Ormai è da parecchi mesi che lavoro all’introduzione di questo libro. All’inizio volevo attenermi a un approccio strettamente scientifico. Pensavo di sintetizzare alcuni dati sul metodo documentario, di emettere nei suoi confronti una sentenza non definitiva, ma comunque piuttosto severa; poi, ricorrendo a un espediente retorico e citando una calzante osservazione di una mia conoscente, avrei spiegato come mai l’attualità sorpassa di gran lunga la documentarietà, anche se non in tutto e per tutto.
Lo ammetto: al termine di queste interminabili elucubrazioni, di queste fughe in avanti che, pur fermandosi in tempo, avevano indubbiamente un che di disperato, ero riuscita a sfornare un’introduzione di innegabile bellezza. E i polsi mi tremano ancora se penso a quel modello esemplare di argomentazione, alla sua forma solenne.
«Lo schiocco delle mandibole del destino», ecco come si chiama dalle nostre parti l’eco lontana che l’orecchio dell’alcolizzato coglie nel rombo di un’autostrada poco prima dell’alba. L’armonia inaccessibile del mio testo ricordava proprio quel suono.
A pensarci bene, un’introduzione, proprio per il suo ruolo limitato, è inadatta a ospitare riflessioni di tale portata. Certe considerazioni andrebbero valorizzate, poste a fondamento dell’intera opera e mai e poi mai rese di pubblico dominio (la pubblicazione non è il vero obiettivo!).
E non si dovrebbe neppure metterle in vendita. Forse scambiarle con beni culturali, oppure offrirle come stimolo a chi è, almeno in parte, sazio; al contempo, potrebbero anche, momentaneamente, distrarre gli affamati dal pensiero del cibo. A essere onesta, l’ho verificato io stessa in tempi recenti e posso dire che no, purtroppo non sono riuscite a distrarmi. Ma su quest’esperienza tornerò senza dubbio in seguito, per descriverla nel modo più circostanziato. Adesso invece sento la necessità di parlare di un fatto che mi è capitato da poco; ieri, per la precisione.
Il nostro è un quartiere piuttosto disgraziato, sebbene a uno sguardo esterno possa risultare assolutamente dignitoso, forse addirittura il più agiato di tutta Kiev. Ma io so bene che questa sua falsa prosperità nasconde un profondo, sincero disagio. Al contempo, come fa qualcosa di nascosto a restare sincero? Indubbiamente non può. Eppure l’evidenza di questo disagio lascerebbe attonito chiunque si decidesse ad ammetterne l’esistenza. Però nella nostra società tale volontà ancora scarseggia.
Quindi non c’è da stupirsi se ieri sera mi sono spaventata quando, davanti al portone di casa (da dove ultimamente è sparita la fioca lampadina che, fino a poco tempo fa, illuminava il giardinetto antistante e i gradini all’ingresso), ho visto prima un’ombra lunga e poi una figura emergere dall’oscurità, con una mano gigantesca protesa minacciosamente verso di me.
La voce che mi ha rivolto la parola era morbida e piacevole. Una voce alta e melodiosa, un’intonazione impulsiva ma dolce. Davanti a me c’era una donna, e questa donna mi stava spiegando come da tempo stesse cercando in ogni modo di incrociarmi, perché voleva pormi alcune domande. «Forse dalle sue risposte riuscirò a ricavare una specie di intervista» ha proseguito, in tono dubbioso. «Anche se è improbabile. Devo ammettere che di rado porto a termine quel che mi prefiggo. Praticamente tutti i miei progetti, le mie buone intenzioni, i miei desideri naufragano, finiscono in un nulla di fatto. Eppure la prego, mi dedichi qualche minuto del suo tempo, risponda alle mie domande… Non è difficile, specialmente per lei che le domande le avrà sotto gli occhi; molto più complesso è il mio compito, e cioè formularle.»
Non mi restava che invitarla a prendere un caffè e ascoltare quelle domande che, ancor prima che mi venissero rivolte, mi preoccupavano di già. Il punto è che non c’è giornalista ucraina – e mi riferisco soprattutto a quelle che, per motivi che non mi sono del tutto chiari, si interessano di arte e di letteratura – che non abusi della propria libertà, come se non bastasse nel modo più irritante possibile. Ma poiché in quel momento avevo già detto addio alla mia meravigliosa introduzione, addio per sempre, irrevocabilmente, speravo che una breve conversazione con una giornalista sconosciuta mi facesse venire qualche idea che avrei comunque potuto premettere agli altri testi come una specie di prefazione. Anche se ero perfettamente consapevole che un dialogo del genere non avrebbe sfiorato nemmeno una minima parte degli argomenti che avrei dovuto affrontare – o quantomeno menzionare – in una vera introduzione a un libro come questo.
D’altro canto non avevo scelta. Perché il fatto che la mia introduzione originaria si fosse rivelata inadatta a essere pubblicata mi aveva spinto a rinunciare anche al titolo iniziale del libro, informativo e pieno di significato, che suonava così:
STORIA DELLA TASSAZIONE
E come sottotitolo:
Frammenti di uno Studio sulla Storia antica dell’umanità.
È evidente che non riuscirò mai a escogitare un titolo migliore. La storia della tassazione, infatti, comprende tutte le forme di vita, non soltanto gli esseri umani, ma anche gli altri rappresentanti del mondo animale, e in una sola immagine fonde ricerca letteraria e solidità scientifica…. Al contempo “Storia antica dell’umanità” consente di restringere l’ambito del libro, concentrandolo sul mio paese, perché è proprio da qui che ha inizio la storia di qualsivoglia umanità.
