Socrate

di Carlotta Capuccino

Socrate è il primo – e forse l’unico – uomo ad avere dedicato l’intera vita alla filosofia, cioè a quell’amore della sapienza che può nascere soltanto dalla consapevolezza della propria ignoranza e da un intimo impulso alla ricerca della verità. La sua morte eroica ha reso imperitura una vita al servizio di quell’esame costante delle proprie e delle altrui credenze che è il sommo bene per un uomo; l’estrema coerenza fra pensiero e azione che ha portato Socrate a scegliere la sua morte lo ha consacrato uomo felice.

Un uomo di Atene

Socrate di Sofronisco, ateniese del demo di Alopece, appartiene alla tradizione dei filosofi antichi che non hanno scritto nulla, a partire da Pitagora fino a Epitteto, Ammonio Sacca e Plotino, che non scrive prima dei cinquant’anni. Esistono due specie di agrafia filosofica: l’agrafia esoterica o dogmatica di chi non vuole divulgare il proprio pensiero, come Pitagora, e l’agrafia dialettica di chi ritiene la scrittura inadeguata a sostituire il dialogo orale. Questa seconda specie di agrafia ha origine con Socrate ed è condivisa da filosofi scettici come Pirrone, Arcesilao di Pìtane e Carneade.

L’autore neoplatonico dei Prolegomeni alla filosofia di Platone afferma che Socrate e Pitagora non hanno lasciato scritti dietro di sé, ma “allievi che sono come degli scritti viventi” (13.12-14). Socrate non si considerava un maestro, ma ha avuto degli “allievi” che hanno scritto molto, e molto di lui. Malgrado la scelta di non scrivere, o forse proprio in virtù di questa, Socrate è infatti l’ispiratore del dialogo filosofico come genere letterario innovativo rispetto alla tradizione: i “discorsi socratici” o logoi sokratikoi, diversi dai trattati sulla natura dei presocratici e dalle orazioni epidittiche dei sofisti. Questo è il primo, e il più noto, dei paradossi che circondano la sua figura, come ricorda la minuta di un trattatello medievale sulla chiromanzia conservato alla Bodleian Library di Oxford. Forse per una ironica trasposizione dei nomi, l’immagine ritrae Socrate nell’atto di scrivere sotto dettatura di Platone!

Nell’Apologia di Platone Socrate afferma di avere settant’anni quando è chiamato in giudizio nel 399 a.C.; questo ci permette di collocare la sua nascita fra il 470 e il 469 a.C., durante la LXXVII Olimpiade, ad Atene. Il padre, Sofronisco, è uno scultore del demo di Alopece, un quartiere periferico a sud-est della città riservato alla produzione artigianale. La notizia che Socrate stesso sia stato scultore per un periodo della sua vita è dubbia e di certo è leggendario che sia l’autore delle Càriti vestite che si vedevano all’uscita di Atene verso l’Acropoli. La madre, Fenarete, svolge solo a un certo punto il mestiere di levatrice forse per incrementare i guadagni familiari, che inizialmente, grazie al lavoro del padre, non dovevano essere così esigui: Socrate riceve infatti l’educazione tradizionale della mente e del corpo, imparando a leggere, scrivere e far di conto, ed esercitandosi nella ginnastica. Prima di diventare levatrice e in seguito alla morte di Sofronisco, Fenarete sposa Cheredemo e dà alla luce Patrocle, fratellastro di Socrate. Nel clima di apertura culturale dell’Atene di Pericle, il giovane Socrate si avvicina alla filosofia della natura leggendo gli scritti di Anassagora di Clazòmene e frequentando il suo scolaro ateniese, Archelao. Risalgono a questo periodo anche i suoi incontri con i sofisti Protagora di Abdera, Prodico di Ceo e Ippia di Èlide e con il retore Gorgia di Lentini, come sappiamo dal Protagora e dal Gorgia di Platone. Incerto è invece l’incontro con gli eleati Parmenide e Zenone, che secondo il Parmenide platonico sarebbe avvenuto in occasione delle Grandi Panatenee del 450 a.C., quando Parmenide aveva circa sessantacinque anni e Socrate meno di venti. Questi dati non concordano, tuttavia, con la testimonianza del dossografo Diogene Laerzio (III sec. d.C.), che attribuisce a Parmenide, all’epoca del presunto – e in tal caso inverosimile – incontro con Socrate, la veneranda età di novant’anni.

In seguito Socrate abbandona le filosofie della natura perché escludono dalla loro indagine il fine, cioè la ricerca del bene, che è per l’uomo la cosa più importante. Nel Fedone platonico dichiarerà: “Mi parve bene che dovessi rifugiarmi nei ragionamenti (logoi) e indagare in essi la verità delle cose” (99e). La sua abitudine, per compiere questa indagine, di interrogare chiunque in Atene abbia fama di sapiente lo porta a diventare, sulla fine degli anni Venti, un personaggio pubblico e un komodoúmenos, una “persona schernita nelle commedie”. Nel 423 ben due delle tre commedie vincitrici alle Grandi Dionisie hanno Socrate come protagonista: al secondo posto (dopo la Fiasca di Cratino) il Conno di Amipsia, che mette in scena Socrate e il suo maestro di musica, Damone, e al terzo le Nuvole di Aristofane. Claudio Eliano racconta nella Varia storia che, durante la rappresentazione delle Nuvole, Socrate, presente all’evento, si sarebbe alzato tra il pubblico rimanendo in piedi, ben visibile a tutti, per l’intera durata dello spettacolo.

