TRE CANTI DEL LAMENTO

La serpe

È entrata strisciando, la maledetta. Puntava al cuore, al nocciolo, e si è infilata nel nostro appartamento, fingendo di voler controllare dei documenti. Si è presentata come impiegata dei servizi sociali e si è diretta subito verso il mobiletto a cassetti. Il mio vecchio marito aveva costruito tutti quei cassettini forse pensando di farne dei nascondigli. Quanto piangere, ho pianto per due ore, forse per quattro, non ricordo. È entrata nella nostra camera, che è camera da letto, ma anche salotto, e si è avvicinata al comodino, di lato, e tendeva la mano verso i documenti. I documenti erano in cinque buste, a strati l’una sull’altra. Li avevamo messi lì, un giorno, per ogni evenienza. Avevo ripiegato io gli angoli delle buste. Ha detto che era del servizio sociale cittadino, che ci spettava un rimborso e che doveva registrare i documenti. Una volta guadagnavo bene. Ma i tempi non sono più quelli. Anche il mio vecchio guadagnava. In questo è stato bravo. Che cosa voglia dire avere dei bei soldi, lo sapevamo benissimo entrambi. E di cassettini ne avevamo a centinaia. Proprio per questa evenienza, il vecchio ha piallato, segato, inchiodato. O forse abbiamo portato a casa uno schedario della biblioteca? Non mi ricordo.

La biblioteca di quartiere era stata chiusa, i libri nei cartoni sotto la pioggia si sarebbero bagnati. Gli schedari erano allineati all’ingresso. Sarebbero andati persi comunque, adesso che quelle chiusure si moltiplicavano. Ma ormai lui è vecchio, un po’ cieco, un po’ sordo. L’ha lasciata entrare, ha lasciato che si avvicinasse al comodino, allo schedario, ai cassetti.

Se fosse stata una serpe avrebbe strisciato da un cassetto all’altro, una grande occasione per una serpe, potersi insinuare in tutti quei pertugi. Ma se il mio vecchio fosse stato uno sparviero, avrebbe afferrato quella serpe e l’avrebbe portata via. L’ avrebbe portata in cima alla montagna, al suo nido, dove lo aspettavano i suoi piccoli, le piume brune esposte ai fischi del vento, e lui dall’alto avrebbe visto i giovani becchi pronti a spalancarsi all’arrivo del raccolto di sangue. Da chi mai quei poveri cuccioli avrebbero potuto imparare che la serpe non è cibo, ma un essere vivente, in grado di pensare e avere emozioni? Si sarebbero solo ingozzati per giorni interi. Ingozzarsi e crescere, crescere e ingozzarsi. E se fosse stato sì uno sparviero, ma uno sparviero vecchio? Come adesso, che è un vecchio nonno? Non avrebbe avuto dei piccoli e non sarebbe stato in grado di tenere la serpe nel becco. Lei sarebbe precipitata sugli scogli e sarebbe morta. Oppure sarebbe caduta su un campo e avrebbe strisciato fino alla tana di qualche animale, nascosta nell’erba alta, sparita per sempre.

Parlando di sparvieri, lui avrebbe anche potuto essere, al contrario, uno sparviero giovane, ancora goffo, ma spericolato, con tutta la vita davanti, e non sarebbe cambiato niente: lei avrebbe rubato comunque. Lei ha rubato! È entrata in casa e ha rubato. Ne ha presi duemila! Sono in metropolitana, dove non si riesce a sentire, lui telefona e dice: «Duemila dei nostri cari non ci sono più». Non volevo credergli. Poi sono arrivata a casa, ho controllato, era vero. Ha aperto uno dei cassettini, in basso, dove li avevamo messi, a riscaldarsi sotto i documenti; vicino c’è un calorifero sempre acceso e qualche volta un raggio di sole dalla finestra, e loro se ne stavano lì, nascosti per i giorni bui. Un po’ tiepidi per il calore che arrivava dall’esterno.

Il mio vecchietto è incapace di provare diffidenza. Una volta gli hanno dato un colpo in testa nell’androne di casa e gli hanno strappato la borsa. Avevano capito che non è povero e che poteva avere con sé qualcosa di valore. Per quanto sia vecchio, in effetti non ha l’aria bisognosa. Sappiamo tutti e due come risparmiare e sappiamo dove nascondere i soldi.

È successo cinque anni fa. Una settimana fa, invece, sono entrati nel nostro palazzo e in due appartamenti sullo stesso piano hanno portato via tutto. Tutte le possibili umane cose di valore. Di questi tempi, non resta che piangere.

Al piano sopra il nostro viveva un uomo, grande, grosso, burbero e serio, non diceva mai una parola. Sono riusciti ad abbindolare anche lui, e pure a seppellirlo. Gli inquilini del nostro palazzo hanno raccolto i soldi per il funerale.

