BREVE DICHIARAZIONE SULLATTESA

Vado alla fermata della metropolitana Zoloti Vorota per incontrare una mia vecchia conoscenza che, negli ultimi tempi, mi tratta con arroganza.

Andreja è capace di telefonarmi, poi di non farsi sentire per una settimana, dopodiché magari chiama due volte (e intendo due nel giro di un’ora), infine sparisce per un mese. Ma la sua arroganza non consiste in questo. Ad esempio, può capitare che, nel corso di una passeggiata, butti lì: «Sì sì, certo, me l’avevi detto, ma non mi aveva fatto alcuna impressione…». Ecco, tanto per dare un’idea! Certe cose non passano inosservate e la memoria non le cancella così facilmente.

Mi ricordo che una volta stavamo camminando per strada, lei fissava un punto sopra gli alberi, quasi non udisse le mie parole, e poi, all’improvviso, interrompendomi, annunciò di colpo: «Che estate afosa, non si riesce a respirare». Detto ciò, si mise a sbadigliare, come se fino a quell’istante non le avessi raccontato nulla, malgrado io parli in maniera assolutamente chiara, coerente e ricca di contenuti. Che solitudine insopportabile provi a volte in sua compagnia! Ovviamente, capita pure a me ogni tanto di conversare da sola; in quei casi, se un’interlocutrice interviene nel flusso dei miei pensieri con un’osservazione, ho l’impressione che abbia interrotto il nostro dialogo, anche se in realtà ha rotto soltanto il mio silenzio. Ma non era questo il caso, lo giuro! E sopportare una simile ingiustizia è impossibile, soprattutto quando sai che stavi parlando ad alta voce, contando sull’attenzione di una persona che incontri soltanto di rado.

Ma non è solo questo: a volte succede anche che siamo sedute al bar, Andreja mi sorride e, in realtà, si fa beffe di me. Oppure mi passa accanto senza salutarmi e poi sostiene che l’ha fatto per non disturbarmi.

Un altro suo stratagemma: le dico che desideravo tanto incontrarla, lei mi dice qualcosa scherzando e io rido, non perché abbia voglia di ridere, ma perché mi vergogno e mi dispiace. Allora lei dice immancabilmente qualcosa di caustico sulla mia risata: che è stridula, oppure che è “russa”, o “ucraina”… Una volta mi ha detto che la mia è proprio una risata di Leopoli, rifiutandosi di spiegare perché.

Eppure, dopo ogni uscita infelice, trascorso qualche tempo, acconsento sempre a rivedere Andreja. Il fatto è che, pur non essendo amiche da molto, ormai la conosco a fondo. Lei è magnanima, addirittura magnifica nella sua bontà. Una volta, davanti ai miei occhi, ha raccolto dall’asfalto un uccello morto e se l’è portato a casa, per occuparsene. Certi suoi gesti sono per me un esempio che cerco di imitare.

Ed era stata proprio la sua nobiltà a spingermi verso il luogo del nostro ennesimo incontro. Mi ero presentata alcuni minuti dopo rispetto all’orario fissato, per dimostrarle che anch’io so arrivare in ritardo, ma al contempo premurandomi di non farla aspettare troppo. Però lei non c’era. Che cosa speravo di ottenere, mentre mi preparavo al nostro appuntamento, calcolando preventivamente di quanto avrei tardato?

Rimasi seduta per un po’ sul parapetto tiepido di sole, alle spalle del quale si elevava il contrafforte verde di Zoloti Vorota. Faceva caldo. Tutt’intorno, nei raggi smorti del sole, c’erano persone in attesa, molti però pian piano si allontanavano insieme a coloro che avevano aspettato. Non me n’ero accorta, ma erano già passati venti minuti. In realtà, mezz’ora.

Tra coloro che, come me, non si muovevano dallo spiazzo antistante l’uscita della metropolitana, c’erano alcune personalità piuttosto curiose che, all’apparenza, non attendevano nessuno. E se anch’io fossi venuta qui così, per passare il tempo? pensai. Questo mi avrebbe salvato dalla situazione incresciosa in cui mi trovavo. Seguendo tale ipotesi, non solo non sarei arrivata prima della mia conoscente, ma addirittura avrei ignorato l’eventualità di un nostro incontro, capitando qua per altri motivi, incomparabilmente più importanti.

Non lontano da me, sul fazzoletto di marciapiede davanti alle porte di vetro, c’era un uomo con alcuni grossi sacchetti di plastica; si nascondeva dietro i sacchetti, come stesse sbirciando da un muro lungo e basso. Indossava un informe abito grigio nel quale sprofondava letteralmente. Talvolta si chinava per trasferire piccoli cartocci accuratamente confezionati da un sacchetto all’altro. I sacchetti erano verdi e giallo limone. Anch’io avrei potuto tranquillamente starmene lì così, con gli stessi identici sacchetti tra le mani.