La partecipazione di Socrate alla vita politica di Atene non oltrepassa l’adempimento dei doveri, militari e civili, di buon cittadino. Solo questi doveri lo allontanano dalla città, dove trascorre l’intera vita. Durante la guerra del Peloponneso, si distingue come oplita in tre campagne militari. Nel 432 a.C., alle soglie della guerra, salva la vita e le armi di Alcibiade, ferito durante la battaglia di Potidea (432 a.C.), nella penisola Calcidica; e rinuncia, di ritorno ad Atene, alle onorificenze meritate in favore dell’amico. In questa circostanza, ormai quasi quarantenne, dà prova di una resistenza fisica non comune alla fame e al freddo, camminando scalzo sul ghiaccio ed esponendosi al gelo con “il medesimo mantello che usava portare anche prima”(Platone, Simposio, 220b). Nel 424 a.C. partecipa allo scontro a Delio con i Tebani, dal quale si ritira in compagnia del generale Lachete dopo la sconfitta, con una padronanza di sé che gli vale il rispetto degli avversari e lo sguardo ammirato di Alcibiade; combatte, infine, un’ultima volta ad Anfipoli nel 422 a.C.

Dopo avere dimostrato sul campo il suo valore, anche nelle vicende interne alla polis Socrate dà prova di grande coraggio. Nel 406 a.C., estratto a sorte, assolve il compito di prìtano nel consiglio dei Cinquecento. L’assemblea popolare è chiamata a giudicare gli strateghi vincitori della battaglia navale delle isole Arginuse (406 a.C.) per avere abbandonato i naufraghi dopo la vittoria. Socrate si oppone, invano, alla decisione illegale della maggioranza di condannarli a morte collettivamente con un processo sommario, difendendo la sovranità delle leggi di Atene sul popolo, a rischio della vita. Il politico Callìsseno, per ottenere voti, aveva infatti minacciato i prìtani che avessero contrastato la condanna degli strateghi di condividerne le sorti. Due anni dopo, nel 404 a.C., l’ultima flotta va a picco a Egospòtami presso lo stretto dei Dardanelli e Atene perde la battaglia finale della lunghissima guerra. Il potere politico passa nelle mani dei Trenta oligarchi (404-403 a.C.), detti in seguito “tiranni”. Quello stesso anno, Socrate rischia di nuovo la vita rifiutandosi di eseguire l’ordine di Crizia, capo dei Trenta, di arrestare con altri quattro cittadini il democratico Leonte di Salamina, condannandolo a morte certa; a salvare Socrate è la caduta della tirannide e il ritorno della democrazia.

Della famiglia abbiamo poche notizie certe, legate agli eventi dei suoi ultimi anni di vita. Sembra che Socrate abbia sposato Santippe in tarda età, dal momento che i figli, Lamprocle, Sofronisco e Menèsseno, sono ancora piuttosto giovani quando muore. Dal racconto del Fedone sappiamo che Santippe e Menèsseno, il figlio minore, sono presenti in carcere l’ultimo giorno, ma Socrate li fa allontanare prima di discutere con gli amici, come d’abitudine, in attesa che venga eseguita la sentenza; l’intera famiglia tornerà per salutarlo poco prima della fine. Rimane assai dubbio che abbia avuto una seconda moglie, Mirto, e se l’abbia avuta prima o durante il matrimonio con Santippe.

Malgrado la restaurata democrazia, nella primavera del 399 a.C. Socrate è citato in giudizio dal giovane Meleto, figlio di un poeta della città, dietro il quale agiscono probabilmente il ricco mercante Ànito e l’oratore Licone. Insieme esprimono l’insofferenza accumulata dagli esponenti della cultura democratica, poeti, retori e uomini d’affari, per il modo in cui Socrate è solito discutere con loro smascherandone presunzione e ignoranza. Il testo depositato nel Metròo, l’archivio di Stato ateniese, riporta i tre capi d’accusa così formulati: “Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece, presentò questa accusa e la giurò: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce e di introdurre altre nuove divinità; è colpevole anche di corrompere i giovani. Pena richiesta: la morte” (Diogene Laerzio, II 40).

L’esito del processo è noto: dopo essersi difeso a suo modo, Socrate viene dichiarato colpevole con una maggioranza di 280 voti contro 220 (o 221); e, dopo aver proposto come pena alternativa di essere mantenuto a pubbliche spese per i servizi resi allo stato, è condannato a morte con una differenza di altri 80 voti. Per un mese, nel carcere di Atene, attende il rientro in porto della nave sacra da Delo, prima del quale non era permesso eseguire una condanna capitale. Un mese importante per la filosofia, perché offre a Euclide di Mègara l’occasione di ascoltare da Socrate i racconti che daranno luogo al Teeteto di Platone, oltre a rendere il carcere teatro delle conversazioni del Critone e del Fedone. Un giorno dopo il rientro della nave, congedandosi dagli amici presenti, Socrate beve il veleno (phármakon) e muore ad Atene nel 399 a.C. per volere e per mano degli Ateniesi. Parafrasando Aristotele, viene commesso così il primo crimine contro la filosofia.