Ma che posso fare? Malgrado queste siano senz’altro delle perdite tangibili, non posso permettere che gli eventi sfuggano definitivamente al mio controllo, non posso lasciare le redini, mollare la presa, rinunciare a dare un titolo al libro…
Migliaia di pensieri simili si rincorrevano nella mia mente, quando in mezzo alla loro fiumana udii qualcosa di piacevolmente remoto e silenzioso.
«Lei non dice niente» si è d’un tratto rianimata Andreja, «e mi viene il sospetto che abbia acconsentito a parlare con me per pura compassione, convinta com’è che questa conversazione non porterà a nulla. E in effetti lo temo anch’io, perché, come le ho detto, la maggior parte dei miei propositi, o perfino delle mie azioni, fanno questa fine. Scrivo per giornaletti locali che a Kiev non conosce nessuno… Il «Notiziario di Sjevjerodonec’k» mi rifiuta un pezzo dietro l’altro. E si sente in diritto di farlo perché prima collaboravo con «La sera di Alčevs’k», con «Fuochi» e con altri giornali che, del resto, rifiutavano anch’essi quasi sempre gli articoli che mandavo loro. Dopo innumerevoli discussioni e insuccessi, ho deciso di proporre a «Notizie» una rubrica fissa che avrei intitolato Diario di un’ex abitante di Alčevs’k, ma hanno bocciato anche quest’idea, senza starmi nemmeno a sentire; secondo loro il titolo sarebbe stato mal interpretato dai lettori e avrebbe messo in cattiva luce il quotidiano.»
«Cosa devo fare» ha proseguito, «se nessuno legge davvero i pezzi che invio? Sono arrivata perfino a credere di non aver mai scritto un solo articolo di giornale, di non esserne in grado. Osservare: ecco, in questo sono bravissima. Ma di scrivere in realtà non sono capace, e c’è di più: non voglio neppure impararla, quest’arte, o abilità, che si fonda sulla menzogna, sull’autoinganno e sull’abbaglio.»
«Ecco, lei per esempio» ha continuato senza darmi neppure la possibilità di replicare, «me la vedo che se ne sta tranquilla nel suo grazioso appartamentino, soddisfatta di sé, e si gode il meritato riposo, oppure che, con zelo invidiabile, infila una parola dietro l’altra, le accosta, le sposta, senza sospettare nemmeno per un istante l’inutilità totale e l’assurdità di ciò che fa e pensa. Ma non deve aver paura di me! Rifletta! Ha avuto una possibilità, e non l’ha sfruttata. Peggio: di settimana in settimana la sua pelle si è inspessita, e lei è arrivata al punto – e dall’orrore mi vengono i brividi! – di “credere in se stessa”, per così dire, e adesso si aspetta che io, una persona che non conosce affatto, una persona che di cose ne ha viste parecchie, infinitamente più di lei, si aspetta che proprio io, e nessun altro, le ponga delle domande che avrei dovuto preparare in anticipo, domande che mi sarebbero costate notti in bianco, e sulla cui formulazione mi sarei arrovellata perfino in sogno, perfino mentre aiutavo la mia bambina con i compiti! Complimenti! Nella sua disgustosa, nauseante ingenuità, lei dava già per scontato che mi sarei piegata e le avrei fornito domande che le avrebbero permesso di enunciare, nel modo più vergognoso, le cosiddette risposte, consentendole così di spingersi nell’ignoto e di riportarne indietro dei giudizi di cui, ancora una volta, sarebbe stata del tutto soddisfatta!
Vorrebbe andarsene? Fatica sprecata! Anch’io ci ho provato, ho tentato di trasferirmi a Leopoli o a Kiev e poi da lì da qualsiasi altra parte. Ma partire è impossibile. A un certo punto le macchine non escono più dalla città e poi all’improvviso scopri che neppure gli autobus o i maršrutnye taksi stanno più circolando, e quindi rimani bloccata per sempre nel posto in cui, a un certo punto, ti eri ritrovata solo per potertene andare. Ormai sei prigioniera, ostaggio di circostanze e di persone, esattamente come nei film che ti è capitato di vedere, solo che adesso sei tu la protagonista involontaria, e ti rendi conto con sgomento che non è mai esistita arte più meschina e spietata del cinema contemporaneo, tutto, senza eccezioni, documentari compresi, ovviamente. Perché quando ti ritrovi nel bel mezzo di un film – e non importa che si tratti di una commedia, di un documentario, oppure di un film di avventura o di guerra – capisci, con immenso stupore, che sei finita né più né meno in un incubo, interminabile, mesto e corrosivo. E a me, personalmente, piacerebbe credere che questo incubo, come qualsiasi film, conosca un’evoluzione, un culmine e uno scioglimento, e che poi ci sia addirittura un sequel, ma a giudicare da quanto vedo ora, non accade proprio niente del genere. Nulla evolve secondo questo modello pur sperimentato nei secoli. Adesso però si prepari. Proprio per dimostrarle questi fatti, innegabili e chiari come il sole – dalla sua espressione mi rendo conto che sta annuendo alle mie affermazioni, senza credere del resto a una singola parola – ho deciso di trasferirmi per qualche tempo a casa sua, e non intendo fermarmi soltanto per la notte, ma voglio proprio vivere da lei, per condividere la sua esistenza e capire se le sue convinzioni sono davvero radicate, così come le sue spacconate, la sua prontezza a costringere una sconosciuta qualsiasi, che non le ha fatto alcun torto, a porle delle domande mentre lei se ne rimane lì stravaccata sulla sedia a fissare il soffitto degnandosi di rispondere, come se a questa persona non restasse altro nella vita se non affrontare la tortura di elaborare queste domande, adattandole le une alle altre, enunciandole in attesa che ciascuna venga coronata da una risposta, come ogni causa da un effetto, ogni radice da uno stelo e ogni destino da un personaggio.»