LA SOLITARIA

Il destino l’aveva scaraventata a Kiev e lei non sapeva che fare. Era di Donec’k, dove aveva trascorso tutta la vita, in una casetta unifamiliare, insieme ai genitori. Aveva abbastanza soldi in tasca. Così si dice: in tasca, anche se le sue vere tasche erano vuote, e il vento ci danzava dentro. No, questa del vento è un’esagerazione. In realtà lei aveva semplicemente qualcosa da parte, alla mal parata. Da noi si dice così: alla mal parata, anche se lei stava già male da un pezzo, e non sapeva bene cos’avrebbe dovuto parare. Insomma, disponeva di una somma, di certo non considerevole, accantonata per i casi d’emergenza, cui adesso era costretta ad attingere, spendendola sistematicamente.

«Che donna interessante!» disse di Sveta Orlec’ un anziano alcolizzato del bar Vernissage di Podil, per passare poi, di punto in bianco, a concentrarsi su un oggetto completamente diverso. Stava osservando con tenerezza una sedia coperta da una serie di crocifissioni. Quei teppistelli ortodossi di Kiev, ancora una volta, non avevano saputo trattenersi: anche l’ampio tavolo di legno era tutto cosparso di Cristi e di croci incisi da una mano infantile e, al contempo, non del tutto sobria. L’uomo si segnò, inchinandosi dinanzi alla sedia con aria devota. Sveta emise un singhiozzo. Era seduta accanto a me, ma perfino in quel momento era maledettamente sola. O meglio, “sola fradicia”, come diceva lei.

A Kiev non aveva assolutamente idea di cosa fare. Non sapeva da che parte iniziare! In quella città non c’era neppure un ramo a cui aggrapparsi, o un gradino su cui mettere il piede. Mancava qualsiasi punto d’appoggio. «Che li nascondano apposta per me? Sono sparsi tutt’intorno, come coriandoli scintillanti su un palcoscenico alla fine dello spettacolo, e io sono la sola a non vederne neppure uno? Forse sono come fuochi fatui. Qui è facilissimo infilarsi da soli in una palude e cominciare a sprofondare. Allora io griderò “aiuto, aiuto!” e il massimo in cui possa sperare è che quel vecchio caprone si giri a contemplare gli ultimi istanti della mia vita!

Ecco, adesso sono seduta qui insieme a lei e lo vedo che è gentile, e che io la incuriosisco, eppure mi annoio e so che non diventeremo mai migliori amiche.» Questa è lei che parla di me.

Ogni volta che a Kiev Sveta Orlec’ si ritrovava seduta vicino a qualcuno – allo stesso tavolo o sulla stessa panchina – per lei era una delusione abissale. Nessuno era in grado di consolarla o tranquillizzarla. In presenza di altri esseri umani percepiva la tragicità dell’esistenza con ancora maggior chiarezza di quando era completamente sola. Non aveva nessuno con cui scambiare una parola e spesso ripeteva: «Nessuno?! Meno di nessuno! Dio mio, ma queste saranno mica persone? Sono avanzi, brandelli, non persone. Biascicano, si mangiano le parole, non si capisce neanche che cavolo dicono. Sgranano gli occhi, ti guardano, ma una parola comprensibile, che venga dal cuore, non te la dicono neanche per sogno. Io con loro morirò, come un cespuglio senza acqua, un camino senza fuoco, una macchina appena rubata nelle mani di un teppista. Morirò e non avrò neppure nessuno a cui dire alla fine: “Be’, lei è stato gentile con me!”. Io non chiederei altro che affidare la mia vita a qualcuno, parola d’onore, ma a chi? Qui non c’è nessuno che possa prendere neppure lontanamente in considerazione! Forse facciamo tutti parte di una generazione perduta?».

E, con queste riflessioni, il mio incontro con Svetlana terminò bruscamente.

La rividi qualche settimana dopo. A salvare Sveta era stata un’invenzione kieviana, una di quelle cabine con i vetri a specchio per i poliziotti di guardia, per la precisione quella ubicata in via Volodimirs’ka nei pressi del numero civico 16.

Una mattina Sveta camminava sulla Volodimirs’ka, disperata, ovviamente, se non addirittura terrorizzata pensando fino a che punto ci si possa sentire reietti, infelici, dannati. Camminava senza fretta, anzi molto lentamente e, seguendo un’abitudine che aveva preso negli ultimi giorni, faceva le smorfie. Tirava fuori la lingua, gonfiava le guance, sollevava le spalle, sporgeva le labbra, le arrotolava, rideva come una matta e guardava in tralice. Sveta storceva il volto, metteva il muso o, come diceva lei, si metteva in mostra. Evidentemente gli altri mezzi adatti alla ricerca di un equilibrio spirituale li aveva esauriti da un pezzo.

E fu allora che, del tutto inaspettatamente per Sveta – inaspettatamente e imprevedibilmente, come in una fiaba – le porte della cabina davanti alla quale stava passando si aprirono, e dalla cabina si sporse in fuori il lungo busto di un poliziotto che, con un sorriso bonario, le mormorò qualche parola di approvazione e di invito. Da perdere non aveva nulla. S’infilò fulmineamente dentro, ritrovandosi a tu per tu con un perfetto sconosciuto, in uno spazio ridottissino, dove soltanto uno poteva sedersi sulla sedia, mentre l’altro doveva accontentarsi del tappetino steso per terra.

Senza dubbio i due scoprirono di avere molto in comune. Di colpo si erano trovati e da quel momento cominciarono a trascorrere insieme le loro giornate. Non solo: da allora le loro vite cambiarono repentinamente e insospettabilmente in meglio, come capita spesso a chi s’imbatte d’un tratto nella propria fortuna.