CRONACA DI UNA RIVOLTA

Dalla conversazione con Katerina N.

Nel 2015, all’epoca del processo alle parrucchiere, manicure e alle altre dipendenti del Salone di Bellezza Piramid, i magistrati che conducevano la cosiddetta inchiesta hanno sollevato una questione che avrebbe dovuto chiarire almeno un po’ al governo della Città-Stato di Antracit le ragioni della rivolta.

I magistrati volevano sapere in che modo le idee e i pensieri rivoluzionari fossero nati nella mente delle lavoranti. La risposta più interessante è arrivata da Ksenija Semenova, leader delle ribelli e specialista diplomata in acconciature maschili, nota in città anche come magistrale interprete del carré con la sfumatura alta e del taglio alla paggio.

«Abbiamo visto tutte, in questi ultimi tempi, tutte come se fossimo una sola, abbiamo visto – e nessuna ha perso un solo dettaglio – quanti paesini spaventati, case ribaltate, donne stese a terra che impaurivano tutti con i loro corpi abbandonati che nessuno portava via… Quante conquiste e riconquiste, in nome della libertà e della completa autonomia. Abbiamo sperimentato nel nostro secolo anche molte rivoluzioni, quella dei Minatori, quella Arancione e il Majdan, e la nostra rivoluzione di Antracit. Abbiamo visto nuove formazioni atamane, qualcuno che ha ridato vita a una scuderia nel villaggio di Dyakove, e chi, a proprie spese, ha ricreato un mercato cittadino e due stazioni di rifornimento del gas. Noi siamo persone aperte, meschine non siamo mai state. Vogliono le stazioni del gas, che se le prendano. Non vogliono lasciarci neanche un soldo per il tè, vogliono un taglio e in cambio trattarci in malo modo? Facciano pure, sta alla loro coscienza. Ma la nostra testa ci ha ragionato su e ha capito, e anche noi abbiamo imparato a organizzare una rivoluzione.»

Ksenija Semenovna ha ricordato nel suo discorso avvenimenti politici e militari che avevano profondamente agitato la vita notturna e diurna di Antracit, separatasi per un breve periodo tanto dalla regione di Luhans’k quanto dallo stato di nuova formazione della Repubblica Popolare di Luhans’k, e costituitasi a sua volta in stato indipendente, governato da cosacchi e atamani.

Con ogni verosimiglianza, avevano detto i magistrati, Ksenija Semonovna e tutte le lavoranti del suo salone di bellezza, di fronte a una serie di avvenimenti di cui qui ovviamente non si parlerà, si sono sentite partecipi dei cambiamenti che avevano sotto gli occhi. È ormai evidente che non solo quel salone sentiva la necessità di un cambiamento: tutta una serie di altri parrucchieri, di palestre e due negozi di alimentari nel loro circondario si erano decisi alla rivolta! Dobbiamo con la maggiore accuratezza possibile indagare, protocollare e fare tutto l’immaginabile possibile, tutto quello cui arrivano le nostre forze, perché avvenimenti simili non si ripetano. Non è certo questo il momento di concedere indulgenze a soggetti come Ksenija Semenovna.

Eppure chiamare Ksenija Semenovna rivoltosa o rivoluzionaria, nel senso classico di questi termini, non sembrava possibile. I normali rivoltosi, loro, sono oppositori come gli Ukry, i Bandery di Stepan Bandera, o anche solo gli Indignati, e formano, che lo si voglia o no, gruppi isolati, si separano dagli altri cittadini, si chiudono, si immergono completamente nella loro attività, si procurano bandiere proibite, parlano tra loro lingue vietate, spesso si allontanano dalle loro famiglie, smettono di vedere i parenti, spezzano il legame con il loro ambiente abituale.

Ksenija Semenovna e le sue lavoranti non sono mai state respinte dal loro ambiente, esercitavano il loro mestiere, tagliavano i capelli, facevano la manicure, conoscevano molte persone in città, parlavano con chiunque; chiunque il destino decidesse di mandare nel loro salone. La disposizione alla rivolta non contraddiceva il loro sistema di vita, anzi tutte, come fossero una sola, sostenevano di voler fare di Antracit una città migliore. Non aveva senso per loro sapere se la città godeva della protezione di qualcuno o agiva sotto l’influenza di qualcun altro. Affermavano di essere al di sopra della politica.

