Aveva molti talenti, ma ancor più capacità. Aveva abitato prima in un villaggio dalle parti di Poltava, poi a Sumy, poi a Kiev, sempre in seconde case che non appartenevano ad amici, bensì a persone che conosceva appena. Aveva una tuta nera, con guarnizioni di velluto, dalla foggia estremamente raffinata. E poi anche un maglione, un paio di scarpe, uno di stivali, una borsetta, cosmetici e poco altro; in generale, le era sempre piaciuto viaggiare leggera.
Voleva fare nuove conoscenze, trovare un’amica e un lavoro. Avrebbe potuto essere sicuramente una buona amica: era una persona di cui ci si poteva fidare. Tutte quelle cose brutte, cattive, tristi, dolorose, deprimenti: non voleva più pensarci, o forse non ci aveva mai pensato. Perché disperarsi quando perfino nei mesi più tetri a volte spunta una bella giornata di sole? Anche se fuori fa meno sette, e la neve al sole non accenna ancora a sciogliersi.
Si era trasferita a Kiev nell’autunno del 2015; aveva svernato da sola in una casa fredda e vuota, in una traversa senza sbocco di una delle incolori vie degli orti Rusanivs’ki.
Un mese e mezzo fa la sua casetta di mattoni apparentemente confortevole si ritrovò circondata da mucchi di neve. Chissà perché, proprio in quella via a spalare la neve non ci pensava nessuno. Le macchine non circolavano più. La notte giungevano rumori da una casa dalla dubbia reputazione. Alcuni ospiti, che erano arrivati prima della nevicata, avevano deciso di rimanere lì. E prendevano la notte per il giorno. Di giorno dormivano, anche se ogni tanto qualcuno si svegliava e usciva, con tutta probabilità per sbrigare alla luce del giorno qualcosa di tipicamente notturno. Dalla tarda sera fino all’alba, dietro i vetri appannati si udivano grida, strilli, frastuono di stoviglie rotte e i muggiti di chissà chi.
Finalmente una mattina qualcuno bussò alla finestra della donna. Uscì sulla soglia e vide la sua vicina, giovane, carina e sbronza fradicia. Indossava una gonna, al posto di un maglione o di una giacca si era legata intorno al petto due sciarpe, una bianca e una rossa, e tra i capelli aveva delle frasche di abete. La sciarpa rossa e le frasche la facevano assomigliare a un cervo ferito. Le braccia e le spalle restavano scoperte, eppure non sembrava aver freddo.
«Muuuuu!» disse la vicina e tentò di chiedere qualcosa alla donna, ma non ci riuscì, pertanto emise un altro muggito.
Allora la donna la invitò a prendere una tazza di tè bollente. Lei entrò, pressoché svestita, in una fredda casa altrui, e questo fu l’inizio della loro grande amicizia.
Trascorsero insieme tutta la sera e si divertirono un mondo. Risero, giocarono a carte, prepararono delle mele al forno, andarono alla casa della vicina a tirare palle di neve e tappi di bottiglie di birra agli ospiti, poi rientrarono e bevvero caffè corretto col cognac.
Poi la vicina tornò a casa sua – per poco, mezz’oretta soltanto – e la donna si addormentò.
E fece un sogno. Sognò di scendere in slittino, da sola, da un’immensa altura, giù in una foresta selvaggia, e nella foresta vivevano degli orsi che parlavano svariate lingue straniere. Uno degli orsi acchiappava il suo slittino e lo tirava a un altro orso. E questo a un altro. Lei volava in slittino di zampa in zampa, era bello e divertente. Sghignazzava e cercava di abbracciare gli orsi, ma quelli digrignavano le zanne e scherzavano come lord inglesi. Poi sognò che in mezzo alla foresta era sorto un enorme castello che assomigliava alla villa di un pezzo grosso di Sumy. Lei entrava in quel castello e nell’atrio c’era un grande tavolo, e sul tavolo un pesce vivo, dall’aria simpatica, che con la coda le faceva segno di avvicinarsi. Lei si avvicinava e a quel punto riconosceva il pezzo grosso di Sumy, Valerij Nikolaevič, in cima a un’altissima scalinata. Troneggiava lassù, con una pesante corona dorata calcata in testa. Ma il castello era stregato. Un drago rapì il figlio di Valerij Nikolaevič e lo trasformò in un sessantenne. Allora un uccello smisurato spiccò il volo giù dal soffitto e la portò via da quel luogo maledetto.
E qui la donna si svegliò per la prima volta.
Poi però si addormentò di nuovo.