Socrate in questione

Lo psicologo Francis Galton (1822-1911) sovrapponeva su un’unica lastra alcune fotografie di facce diverse per ottenere il quadro delle caratteristiche comuni a tutte: per esempio la tipica faccia cinese. Socrate non può essere paragonato a una “fotografia collettiva” à la Galton, perché il residuo comune alle testimonianze su di lui si ferma alla superficie, quando non è assente del tutto. Seguendo questo metodo dovremmo limitarci a dire l’ovvio, cioè che Socrate ha suscitato l’interesse delle menti eterogenee dei suoi concittadini, con i quali amava dialogare – ma sul modo di dialogare che gli era proprio non c’è accordo –, e a descriverne l’aspetto fisico. I tre testimoni diretti, Aristofane, Platone e Senofonte, concordano nel presentare Socrate come un uomo non di bell’aspetto: con il ventre gonfio (ma pallido e smagrito per Aristofane), il naso camuso, occhi e labbra sporgenti; sempre scalzo e vestito dello stesso mantello logoro. Se questo, tuttavia, è per Aristofane ragione di scherno, il Socrate di Senofonte osserva come i suoi occhi bovini siano “più belli” perché “vedono anche sui lati”; e Alcibiade, nel Simposio platonico, lo paragona ai satiri ammaliatori e ai sileni costruiti dagli artigiani, quelli che, “una volta aperti in due, si scopre che hanno dentro la statua di un dio”.

Il ritratto del Simposio rispecchia la tradizione iconografica più antica, che sottolinea i tratti da sileno di Socrate, riservando la bellezza alla sua anima; il ritratto dello scultore Lisippo di Sicione, voluto da Licurgo in omaggio retrospettivo a Socrate, è invece all’origine dell’opposta tradizione che ne enfatizza i tratti ideali. Silenico anche il Socrate del film di Roberto Rossellini del 1970, che ripropone la mitologia di Santippe “donna difficile”, come la descrive Senofonte. Il carattere iracondo e vivace che numerose testimonianze attribuiscono a Socrate è invece rappresentato da Philippe Léotard nel Banchetto di Platone (1989) di Marco Ferreri, i cui dialoghi sono firmati da una specialista come Monique Canto. L’aspetto di Socrate è il primo elemento caratteristico della sua “stranezza” (atopía), anomalo per un intellettuale, agli occhi dei Greci, perché rompe l’ideale di bellezza e bontà come qualità inscindibili (kalokagathía); tanto che Aristòsseno testimonia la pratica fisiognomica di giustificare la sua capacità persuasiva con la voce e i tratti del volto. Cicerone riporta l’aneddoto secondo il quale Zòpiro, un fisiognomico, definì Socrate libidinoso sulla base del suo aspetto fisico, suscitando il riso di Alcibiade!

Aristofane è il testimone più antico: le Nuvole sono l’unico documento di cui disponiamo antecedente alla morte di Socrate. Nella sua parodia, Socrate è il concentrato dei nuovi saperi della cultura periclea, contro i quali il comico reagisce in difesa della tradizione. Appeso in un cesto a mezz’aria sotto le nuvole, è il sofista senza scrupoli che produce pensieri dietro pagamento.

Insegna a far prevalere il discorso più debole, o ingiusto, sul discorso più forte, o giusto, al riparo del suo “pensatoio” (phrontistérion); e insieme è il naturalista empio che crede nelle divinità del Caos, delle Nuvole e della Lingua, ma non crede in Zeus, prefigurando le accuse che gli saranno mosse vent’anni dopo.

La visione di Aristofane è sincronica: gli interessi giovanili di Socrate per la filosofia della natura si fondono con l’interesse nuovo per il logos e con la sua abitudine di interrogare gli Ateniesi mettendo a nudo le loro credenze. In un’altra delle sue commedie, gli Uccelli, Aristofane conia perfino un verbo (esokráton, v. 1282) per indicare l’atteggiamento di chi “socratizza”, di chi cioè, come Socrate, porta i capelli lunghi e dà scarsa importanza al cibo e alla pulizia del corpo. Il gesto di Socrate di alzarsi in piedi durante la rappresentazione delle Nuvole è stato forse compiuto perché il pubblico confrontasse l’uomo che aveva conosciuto con l’immagine deformata e arricchita che si trovava ora di fronte.

Senofonte dedica a Socrate quattro delle sue opere: il Simposio e l’Apologia di Socrate, omonimi di due opere platoniche, l’Economico e i Memorabili. Recentemente la sua testimonianza è stata rivalutata, riprendendo una posizione propria dell’età moderna. Senofonte è uno storico, dunque gli dobbiamo la ricostruzione dettagliata delle vicende politiche di cui Socrate è stato protagonista; e ne prende le difese nei Memorabili, come socratico. Tuttavia, la sua frequentazione di Socrate si interrompe prima degli eventi che lo porteranno al processo e alla morte, per i quali dipende dunque dalla testimonianza platonica e da altre fonti indirette. In particolare, non si evince dagli scritti socratici di Senofonte la causa della condanna a morte: se Socrate fosse stato l’uomo che descrive, verrebbero meno le ragioni per cui gli Ateniesi lo hanno condannato. Mancano, infatti, in Senofonte i motivi dell’atopía umana e filosofica di Socrate. Il suo modo di dialogare è endossale, cioè si basa su concezioni comuni (éndoxa) per arrivare a conclusioni altrettanto comuni; e questo ne fa l’oratore più persuasivo, come Odisseo.

