LA DONNA CHE SI È AMMALATA

A Kiev abitava e lavorava sudando sette camicie una donna che alla fine si è ammalata. Viveva completamente da sola, in un quartiere dormitorio che molti chiamano l’UFO, il Grande Schianto o addirittura il Grembo. Occorre tener presente che per quattro mesi di fila la donna non si era mai ammalata. E questo nonostante non potesse certo vantare una salute di ferro: in precedenza si ammalava di continuo, potremmo dire incessantemente.

I freddi mesi invernali si succedevano. Il termosifone riscaldava appena la stanza, per di più perennemente umida a causa dei panni, simili a pipistrelli dalle grandi ali, stesi ad asciugare sopra i fornelli. Eppure, se si partiva a contare da novembre, era da quattro mesi interi che la donna era sana come un topo in un granaio. E ormai, volenti o nolenti, eravamo già a marzo.

Non un raffreddore, non un’influenza, non un’infiammazione alla gola: la poveretta scoppiava letteralmente di salute, al punto che aveva smesso di sentirsi umana, benché lavorasse in tre posti diversi. Le sembrava di essere un meccanismo insensibile, un orologio dal volto umano, un gioco elettronico alquanto primitivo o una faccina sorridente del cellulare.

E tutte quelle preoccupazioni solo perché aveva smesso di ammalarsi. «Che sofferenza! Se cessassi di mangiare continuerei anche in tal caso a vivere come se nulla fosse? Dormo quattro ore, ma prima evidentemente non mi bastavano, e mi ammalavo. Adesso continuo a dormirne quattro ma sono sana come un pesce! Prima stavo a letto distrutta con la febbre e contavo i fili elettrici fuori dalla finestra. Adesso a volte mi dimentico perfino che a casa mia ci sono delle finestre!

Signore, mi hai punito donandomi la salute! Quale colpa ho commesso ai Tuoi occhi? Possibile che sia solo perché al lavoro avevo ricevuto per caso il premio di un’altra e non l’ho mai restituito? O forse è perché quando ho comprato le patate si sono sbagliati a darmi il resto, e io non ho detto nulla, ho arraffato quei soldi e li ho spesi in caramelle?

Possibile che non ci sia giustizia, possibile non ci sia compassione per la tua serva, Marfa…»

«Ahahah! Ma che Marfa e Marfa! Tu non ti chiami affatto così!» (risuona all’improvviso, sopra di lei, una voce).

«Questo excursus lo tralascerei. Ma, ad ogni modo, non riesco a capire che cosa si aspettasse quella donna se, pregando, aveva addirittura mentito sul suo stesso nome… Ti sembra possibile che per simili sciocchezze, di fronte a richieste talmente stupide e, diciamolo pure, insignificanti, qualcuno sia disposto a muovere anche soltanto un dito?»

«Però, che razza di ingenuità. Eppure dovresti sapere che perfino su individui così irrilevanti alle volte discende la Grazia…»

E infatti, in risposta alla sua preghiera, dopo un momento di silenzio, risuonò ancora quella stessa voce che proveniva direttamente dal cielo, allo stesso tempo chiara e penetrante: «Consolati! Non sarai più sana, Mal’vina! La Tua preghiera è stata accolta: Ti contagerà una malattia e questa malattia sarà il raffreddore».

«Grazie, Signore, che hai avuto pietà di me!» strillò dalla felicità Mal’vina (perché si chiamava proprio così, posso confermarlo) e si precipitò a casa. Una volta giunta a casa, Mal’vina andò subito in cucina, che le serviva anche da confortevolissima camera da letto. Si levò la giacca, appoggiò sul termosifone i jeans fradici, si mise un maglione, si legò una sciarpa intorno al collo e s’infilò a letto.

Oh, miracolo! Da quell’esatto istante la attendeva una dolce, cara malattia — un bel raffreddore, con una lieve tonsillite — che le venne non appena si sistemò un po’ più comodamente sotto i tre plaid che le facevano da coperta.

Passarono giorni e notti. Dopo quell’episodio Mal’vina iniziò anche a lavorare in un quarto posto: in chiesa. Qui, senza ricevere alcun compenso, puliva, spazzava, lavava, consolava gli afflitti e aiutava i parrocchiani come poteva. Cuciva, preparava prosfore, biscotti e marmellate, versava il vino dei monaci nelle bottiglie, portava dentro il vino, ritirava le casse, donava fazzoletti da testa alle parrocchiane, distribuì cinque berretti invernali, curava i feriti di guerra, curava i moribondi, e faceva mille altre cose, utili e importanti.

Con i suoi sacrifici quella donna meravigliosa tentava di ringraziare il suo nuovo miglior amico, colui che da allora si prendeva costantemente cura di lei: onnipotente e magnifico, incomparabile ed elegante, pratico ed energico, generoso e ottimista, inappuntabile e organizzato, audace e modesto, grandioso e sempre allegro, dotato di una voce stupenda che risuonava come se venisse dal nulla; ovviamente avete capito a chi mi sto riferendo.