Dicono che io e il vecchio ce la siamo cavata. Adesso a casa non teniamo niente. Io e lui non abbiamo niente. E se anche fosse, non lo terremmo in casa. E comunque, non c’è nulla.

Meglio non pensare, meglio dimenticare.

Sull’amore

Chi ha detto che si possono innamorare di me? Lei mi ama o non mi ama? Poco tempo fa mi sono comprato un completo a Kiev, vicino alla piazza Lev Tolstoj. Un completo così, in Ucraina, ce l’hanno in pochi. Il panno sostiene la figura, sottolinea le forme naturali. Si stende bene sul petto e non forma piegoline sulle spalle, cade morbidamente fino ai polsi. Chi ha dimostrato recente bravura nel fare i soldi, chi se li fa frusciare in tasca mentre infila nei pantaloni una camicia lussuosa, un completo così non se lo sogna nemmeno. Io so scegliere, guardo l’oggetto da ogni lato, e noto le cose che gli altri non vedono. Gli altri si lasciano facilmente attrarre e vuotano il portafogli come si vuoterebbe il sacco in un confessionale.

Non ho comprato questo vestito per i giorni di festa, non per le occasioni speciali, o per un appuntamento: me lo si può vedere addosso tutti i giorni, la mattina al lavoro, nei reparti della fabbrica, tra le scrivanie degli impiegati, nell’irraggiungibile ufficio del direttore. Un vestito essenziale.

Arrivo sempre a bordo della mia Mercedes, per evidenti ragioni di rappresentanza. Scendo dall’auto pieno di energie, un po’ contrariato ma speranzoso, e mi presento al lavoro alle dieci, mai prima, preciso come un orologio. Non devo niente a nessuno. Guardo le cose con concretezza e con esperienza.

Lei arriva alle otto, tiene la borsa sotto il braccio e la stringe a sé, un po’ ingobbita, pallida. Qualche volta vacilla, come se fosse appena rientrata dopo una malattia, cammina sull’erba, o sulle nostre aiuole. Ho coltivato per loro non solo l’erba ma anche i fiori, i gerani, l’amaranto piumoso, che rende più bello il giardino della fabbrica, e loro lo calpestano. Avevo pensato anche a un prato all’inglese, ma non so se ne vale la pena: loro non camminano sull’asfalto e tagliano per il prato, così fanno prima. Arrivano sempre in ritardo, anche l’ultimo attimo di sonno per loro è prezioso, oppure vince la pigrizia. Che cosa possiamo avere in comune? Ormai non mi stupisco più di niente. E lei è così trascurata, non ha un paio di sandali che non siano sformati. Non ha tempo di farsi un vestito da sola, così ne compra ogni tanto uno al mercato, ma quelli non si possono chiamare vestiti. Non riesce a dire più niente di sensato, non ha chiarezza di pensiero, ha perso la sua arguzia. Una volta, mi ricordo, ragionava con spirito combattivo, ma adesso, come a tutte loro, la testa le gira sempre a vuoto. Giorno e notte pensa ai conti da pagare, luce, acqua, libri di scuola, vacanze. Una vera rapina. Se ti vortica in testa sempre lo stesso pensiero, per forza diventi stupido.

Tra l’altro, io questa fabbrica potrei anche chiuderla, a che cosa mi serve se non dà profitto? E quanto può lavorare un uomo? Non posso mettere nessun altro a dirigerla, e comunque io non sono peggio di altri.

Ma un’utilità dalla nostra catena di montaggio la ricavo. Verso sera, quando non ho nemmeno il tempo di girarmi, e sono sollecitato da tutte le parti, e tutti mettono fretta a tutti, e la quota di produzione va completata, solo in quel momento lei si lascia andare. Mi dirigo alla scrivania passando per le due file di cucitrici, e la vedo.

La vedo immersa nel lavoro, non si accorge di niente intorno a sé, come se fosse lei sola nel mondo intero, come se la polvere della lana, i fili, i frammenti di tessuto fossero enormi brandelli di cielo, nuvole alle quali rivolgere un sorriso. O forse il sorriso è per me? Come posso saperlo? Ho pensato alla catena di montaggio in ogni dettaglio, tutto si muove in un cerchio ininterrotto. No, non è vero. La catena di montaggio è una invenzione crudele e insensata. Forse l’invenzione più terribile che sia mai stata concepita dalla mente umana. Non è stato ancora inventato niente di più spaventoso.