Inoltre, la formulazione di Senofonte dell’oracolo di Delfi rende Socrate un modello di virtù da seguire: nessuno è più liberale, né più giusto, né più saggio di lui; di conseguenza non ne riconosce la professione di ignoranza e l’ironia che le fa da corollario, escludendo il nucleo della testimonianza platonica. In conclusione, se uno dei meriti di Platone è di avere cercato le cause della condanna a morte di Socrate, per Senofonte semplicemente non si sarebbe difeso perché, ormai vecchio, non intendeva continuare a vivere sopportando i tormenti dell’età.

Frammentario il Socrate dei cosiddetti socratici minori, che testimoniano la vivacità dell’incontro fra Socrate e l’Atene dei secoli V e IV a.C.: da un lato Eschine di Sfetto, dall’altro Antìstene di Atene, Aristippo di Cirene ed Euclide di Mègara – cui si attribuisce rispettivamente la fondazione delle scuole dei cinici, dei cirenaici e dei megarici – e infine Fedone di Èlide, che avrebbe anch’egli fondato una scuola filosofica nella sua città natale. Quanto rimane dei loro scritti è raccolto da Gabriele Giannantoni nei quattro volumi dell’opera Socratis et Socraticorum Reliquiae (1983-1985). Aristotele invece è il primo testimone indiretto, ma dalla prospettiva privilegiata di chi ha frequentato Platone per vent’anni, e dunque fonte attendibile. La sua testimonianza è preziosa perché fissa i contributi specifici di Socrate alla filosofia indipendentemente dalle vicende che hanno segnato la sua vita, distinguendoli al contempo dai contributi platonici: l’identità di sapere e virtù; l’induzione; l’importanza assegnata all’universale come oggetto della definizione. Nella Metafisica Aristotele osserva come Socrate abbia tralasciato lo studio della natura per le questioni etiche (ta ethiká) e insieme abbia fornito le basi alla teoria platonica delle idee, distinguendo l’universale dai particolari concreti che lo esemplificano, senza tuttavia separarli come farà Platone (I 6, XIII 4 e 9). La ricerca socratica parte dalla domanda tí esti (“che cos’è”): Socrate si chiede, per esempio, che cos’è il coraggio e cerca una risposta che lo definisca in modo universale, cioè come un’unica cosa, e non fornendo un elenco di singole azioni coraggiose. Su questa base Platone arriverà a separare il coraggio in sé e per sé (o idea di coraggio) dalle azioni coraggiose del mondo empirico in cui viviamo, facendone l’oggetto di una realtà superiore o intelligibile.

Platone fa di Socrate l’eroe della sua filosofia scritta, presente in tutti i dialoghi tranne le Leggi e protagonista della maggior parte. La testimonianza platonica è naturalmente in accordo con quella di Aristotele, ma in profondo disaccordo con il Socrate di Aristofane e di Senofonte. Le ragioni principali che hanno portato gran parte della critica a preferirla come la più fedele sono due: in primo luogo, Platone ha trascorso con l’ultimo Socrate un periodo di tempo maggiore rispetto a Senofonte, e soprattutto lo ha fatto da filosofo, vale a dire con quel sentire comune che ha potuto creare tra i due un legame elettivo. In secondo luogo, ha saputo riprodurre nelle scene fittizie dei suoi dialoghi la pluralità delle prospettive che gli Ateniesi avevano su Socrate, dimostrandone una piena consapevolezza.

La vita esaminata

Intorno al 430 a.C., un evento fa precipitare la crisi intellettuale che aveva colpito Socrate allontanandolo dalla filosofia della natura. L’oracolo delfico, interrogato dall’amico Cherefonte, risponde che nessuno è più sapiente di Socrate, suscitando in quest’ultimo grande perplessità su come intendere tali parole. Socrate è infatti consapevole di non essere sapiente, ma sa anche che gli dèi non possono mentire e dunque l’oracolo è veridico. Per dare un senso al responso enigmatico della Pizia, compie allora una lunga indagine, interrogando chiunque in Atene abbia fama di sapiente, uomini politici, poeti e artigiani, in cerca di qualcuno che si dimostri più sapiente di lui. La ricerca gli costa numerose inimicizie, ma lo porta infine alla soluzione dell’enigma: il significato dell’oracolo è in realtà che nessun uomo è sapiente. Il dio si è servito di Socrate come di un esempio per dire che l’uomo più sapiente è quello che, come lui, è consapevole di non esserlo, cioè di non essere esperto di alcun sapere che riguardi “le cose più importanti” (ta mégista). Quella di Socrate è dunque una “dotta ignoranza”, l’ignoranza di chi non è sapiente ma non crede nemmeno di esserlo; e una “sapienza umana”, cioè il riconoscimento che il proprio sapere (umano) non vale nulla rispetto alla vera sapienza (divina). Ciò non significa, naturalmente, che Socrate non sappia nulla: come tutti ha un sapere delle cose comuni, sa per esempio che il giovane Teeteto è figlio di Eufronio di Sunio; oltre a una serie di certezze morali, in particolare che commettere ingiustizia è sempre un male. Anche se in seguito, in età ellenistica e romana, l’atteggiamento socratico sarà compendiato nella formula paradossale, poi divenuta luogo comune, “sapere di non sapere”, formula che non ricorre mai nelle fonti antiche.

