiseno costituito da una fascia larga, decorata.

L’abbigliamento femminile è caratterizzato dal peplo o chitone dorico, rettangolo di lana piegato in due, fissato sulla spalla con fibule o con un bottone. Secondo un leggendario racconto di Erodoto (Storie, V 87), al chitone dorico in lana si affianca quello ionico di lino, utilizzato in seguito ad un evento tragico: dopo la disfatta di Egina, l’unico soldato sopravvissuto è accecato selvaggiamente dalle vedove furibonde con le fibule della loro tunica. Così la città impone loro il chitone di lino, o chitone ionico, che non necessita di spilloni. Al peplo si può aggiungere un velo che copre le spalle o il capo. Anche se ciascun abito greco è abbastanza ampio e versatile da poter essere sollevato per ricoprire il capo, esiste un indumento femminile che ha la funzione specifica di velare il capo e che può talvolta essere calato fino a coprire il volto: è la kalýptra, il velo vero e proprio. Simbolo della condizione femminile in Grecia, il velo che esclude e separa, connesso ai valori del pudore (aidós), è quasi un’estensione dello spazio domestico, spazio di “esclusione” in cui le donne conducono la vita, e che, all’esterno, garantisce loro protezione e discreta libertà d’interazione in una società decisamente maschile.

Vedi anche
La sessualità in Grecia
L’educazione in Grecia
Sport e giochi in Grecia