E fece un altro sogno. Sognò che stava camminando in via Sofiivs’ka a Kiev, risalendo dal Majdan Nezavisimosti. Gli alberi secolari spazzavano la via davanti a lei con le loro foglie. Tutt’intorno si aggiravano animali preistorici: dinosauri, pterodattili, ma anche elefanti con indosso selle ricamate. All’improvviso vide gli antenati degli ucraini, pressoché indistinguibili da quelli odierni. Anche loro erano buoni, ingenui e un po’ furbetti. Continuò a percorrere via Sofiivs’ka, poi girò a destra e scorse una casa dagli splendidi balconi. Su un balcone c’erano enormi tini pieni di fiori meravigliosi, e una donna altrettanto meravigliosa che le ricordava la sua vicina e che si era affacciata proprio in quell’istante, con un annaffiatoio verde smeraldo tra le mani. Cominciò ad annaffiare i fiori, alla sognatrice venne una gran sete e si svegliò.
E, pensate un po’, accanto a lei c’era la sua vicina e, dietro la vicina, i suoi amici. Che felicità! Erano venuti a trovare proprio lei, nella sua casa fredda! Dove adesso non era più sola!
Offrì ai suoi ospiti una tazza di tè e riferì loro il primo sogno, tanto per cominciare, e poi il secondo. Gli ospiti erano sconvolti. Uno che aveva il collo bluastro e la barba che gli ricresceva, gridò: «Impossibile che abbia fatto tu questi sogni! Ti sei inventata tutto, pecora che non sei altro! La gente non sogna certe cose!».
Un altro, un uomo dall’aria istruita, dichiarò: «Sogni così non vengono neanche ai geni!». Neanche lui le credeva. Ma la donna, per tutta risposta, scoppiò in una risata ingenua. E poi disse: «Be’, vicini cari, siete matti? Secondo voi mi metterei a inventare sogni? Non avrei altro da fare che escogitare castelli, foreste, uccelli, elefanti e animali preistorici? Ci mancherebbe soltanto che perdessi tempo con simili sciocchezze!».
La compagnia prese atto della sua opinione e non la accusò più di una truffa così vergognosa qual è l’invenzione di sogni a vuoto. Perché la donna sognava in continuazione! E questi sogni le cambiarono completamente la vita.
La vicina diventò la sua migliore amica. Aprì una caffetteria nel centro di Kiev e la assunse. Lì servivano caffè dai nomi strani: Sogni d’oro, Meditazione, Mondi Fatati e Volo al di là dell’Oceano dei Desideri.
Di giorno in giorno quella piccola caffetteria diventava sempre più di moda.
Il padre della sognatrice si ammalò e lei iniziò a mandargli dei soldi. E allora la sua nuova amica, per farle un favore, sistemò suo padre in un ospedale talmente prestigioso che lui, dalla felicità, smise perfino di telefonare alla figlia. Aveva paura di mettere in fuga quella fortuna, le spiegò in seguito.
Nella caffetteria dove lavorava la donna non si discuteva mai di cose terribili, deprimenti o spaventose. La politica era bandita. E anche adesso lì non si può parlare di nulla di triste, angoscioso, irrimediabile o terrorizzante. Ogni venerdì si riunisce una compagnia ristretta di amici per ascoltare due o tre sogni – ma alle volte anche cinque – tra gli ultimi fatti dalla cameriera.
Ecco qua il suo ennesimo sogno e come lo ha interpretato.
«Ho sognato che avevamo comprato delle cannucce colorate per la cioccolata calda. Erano belle, insolite. Bastava accostarne una alla bocca perché dalla cannuccia cominciasse a sgorgare una musica, una musica così bella che ti faceva venir voglia di piangere e ridere allo stesso tempo. E la gente a Kiev, sul Majdan, piangeva e rideva, sentendo la musica che veniva dalla nostra caffetteria. Qualcuno si metteva a ballare. Oh, com’ero felice di sentire quella musica meravigliosa! Era magica, divina! Grazie alla sua melodia, le viuzze tutt’intorno s’erano riempite di attori e musicisti travestiti da animali. Gli attori danzavano e poi, di colpo, cominciarono a mangiare i musicisti, ma i musicisti non sentivano male, gli faceva piacere. Il loro sangue fumante scorse fino alla nostra caffetteria e io mi precipitai a leccarne un po’, a quattro zampe. E in quell’istante sentii che mi stavo tramutando in una persona completamente diversa, ero un’europea e abitavo in un antico, grande paese. Questo paese non conosceva confini, né barriere, né differenze nel modo di vestirsi o di dichiarare il proprio amore.
Prima ero una ragazza come tante altre, adesso invece… che straordinaria trasformazione!
I sogni hanno fatto di me una persona di successo, i sogni raccontano non soltanto del mio futuro, ma anche del destino del mondo, soprattutto di quello dell’Ucraina e dell’Europa.
Ieri ho sognato un bellissimo cane: un levriero, un segugio, fulvo, con due colli e due teste. correva davanti a me in direzione sud-ovest, spalancandomi la via verso il Podil, la Città Bassa di Kiev. Era un cane audace: ha profetizzato che saremo tutti felici e che ci attende una grande prosperità, se non proprio quest’anno, quantomeno quello prossimo.»