Sciolto l’enigma dell’oracolo, Socrate dedica il resto della vita, in totale povertà, a quello che lui stesso chiama “il servizio al dio”, cioè la missione di educare gli Ateniesi alla conoscenza di sé e alla cura dell’anima attraverso l’esame delle proprie credenze. Questa dedizione esclusiva che trasforma la sua vita in un bíos filosofico fa di Socrate il “padre della filosofia”, come lo ha definito Cicerone, e della filosofia un modo di vivere. Ne fa qualcuno, cioè, che vive da filosofo e per la filosofia a tempo pieno, escludendone per esempio l’impegno politico; tanto che nel Simposio l’amico Apollodoro crede che filosofare significhi sapere ogni giorno ciò che Socrate dice e fa. Le parole rivolte agli “uomini di Atene” (ándres Athenaîoi) durante il processo e conservate nell’Apologia di Platone rappresentano il suo testamento spirituale: “[...] questo è addirittura il massimo bene per un uomo, parlare giorno dopo giorno della virtù e delle altre cose di cui voi mi sentite discutere, esaminando me stesso e gli altri, mentre una vita non soggetta a esame non è una vita per un uomo” (38a). Nella storia della filosofia occidentale forse soltanto Ludwig Wittgenstein (1889-1951) ha eguagliato, come poteva farlo un uomo moderno, la dedizione di Socrate per la filosofia pura, quel qualcosa di “semplice e intimo” che era parte della sua natura e a cui dobbiamo l’eredità di un filosofo complesso come Platone e di tutte le filosofie di ispirazione socratica (Friedrich Schleiermacher, Sul valore di Socrate come filosofo, 27 luglio 1815).

La consapevolezza della propria ignoranza è una condizione necessaria della filosofia come “amore della sapienza”, perché ogni forma di desiderio implica la mancanza dell’oggetto desiderato. Le sole cose di cui Socrate si dirà esperto, per averle apprese da Diotima, donna di Mantinea dalle capacità profetiche, sono infatti “le cose d’amore” (ta erotiká).

Proprio nel Simposio, il dialogo che Platone dedica al tema dell’amore, emerge per voce di Alcibiade tutta l’atopía, la stranezza e l’unicità di Socrate, che non assomiglia a nessun uomo del passato o del presente ma solo ai satiri e ai sileni: átopos significa alla lettera “privo di un luogo”, dunque non classificabile. La prospettiva di Alcibiade è chiara e rispecchia fin troppo bene quel fraintendimento dell’opinione pubblica a cui Socrate è andato tristemente incontro: brutto fuori ma con un tesoro celato al suo interno, è infatti accusato, dai sofisti come anche da Alcibiade e forse dai suoi giudici, di “ironia” (eironeía). L’ironia socratica è dunque in origine un biasimo che gli altri rivolgono a Socrate, ovvero l’accusa di dissimulare ciò che è in realtà – un uomo sapiente – agli occhi di chi lo frequenta, mostrandosi, al contrario e in modo ingannevole, ignorante; oltre al fatto che l’aspetto silenico lo fa sembrare intemperante, mentre il comportamento ne rivela tutta la temperanza (sophrosyne). È quindi qualcosa di ben diverso da quella che in seguito sarà la figura retorica dell’antìfrasi, ovvero dire qualcosa volendo significare il contrario.

Alla sua eccezionale resistenza fisica di fronte ai dolori (kartería), per esempio al freddo e alla fatica, come quando a Potidea rimane fermo in piedi a pensare dall’alba all’alba del giorno dopo, senza mangiare né dormire, corrisponde un’altrettanto rara forza morale riguardo ai piaceri del corpo (enkráteia) come la bellezza del giovane Alcibiade, alla quale resiste lasciandolo frustrato e deluso. E d’altra parte la stessa coscienza di non essere sapiente è una forma di moderazione intellettuale che corrisponde al dominio delle passioni in ambito morale. Questa accusa di dissimulazione deriva da un fraintendimento della vera natura di Socrate, che si interessa ai giovani per educarli a prendersi cura della propria anima e non per scambiare la sua presunta sapienza con la loro bellezza fisica, come crede Alcibiade e come vorrebbe il tradizionale rapporto tra l’amante maturo e il giovane amato. Un ultimo tratto caratteristico dell’atopía di Socrate è la capacità di ammaliare come il satiro Marsia chi lo ascolta, ma “con le semplici parole”, senza l’ausilio della musica; e l’effetto persuasivo dei suoi logoi sopravvive anche alla sua presenza, ripetendosi invariato chiunque sia a pronunciarli e ad ascoltarli.

