La vidi lì, in piedi, a osservare le macchine in fila. 5 luglio 2014. L’esercito di Strelkov stava abbandonando Slov’jans’k. Una grigia giornata fumosa al termine di mesi slabbrati, flash indistinti di fanali, vento e rimbombo di clacson. Evidentemente aspettavano qualcuno, per mettersi in marcia.
Vetri rotti al primo piano del condominio accanto, nere pozzanghere dopo la pioggia, voci che chiamavano e urlavano; ma lei non si muoveva da lì. Poi ebbi l’impressione che i passanti si fossero paralizzati; e calò un silenzio assoluto, un silenzio che s’impadronì non solo delle strade lì intorno, in cui erano ferme auto solitarie, con a bordo passeggeri pronti a partire, ma addirittura dell’intera città. File di finestre che si illuminavano, dai loro vani vuoti penzolavano fuori qua e là cavi serpeggianti, a sfruttare la rete elettrica degli appartamenti vicini.
Le macchine, sporche e tetre, convergevano a poco a poco verso il centro città.
E lei era ancora lì, all’incrocio, nell’evidente tentativo di richiamare l’attenzione di uno degli occupanti delle macchine.
«Io con voi non ci vengo!» gridò all’improvviso, sovrastando il rumore dei clacson. «Io rimango qui. Ho deciso: non parto!»
Mia sorella aveva preso la sua decisione. Solo un minuto prima sembrava che fosse di altro avviso. Da quando quegli uomini a noi estranei erano apparsi nella nostra città, lei, per tutto il periodo della loro permanenza, gli aveva preparato da mangiare, cercando di confortarli e ascoltando i loro discorsi, per poi, orgogliosa, riferirci i loro piani militari per i giorni seguenti, la presa della regione di Charkiv e infine, ineluttabile e fatale, quella di Kiev. E adesso, di punto in bianco, ci annunciava che sarebbe rimasta. Ma rimasta dove? Con noi, che nel giro di poche settimane, le ultime, ci eravamo trasformati ai suoi occhi in perfetti estranei? D’altro canto, il significato della sua esistenza, i suoi desideri, i suoi sogni, le sue speranze, potevano sussistere solo fintanto che la nostra città fosse rimasta in mano a quegli uomini armati, a quei soldati sconosciuti. Pareva trascorso un secolo da quando ci aveva annunciato che sognava di unire la sua vita a quella di uno di loro. Già parlavano di matrimonio. A un tratto, da un’auto saltarono giù due tizi dalle spalle larghe. La circondarono in men che non si dica e un attimo dopo lei era già sparita dietro lo sportello chiuso della macchina.
Proibii a me stessa non solo di capire cosa ci fosse sotto, ma anche di pensarci.
Nessuno di noi si azzardò ad avvicinarsi, per chiedere dove andassero, quando l’avremmo rivista.
Perdemmo ogni contatto. Per noi parlare di lei era tabù. Pare impossibile ma per mesi e mesi di fila restammo così, senza saper nulla. D’altronde, dove attingere informazioni, a chi telefonare? In ogni caso, non avevamo il tempo di scoprire dove fosse finita.
E poi, dopo mesi, riapparve.
Non che ci sia molto da dire. Non si lamenta, abita da noi, lavora. Al lavoro non se la sono presa per la sua assenza. E con questo voglio dire che hanno continuato a pagarle lo stipendio per tutto il tempo in cui è stata via. È l’unica cosa che siamo riusciti a fare per lei. E non è poco, soprattutto per i nostri standard. Lei non ci racconta nulla, e neppure noi le chiediamo granché.