Ma, per mettermi nei suoi panni, dovevo addentrarmi nei particolari, capire, vederci chiaro: qual era lo scopo della sua permanenza all’uscita del metrò e quanto sarebbe durata.

«Buongiorno!»

Lui, per tutta risposta, fece finta di non aver sentito. Ripetei: «Buongiorno!».

«Be’, buongiorno» disse sottovoce, quasi fra sé.

«Mi fa piacere vedere che non aspetta nessuno.»

«Cosa?»

«O forse non è così?»

«Non capisco.»

«Presumo di immischiarmi in affari che non sono miei, ma vorrei chiarire un aspetto connesso all’attesa. Come spiegarle? Lei è qui, all’uscita del metrò, pienamente autosufficiente, trascorre il tempo qui, per così dire. Anche se, guardandola, si capisce che saprebbe dove andare. Con lei ha una marea di cose, quindi, molto probabilmente, non è povero. E di sicuro non è più un bambino, ha una famiglia. Forse è uno stimato professionista, tant’è che la attendono al lavoro perfino a quest’ora di sera, perché lei è insostituibile. Eppure è venuto qui, a ingannare il tempo su questo spiazzo non esattamente pulito, esposto ai quattro venti. Ha tutto il mondo davanti, e ciononostante è proprio qui – solo, ma senza lamentarsi del suo destino, senza tradire insofferenza –, resta immobile e non si guarda neppure troppo intorno. Non si può dire che sia venuto qui solamente per osservare quanto accade o i passeggeri del metrò che si affrettano verso casa. Gli innamorati non li guarda, le donne non le nota neppure. Proprio per questo la sua figura, il suo portamento così sicuro, forse anche il suo sguardo, suscitano tanto la mia curiosità. Vorrei sapere che cosa esattamente l’ha portata qui. È probabilissimo che non ci sia sotto alcun motivo personale, potrebbe trattarsi piuttosto dell’attesa di un miracolo, diciamo, di qualcosa di ignoto e misterioso?»

«Vedo che lei mi ha capito benissimo. Per la prima volta in vita mia mi è capitato di imbattermi in una persona che mi ha compreso al primo sguardo, senza bisogno di parole. Sì, ogni tanto vengo qui, più volte alla settimana, mi metto all’uscita del metrò e non aspetto nessuno. Soltanto qui mi si presenta l’occasione di pensare a ciò su cui vorrei riflettere da una vita, pur avendo sempre rimandato tale momento. Soltanto qui posso essere me stesso, abbandonarmi alle fantasie più inaudite e sfrenate, senza che nessuno mi sbarri la strada o che indovini che cosa faccio realmente. Anche se a dir la verità ultimamente non me la sento di dilapidare il tempo che passo all’uscita del metrò in riflessioni simili, per quanto importanti. Mi trovo qui, una parte del mio corpo sfiora l’asfalto attraverso la suola, il mio sguardo fissa un solo punto, in pratica, ma ogni tanto, ecco, sposto leggermente la testa e poi la riporto nella posizione originaria. Mentre sto fuori dal metrò ai miei occhi si profilano le visioni più incredibili, cose inconcepibili e sorprendenti diventano visibili. Mentre quelle banali e quotidiane, al contrario, scompaiono dal mio campo visivo e si dileguano nell’oscurità alla sua periferia. Alla fine ogni volta arriva un determinato momento – e mai che io me ne vada senza averlo aspettato – in cui questi sacchetti che, come vede, sono appoggiati qui accanto a me, questi enormi, giganteschi sacchetti colorati, gonfi di tutto il necessario per la vita, e persino per la morte, tutto l’indispensabile per i miei affari più vantaggiosi e per i miei scambi più fortunati, insomma, a un certo punto questi involucri cominciano a illuminarsi tutti. Dapprima a rischiararli è il fioco splendore giallastro delle comuni lampadine, poi la luminescenza bianca, straordinariamente pura, dei LED, meravigliosa per perfezione e ricchezza di sfumature. Solo quando la luce inizia a pulsare a un ritmo lievemente frenetico, capisco che posso andarmene, ma che potrei anche restare in attesa degli avvenimenti successivi, il cui pensiero mi precipita sempre in un misto di ansia e confusione, sebbene non possa fare a meno di tentare di immaginarmeli. Oggi a causa sua ho infranto la mia regola principale, e cioè attenermi a un principio di assoluta – non ho paura di servirmi di questo termine – crepuscolarità: ecco come i miei conoscenti definiscono la mia condizione. Però la prego, mi consenta di tornare al più presto a osservare tale norma. Lo ammetto, non posso più concederle neanche un minuto, malgrado la sua sagacia mi abbia davvero commosso. Deve lasciarmi solo, fosse pure l’unica persona sulla Terra in grado di condividere con me questa permanenza e di comprendere la mia immensa gioia, il mio iniziale spavento. Non posso correre il rischio di perdere questa serata. Perché è assai verosimile – o meglio, non posso escludere tale eventualità – che lei non sia quell’unica persona, non lo sia mai stata e mai lo diverrà.»