In difesa del sommo bene umano di una vita esaminata, Socrate andrà incontro alla morte. Il “fastidio” che la sua missione filosofica suscita negli interlocutori è implicito nell’immagine che sceglie per descrivere se stesso di fronte ai giudici: come un tafano che sprona un grande e pigro cavallo di razza, così il dio ha messo Socrate al fianco della città. Le tre imputazioni ufficiali nascondono la lunga maturazione, almeno ventennale, dell’insofferenza che gli Ateniesi hanno mostrato verso la sua atopía. La prima accusa di empietà, cioè di non credere negli dèi della polis (ateismo), nasconde la mancata comprensione della natura divina della missione di Socrate, nata da un oracolo di Apollo, che Socrate chiama eufemisticamente “il dio”; ma soprattutto della rivoluzione da lui compiuta nella teologia dell’Occidente. Come ha riconosciuto Gregory Vlastos (1991), Socrate per la prima volta afferma il principio per cui l’attributo essenziale della divinità è quello di essere buona, contrariamente al comune sentire greco, principio che sarà al centro della riforma educativa della Repubblica di Platone. Socrate dunque crede negli dèi della città e della Grecia, ma non nello stesso modo degli altri Greci. La seconda accusa di empietà, cioè di introdurre nuovi dèi nella polis (eterodossia), affonda le sue radici nelle “accuse antiche” formulate da Aristofane nelle Nuvole; e nasce dall’ammissione dello stesso Socrate di lasciarsi guidare talvolta da “qualcosa di divino e di demonico” (theîón ti kai daimónion), una voce o un segno che interviene da quando era ragazzo al solo scopo di trattenerlo dal fare qualcosa di ingiusto, per esempio dal fare politica o dal frequentare qualcuno. Non un nuovo dio o un demone, dunque, ma un segno divino o demonico, che Platone a differenza di Senofonte descrive solo come impediente e nel quale i moderni hanno voluto ravvisare la voce della coscienza.

Infine, l’accusa di corrompere i giovani sembra incompatibile con la sua professione di ignoranza e con l’aver sempre negato di essere un maestro, come ovvia conseguenza del non avere niente da insegnare. Dietro quest’ultima accusa si nascondono probabilmente due ragioni. Una ragione politica, cioè gli esiti nefandi della carriera politica di Alcibiade, Crizia e Carmide, che avevano frequentato Socrate con assiduità entrando a far parte per un certo periodo della sua synousía, cioè di quello “stare insieme” orizzontale, senza maestri né allievi, che consisteva nel passare il tempo esaminando reciprocamente le proprie credenze. Un motivo personale, cioè la vergogna retorica a cui sono esposti i sapienti della città quando i giovani smascherano pubblicamente la loro insipienza imitando Socrate e il suo modo di interrogare. Le parole che Alcibiade rivolge ai partecipanti al simposio del 416 a.C. nascondono, infine, il giudizio di Platone sugli “uomini di Atene” che hanno condannato Socrate: “[...] sappiate bene che nessuno tra di voi lo conosce davvero” (Simposio, 216c-d).

Élenchos e maieutica

Il modo socratico di dialogare è fatto di domande e risposte brevi e pertinenti e, secondo Platone, è aporetico, cioè porta da premesse plausibili a conclusioni implausibili. Il termine comunemente usato per indicarlo è élenchos, che in greco moderno significa “controllo”, il controllo a distanza del telecomando o quello scolastico della pagella e del registro. L’élenchos di Socrate è una “verifica” delle credenze del suo interlocutore, di norma un presunto sapiente. Interrogato da Socrate su che cosa sia ciò di cui si dice esperto, per esempio il coraggio, sostiene una certa tesi p di partenza e in seguito concede una serie di premesse q, r... che corrispondono a credenze irrinunciabili del senso comune, ma da cui deriva necessariamente una conseguenza incompatibile con p. Ma non è possibile mantenere p e insieme le premesse q, r... da cui deriva la conclusione incompatibile con p; dunque l’interlocutore è costretto a fare una scelta e, non potendo rinunciare alle sue credenze basilari, rifiuta la tesi di partenza, riconoscendola falsa. In questo modo viene confutato, liberandosi della presunzione di sapere qualcosa che in realtà non conosce e trovandosi in uno stato di aporía, alla lettera “senza una via d’uscita”, cioè incapace di rispondere alla domanda iniziale (che cos’è il coraggio?). Recuperare la coscienza della propria ignoranza è il solo modo di sfuggire alla trappola della amathía o “ignoranza doppia”, cioè l’ignoranza di chi non sa ma presume di sapere, e di conseguenza non desidera intraprendere alcuna ricerca della verità.