Lei esegue l’impuntura longitudinale, la collega alle sue spalle la sollecita, bisogna andare più in fretta, quella davanti ha già finito e lei non ha tenuto il ritmo, in realtà lo ha tenuto, è una delle mie operaie più esperte, ma quella davanti è comunque due volte più veloce e adesso è ferma e non può completare il lavoro pianificato. Rimarrà senza paga se non finisce la sua parte. Allora l’altra si affretta e nella premura fa un errore. E adesso non potrà andare a casa, non potrà farlo nessuna delle due.

Gli errori costano, correggerli è complicato. L’altra, che cuce velocemente, adesso è obbligata a stare ferma, ma è impaziente, vuole uscire alle quattro e mezzo, alla fine del turno. Oppure aveva in mente di andare via addirittura alle quattro, se fosse riuscita a finire? Poniamo che io le cambi posto: cucirà male perché è abituata a fare sempre lo stesso pezzo. E non è un mio compito stabilire le posizioni, è il caporeparto che le deve assegnare. Il lavoro di ognuna dipende da quello della precedente. Ma anche da lei stessa, dal suo spirito di iniziativa, dal suo scrupolo, dalla sua personalità. Insomma, comunque la si metta, quel che si merita è la paga minima.

E voi, brava gente, voi mi chiederete, come fa a finire di cucire la sua parte se l’altra cucitrice non le passa il primo pezzo pronto? A questo pensiero impazzisco, soffoco, mi si secca la gola. Non ho quasi più aria da respirare. E tutta questa produzione dipende da me soltanto. Tu puoi tagliarti le mani e forarti gli occhi, ma la tua collega non può cucire più in fretta di così. Quella collega a malapena riesce ad arrivare al lavoro, trascina a malapena le gambe, alla fine del turno deve rimanere un’altra ora per finire di cucire la quota minima. A nessuno importa, le operaie sono anelli di una catena, una catena di montaggio che ho voluto io per incrementare l’efficienza della fabbrica.

È un sistema elementare ma sfugge alla comprensione. L’ho creato io ma, come un bambino, cerco di capire meglio il funzionamento dell’intero processo. Per voi estranei, un ottimo esempio potrebbe essere quello della donna a sei braccia. Abbastanza alta, pienotta, sotto i sessanta. Ha le labbra dipinte e i capelli ondulati, sulle unghie tracce di smalto rosso. Riesco a considerarla attraente perché anche io non sono più un ragazzo. Detto questo, a chi può interessare che quattro delle sue mani lavorino più lentamente delle altre due? Mettiamo che quelle quattro mani siano più esperte, che compiano meno errori e svolgano un lavoro di maggiore qualità. Come contabilizzare l’insieme del suo lavoro? Non riesco a capirlo! Ecco io devo risolvere questo tipo di problemi. È il mio ruolo! E nessuno, nessun altro può farlo al posto mio. La donna a sei braccia riceve uno stipendio calcolato sulla base delle quattro mani lente. Ma ce ne sono altre due, veloci, abilissime! Perfino le loro unghie sono adunche perché possano manovrare il filo più in fretta. Ma posso io appigliarmi a quelle mani come termine di paragone? Posso aggrapparmi a quelle mani? No, non posso, sono scivolose, coperte di crema idratante. Le altre quattro sono più esperte.

Il lavoro non è facile, lo riconosco, ma io non ho bisogno di loro. Ne ho abbastanza. Sempre le stesse richieste, le stesse lamentele.

Potrei fare a meno di tutto. Si dice che ciascuno di noi muore da solo. È saggio, e mi piace. Significa che ciascuno è responsabile per se stesso. Ma potrebbe voler dire anche l’opposto. Ciascuno è responsabile per tutti gli altri. Dipende da dove guardi. Io non voglio morire da solo. La tredicesima, le gratifiche. Ho offerto di tutto. Tredici unità di produzione su un solo cappotto. Ho preparato tutto, in accordo con il contabile, ho organizzato la politica sociale della fabbrica. Un medico di primo intervento apposta per loro. Giorni di ricevimento: il martedì e il giovedì, chiamare e dire che è da parte di Vladimirovič.

Ci sono direttori di fabbrica che hanno allestito altri scenari, mettendo le brande accanto ai telai: un turno di operaie dorme e l’altro lavora, e poi il contrario. Il primo lavora, il secondo dorme. Si pranza e si cena nella mensa, un piccolo intervallo alla televisione, e poi di nuovo al lavoro. A casa solo nei giorni di festa.

Il confronto poteva essere un’arma a mio vantaggio e ho indetto una riunione, verso sera. «Sarebbe più comodo, no?» ho detto e ho visto che loro mi guardavano, ma non erano d’accordo. Ormai gridavo: «Alzerò gli stipendi! Li alzerò», ma loro non dicevano niente e guardavano da un’altra parte. Sono arrivate qui tanto tempo fa, qualcuna per un paio di mesi, qualcuna solo per provare, poi sono aumentate, sono affluite con la corrente delle cucitrici. Anche io nuoto nella corrente delle cucitrici. Forse in testa alla corrente?