Eppure, nonostante le insorte condividessero le stesse idee, non sapevano formularle se non in modo confuso, mancava loro quella ideologia comune che, come sanno anche gli scolari più giovani, è indispensabile a qualsiasi organizzazione rivoluzionaria. Non c’era stato nessun terzo grado, nessuna indagine, per quanto accurata, sui loro rapporti sociali, capace di ribaltare questa supposizione. Le insorte avevano opinioni troppo disparate, la loro istruzione era diversissima, e avevano giudizi e visioni del mondo e della vita distanti tra loro.

Tra le lavoranti del salone c’erano una ex studentessa di filosofia dell’Università di Luhans’k, una contabile, un’attrice, una pasticcera, soltanto un’estetista professionista e due parrucchiere diplomate che, tra l’altro, avevano frequentato scuole con impostazioni e tradizioni in conflitto. Alcune delle lavoranti avevano scritto lettere aperte – e anche lettere personali – giurando che mai e poi mai, davvero, avrebbero ripetuto un errore così fatale. Con espressioni commoventi avevano chiesto che le lasciassero uscire dallo scantinato perché volevano tornare dai loro mariti e dai loro bambini. Altre, in particolare le due sorelle Angelica e Al’bina, avevano steso lettere con spaventosi errori di grammatica e si era capito che non erano in grado di esprimere con chiarezza un solo pensiero. Si contraddicevano e battibeccavano, dicevano che per alcuni mesi non avevano ricevuto il pagamento supplementare per i tagli eseguiti e che se non fosse stato per queste continue umiliazioni non avrebbero aiutato Ksenija Semenovna, benché lei avesse tenuto a battesimo i loro neonati.

Era chiaro quindi che tra le insorte alcune appartenevano a famiglie di antracitiani note e rispettate e altre erano provinciali sconosciute, arrivate a Antracit dai paesi vicini, in cerca di una vita migliore.

Eppure tutte volevano fare qualcosa per il futuro e per il presente di Antracit ma questa loro aspirazione era guardata con sospetto e le aveva separate dagli abitanti della città.

Bisogna aggiungere che, tra i cosacchi dei servizi segreti di Antracit e le insorte, non si era evidenziata quella distanza che si manifesta di solito tra i normali arrestati – o tra i nemici fatti prigionieri – e i loro inquirenti.

La barriera della differenza di classe lì non c’era.

Per esempio era stata scoperta una strana contraddizione nel caso di Ksenija Semenovna. Suo marito era Stojan Sergeevič, nome in codice Manbassa, soldato indipendente, miliziano irregolare, sambista dilettante, combattente per la sovranità di Antracit e del suo dipartimento come Città-Stato.

Stojan aveva istigato gli studenti del Liceo professionale del Trasporto automobilistico a unirsi al movimento “Primavera manovrata” e alle battaglie per l’indipendenza della città.

Inoltre era stato il consulente personale del pluricelebrato ataman Kosicyn, uomo capace di un raziocinio storico di vasto respiro. E ancora aveva operato nella sfera della diplomazia e si era spesso recato a Donec’k e a Luhans’k per stabilire le comunicazioni tra stato e stato.

Stojan Sergeevič – proprio lui – aveva contribuito con tutte le sue forze alla creazione della milizia irregolare, però poi non si era accorto che, proprio sotto il suo naso, nella sua stessa famiglia, si trovavano elementi estranei. Di questo si era dispiaciuto moltissimo.

Il pentimento di Stojan Sergeevič è stato un avvenimento chiave nel processo alle insorte e – tanto per l’ampiezza della sua portata quanto per la profonda commozione che ha suscitato – è riuscito a distogliere l’attenzione dalla condanna, la cui mitezza e umanità ha stupito i giudici stessi. Non si aspettavano di poter essere così sensibili nel valutare una protesta manifestatasi proprio nei giorni più difficili per la loro Città-Stato, in lotta per la liberazione da due piccoli paesi, da altre città-stato vicine, e – detto senza esagerare – da stati veri e propri.

Lastre tombali usate nel 1996 per pagare gli arretrati sugli stipendi dei minatori di Novovolyns’k. Questi resti di stipendio giacciono ancora sul territorio di una delle miniere.