Scopo ultimo dell’esame socratico è conoscere le virtù, che ne costituiscono l’oggetto d’indagine privilegiato, per potersi comportare in modo virtuoso. Nella Grecia del V secolo a.C. esiste un’educazione a leggere, scrivere, far di conto ed esercitarsi con il corpo, ma non esiste un’educazione del bene e del male se non quella affidata ai premi e alle punizioni, e alle leggi. Non esiste un insegnamento morale – ed è ciò che colpisce Socrate – per cui i nostri valori di scelta sono affidati alla routine piuttosto che alla riflessione e all’apprendimento da un maestro. Il V secolo a.C. rappresenta il trionfo delle téchnai – di cui Sofocle tesse l’elogio nell’Antigone – ma non c’è una techne che insegni a essere persone per bene. Il modello assunto implicitamente è quello di Pindaro: che ciò avvenga per natura; e costituirà il problema del Menone platonico: se la virtù si acquisisca per natura, per insegnamento o per caso. Per colmare questa lacuna educativa, Socrate ritiene un dovere morale di ogni uomo interrogarsi su cosa siano il coraggio, la giustizia, la temperanza e la santità. La sua tesi paradossale è che conoscere la virtù sia condizione necessaria e sufficiente per essere un uomo virtuoso: come colui che conosce la matematica è un matematico, così chi sa che cosa è bene fare non può non farlo e chi sa che cosa è male lo evita necessariamente. Questa identità tra virtù e conoscenza porta a un secondo paradosso, ovvero la negazione dell’akrasía o “debolezza morale”, condizione in cui si trova chi pur sapendo che qualcosa è male lo fa ugualmente, spinto dal desiderio o vinto dal piacere – un tipico caso moderno è quello del fumatore. L’acquisizione di un sapere morale, tuttavia, è solo il fine ultimo a cui tende l’esame socratico, difficilmente conseguibile; l’élenchos ha anche uno scopo prossimo, a portata di ognuno, che consiste nell’adottare uno stile di vita coerente con il logos béltistos, cioè con quelle credenze che siano risultate provvisoriamente le migliori per essere sopravvissute all’esame ripetuto dell’élenchos.

In un solo dialogo, il Teeteto, Platone attribuisce a Socrate un metodo “segreto” diverso dall’élenchos, e lo fa ricorrendo a un paragone tra la sua arte e quella delle levatrici. Socrate è figlio di una levatrice con un provvidenziale (e sospetto) nome parlante: Fenarete significa infatti “che fa venire alla luce la virtù”. Come le levatrici fanno partorire figli ai corpi delle donne gravide, così Socrate fa partorire pensieri alle menti degli uomini che hanno le doglie. La sua “arte maieutica” lo accomuna alla dea Artemide, protettrice del parto ma “senza parto”, perché come la dea, e a differenza delle levatrici che sono sterili per ragioni biologiche ma hanno avuto l’esperienza del parto, Socrate non ha mai generato alcun pensiero.

Questa affinità è la ragione per cui nell’Accademia si festeggerà la sua nascita nello stesso giorno del natalizio di Artemide, il sesto del mese di Targelione (maggio-giugno). Il motivo dell’ignoranza va allora aggiornato: Socrate non è sapiente perché non ha avuto maestri, perché non ha acquisito un sapere esperto in seguito a una ricerca personale o comune, ma anche perché non lo ha generato lui stesso. Non è dunque per esperienza che ha acquisito l’arte maieutica, ma la esercita per volere del dio come una vocazione.

In che cosa la maieutica si distingue dall’élenchos? In primo luogo i loro destinatari sono diversi: Socrate può esercitare quest’arte solo con chi si presenti a lui già nello stato di aporía in cui consiste la gravidanza intellettuale. Il giovane Teeteto, per esempio, ha l’assillo perché non riesce a smettere di chiedersi che cosa sia la conoscenza, ma da solo non ha le risorse per rispondere esprimendo il proprio pensiero in merito. L’arte maieutica di Socrate è in grado di far cessare le sue doglie spontanee aiutandolo a “far crescere” e quindi a partorire questo pensiero. Il compito maieutico più importante consiste, tuttavia, nel saggiare la bontà della credenza partorita per stabilire se è vera, e di conseguenza merita di essere allevata, oppure falsa e dunque da abbandonare. Questa seconda fase della maieutica consiste di fatto in un élenchos, con la differenza che il pensiero sottoposto a esame è stato generato. Nel caso di Teeteto, l’unico offerto dai dialoghi platonici, l’esito è negativo: le tre credenze sulla conoscenza partorite dal giovane sono confutate, lasciandolo “vuoto” e cosciente della propria ignoranza, e quindi pronto per una nuova ricerca.

Il discepolo di Socrate, che nelle Nuvole abortisce un pensiero, non sembra poter condividere l’arte maieutica del Teeteto, dove non si assiste mai all’aborto, ma solo alla confutazione di credenze che una volta partorite risultano false; così come il motivo maieutico è assente in Senofonte.

Nel Simposio l’arte promnestica, cioè la raffinata abilità di combinare matrimoni che è parte della maieutica platonica, è trasformata volgarmente nell’arte del mezzano e attribuita (da Socrate) ad Antistene.

Il motivo maieutico appartiene dunque a Platone, che fa di Socrate – del Socrate sopravvissuto nei suoi dialoghi – la levatrice della filosofia. Il destinatario della maieutica non ha infatti alcuna presunzione di sapere, ma al contrario tende per natura alla ricerca della verità: il suo stato di aporía spontanea, accesa ma non costretta dalle parole di Socrate, non è altro che l’urgenza della vocazione filosofica. Il “segreto” dell’arte maieutica è dunque rivolto da Platone ai lettori filosofi dei suoi dialoghi; preservandone l’unicità, quello che Socrate è stato per lui può continuare a esserlo per noi.