Come si dice da noi: «Non è venuto dalla strada, è cresciuto alla scuola della fabbrica».

Un gesto eroico

Non intendo lamentarmi, anche se la mia età lo consentirebbe.

Dico solo che, se oggi i prezzi rincarano, ci si può arrangiare a trovare soluzioni che compensino la differenza con il passato.

Io ho provveduto a me stessa in diversi modi, spesso con successo.

Una volta mi è stato chiesto di occuparmi di una parente che stava per morire, una vecchina in un letto immenso dentro un piccolo appartamento di una sola stanza che lei aveva deciso di intestare ai suoi ingrati nipoti di Kiev.

Non ero nessuno per loro e non capivo perché si fossero rivolti a me, ma non ha importanza.

Piccola, e tutta linda grazie alle mie cure, se ne stava nell’enorme letto, guardava il soffitto e si preparava a partire per un altro mondo.

Io sedevo alla destra del letto, rincalzavo il lenzuolo, accomodavo il cuscino e aspettavo.

I nipoti e i figli non mi dimostravano nessuna gratitudine. Non potevano venire da noi perché dicevano che a Avdiivka li avrebbero arrestati.

Una sera, la sera in cui è accaduto il fatto di cui parlerò, la malata si è svegliata e, con una vocina sottile, mi ha detto: «Apri l’armadio dove ci sono i libri, in basso c’è un cassetto con le calze, cerca quelle bianche e srotolale».

Ho capito subito che le calze nascondevano qualcosa. Ho aperto l’armadio, ho cercato il cassetto e poi, nel cassetto, le calze bianche. Erano foderate di spugna morbida, belle calze, di qualità, arrotolate una nell’altra, le ho separate e ho infilato la mano in una delle due. In fondo c’era una piccola icona d’oro, un ciondolo pesante, con la Santa Matrona su uno sfondo vermiglio. Si sa che la Santa Matrona porta fortuna e felicità ed esaudisce i desideri segreti.

Mi sono messa subito in tasca la piccola icona e sono tornata al letto della morente. La vecchina era distesa con gli occhi aperti e sembrava che stesse pensando a qualcosa, ma non si accorgeva di me. Per controllare, le ho premuto il dito indice sulla fronte, e lei è rimasta immobile. Riflettevo sul da farsi, pensavo alla piccola icona che avevo in tasca e che, per mia generosità d’animo, intendevo mandare in regalo ai nipoti di Kiev, anche se loro non avevano mai reso visita alla nonna e si limitavano a dare vuoti consigli a distanza.

Riflettevo, quando all’improvviso la finestra ha scricchiolato e si è aperta, nella stanza è entrata una folata di vento umido, la luce si è spenta, e sul davanzale è apparsa la fisionomia tonda e crudele dell’angelo della morte. Dalle narici gli usciva un vapore grigiastro, roteava gli occhi e corrugava la fronte in piegoline nervose. Ho subito infilato la mano nella tasca con la Santa Matrona.

Ma l’angelo non si è diretto verso la morente per assolvere i suoi compiti, si è slanciato su di me e ha appoggiato la mano sulla mia tasca. Premeva con tutte le sue forze e cercava di tastare l’icona. Io resistevo con la mano infilata nella tasca, la tasca era cucita di sbieco, non vi dico in che punto. Accanto al letto della morente si è svolta una scena poco dignitosa.

Non mi arrendevo e non estraevo l’icona, lui ha infilato la mano e cercava sempre più in fondo. Gli ho lanciato un’occhiata per dirgli di guardare la vecchietta che stava per morire, ma il figlio di puttana continuava a starmi addosso. Rizzava le penne e mi trapanava con lo sguardo. Non so per quanto tempo abbiamo lottato. Io facevo un passo avanti e lui ne faceva un altro. Io mi piegavo da un lato, e lui faceva uguale. Non ho ceduto. E all’improvviso mi sono accorta che era sparito, non c’era traccia di quello che era successo, ero da sola, tranquilla, in cucina davanti al fornello con il bollitore. Con la mano tremante ho controllato la tasca: l’icona era al suo posto, pesante e calda. Sono corsa nella stanza, la vecchina era seduta sul letto e cercava le pantofole. Guarita.

I nipoti non sono venuti da Kiev nemmeno in quell’occasione, ma sono stati contenti.

Mi hanno lasciato tenere la piccola icona. Mi hanno detto grazie per aver liberato e salvato la loro nonna.

Hanno saputo dimostrare la loro gratitudine. Se penso a quale prezzo sono diventate mie molte cose nella vita, non c’è da stupirsi che mi siano care.