“Ma ormai è ora di andare...”

“Non sempre la morte segna il confine di una vita in quanto termine esterno ad essa; talvolta ne è una parte, che ne prosegue la storia in modo significativo. Nel caso di Socrate, Abraham Lincoln, Giovanna d’Arco, Gesù e Giulio Cesare la morte fu un ulteriore episodio della loro vita e non semplicemente una fine, e noi possiamo pensare le loro vite nella prospettiva di quelle morti imperiture” (Robert Nozick, La vita pensata, 2004, p. 22).

La morte di Socrate è l’evento che ha reso la sua vita immortale. Quando è ancora “alba profonda” e riceve in carcere la visita dell’amico Critone, Socrate ha appena fatto un sogno: una donna biancovestita gli è apparsa dicendogli “fra tre giorni giungerai a Ftia, fertile terra”. Socrate non ha alcun dubbio sul significato del sogno: dopo un lungo mese di attesa, il dio vuole informarlo che fra tre giorni morirà; e trattandosi di un sogno divinatorio è destinato ad avverarsi.

La scelta che gli si prospetta non riguarda allora la possibilità di salvare la propria vita accogliendo il piano di fuga dell’amico, ma soltanto il modo in cui morire. Rimanendo al suo posto in attesa che venga eseguita la sentenza di morte, Socrate rende questa morte il coronamento della sua vita di filosofo; una vita all’insegna del vivere bene, cioè con giustizia e virtù, ma soprattutto una vita in cui le azioni e i comportamenti seguono con coerenza il pensiero fino alle sue estreme conseguenze, e il pensiero è sottoposto costantemente a esame affinché risulti sempre il migliore possibile per un uomo. Se avesse rinnegato, durante il processo, il valore di una vita esaminata, Socrate sarebbe sopravvissuto, ma a discapito della cura di sé e della propria anima a cui aveva dedicato l’intera vita; la sua scelta di “parlar chiaro” incurante dei pericoli che ciò comporta (parresía) è, al contrario, il coraggioso omaggio che rivolge a questa vita. Allo stesso modo, fuggendo dal carcere avrebbe tradito le leggi di Atene, con le quali aveva contratto un patto tacito come cittadino, senza mai porle in discussione. Scegliendo di restare dimostra loro la sua completa fedeltà, senza per questo condividere la sentenza degli uomini che lo hanno giudicato. Socrate è dunque un esempio di coerenza morale e un eroe del pensiero: la sua vita sarebbe stata diversa se la morte non fosse stata quella che è stata.

Il sogno che apre la scena del Critone platonico ci mostra l’atteggiamento del filosofo di fronte alla morte. Nell’Apologia Socrate dichiara di non sapere se la morte sia un bene o un male, le sue ultime parole lo confermano: “Ma ormai è ora di andare (allà gar ede ora apiénai), io a morire, voi a vivere: chi di noi vada verso il meglio, è oscuro a tutti tranne che al dio” (42a). Ma ci sono ottime ragioni per sperare sia un bene, dal momento che il segno demonico non si è opposto a che si recasse in tribunale il giorno del processo; e delle due cose l’una: o la morte è non essere nulla e non provare più alcuna sensazione, come in un lungo e dolcissimo sonno senza sogni, oppure è un trapasso e un trasloco dell’anima da qui a un altro luogo, dove, se è vero quel che si dice, incontrerà le anime degli altri morti e potrà dialogare con menti straordinarie come quelle di Omero e di Odisseo.

Qualunque sia tra le due la verità, la morte è per Socrate un bene e una “terra fertile”. Come Ftia, in Tessaglia, è il luogo natio di Achille, e la decisione di tornarvi abbandonando la guerra gli salverebbe la vita fisica privandolo dell’onore e della gloria, così nel destino incrociato di Socrate è la morte a essere una fertile dimora, preservando il senso di una vita vissuta al servizio della filosofia; mentre continuare a vivere per umana codardia getterebbe un’ombra irremovibile su quella stessa vita. Questo è l’ultimo, estremo tratto caratteristico della sua atopía.

La morte scelta è un bene per Socrate perché corona il sommo bene umano di una vita esaminata: felix Socrates, dunque – citando un bel titolo di Vlastos –, perché è la coerenza di pensiero e di vita che dà la felicità, malgrado il sofista Antifonte lo giudichi infelice. Ed è un bene per la filosofia, perché fa sì che la vita di Socrate e l’opera di Platone possano rendersi immortali a vicenda.

Vedi anche
Il modello rifiutato: re e tiranni
La guerra del Peloponneso
L’educazione in Grecia
Il diritto dei Greci
Scetticismo antico
La figura del filosofo nell’immaginario narrativo
Sofisti
Scuole socratiche minori
Parmenide e Zenone
Pitagora e i pitagorici
Paideia
Aristotele
Platone e l’Accademia
Dèi in famiglia, dèi in azione
Gli dèi e la fabbricazione dell’umano
Nel nome degli dèi: teonimi, epiteti, epiclesi
La poesia epica
Il teatro
La storiografia
L’oratoria
La storiografia
La formazione del cittadino: mousike e paideia
I filosofi presocratici
La geometria dei problemi
Euclide e la comunità alessandrina