Ombre sulla prima notte

Medina era tesa. Quand'è che lei e Malik avrebbero avuto una stanza tutta per loro? L'usanza voleva che la suocera la arredasse in segreto. Il pezzo forte dell'arredamento sarebbe stato un grande arazzo. Doveva essere pregiato, grande abbastanza da ricoprire l'intera parete dietro il letto. Questi arazzi erano l'orgoglio di ogni donna di casa. Erano enormi: più grandi erano, meglio era. Almeno quattro metri per tre. Al momento erano di moda quelli con le tonalità del verde e del marrone scuro con fiori beige. In questa stanza venivano portati anche i regali di matrimonio: la passatoia, i piatti, i bicchieri, gli elettrodomestici – tutto ciò che serve per iniziare una nuova vita. Solo la suocera poteva decidere quando la coppia poteva prendere possesso della stanza. Se la sposa si dimostrava obbediente e laboriosa, allora la coppia poteva insediarsi presto.

A Belgatoi era stato un giorno triste. Nessuno osava parlare ad alta voce, meno che mai sorridere. Medina avvertiva in maniera palpabile il dolore che era calato su tutta la casa. Suo suocero era attaccato al telefono e faceva una telefonata dopo l'altra, poi andò via con la macchina, e al suo ritorno, si riunì in consiglio con gli altri uomini. Infine fece la sua comparsa Samail Dshabrailov, il capoclan.

Medina aveva sentito parlare molto di lui ed era curiosa di vedere che aspetto avesse. Che delusione. Tutt'altro che un colosso. E senza papacha quell'ometto magro che, per la tensione, spingeva il mento in avanti, sarebbe stato ancora più basso. Il capoclan aveva le guance ricoperte da una fitta barba, bianca come la neve. Aveva occhi azzurri, di un colore slavato e opaco. Attraversò il cortile strascicando i piedi, si sfilò le scarpe davanti alla porta di casa e prese posto in soggiorno.

Medina aveva il compito di servire carne, pane, pomodori. Più tardi ancora avrebbe dovuto servire il tè con i biscotti. E così ebbe più volte l'opportunità di osservare da vicino questo personaggio così importante.

In segno di saluto l'anziano l'aveva squadrata per un attimo dalla testa ai piedi, in fin dei conti era nuova, in casa, e il suo matrimonio era stato interrotto dalla tragica notizia. «Allora sei tu, la moglie di Malik. Bene, bene.» Medina trasalì nell'udire la sua voce. Aveva un timbro così forte che sembrava impossibile potesse provenire da un ometto così piccolo. Annuì con il capo chino, sentì il sangue affluirle al viso. Non profferì parola. Il capoclan tirò fuori il suo orologio da tasca. Maneggiò l'orologio fino a far scattare il coperchio, lanciò uno sguardo al quadrante. La riunione in casa dei genitori di Malik era una delle tante che lo attendevano.

Quando Medina ebbe posato il tè sul tavolo, il suocero le fece capire che poteva allontanarsi: volevano restare soli.

Le donne attendevano in silenzio in cucina. Evitavano persino di incrociare lo sguardo. Sapevano che stavano per essere prese decisioni importanti. Il capoclan avrebbe affidato a uno degli uomini vicini a Magomed il compito di vendicarlo. Gli altri avrebbero dovuto raccogliere il denaro e scovare i soldati russi che tenevano nascosto il suo corpo. Così il padre di Magomed avrebbe potuto seppellire il proprio figlio. Probabilmente il padre di Malik gli avrebbe dato una mano.

Quasi certamente il compito più difficile sarebbe toccato a Malik. Il fatto che si fosse appena sposato non contava proprio niente. Contava di più che fosse il migliore amico di Magomed e che fra i due vi fossero vincoli di parentela, pur se alla lontana. Medina non osava nemmeno pensare ciò che, da tempo, per sua suocera era quasi una certezza. La giovane coppia non era certo stata baciata dalla fortuna.

La porta si aprì. Gli uomini accompagnarono il capoclan fino alla porta del cortile. Quando il suocero e il marito di Medina tornarono indietro non dissero una sola parola. Il suocero fece un cenno di assenso alla moglie, che si premette un fazzoletto contro la bocca e scappò via. Malik, all'ingresso, pallido come un cencio, teneva le labbra serrate e si fissava i piedi.

Medina sentiva le lacrime che premevano per uscire, ma le ricacciò indietro con tutte le sue forze. Sentiva di non avere alcun diritto di manifestare i propri sentimenti. Probabilmente i suoceri avrebbero perso il primogenito maschio. Cosa poteva mai contare il dolore di una moglie?

In quel momento Medina avrebbe dato l'anima per prendere fra le braccia il marito. Le faceva una gran pena. Ma avrebbe avuto bisogno di essere consolato e compatito proprio da lei? Da sua moglie? Fino a questo momento non l'aveva toccata nemmeno una volta. In presenza d'altri le manifestazioni di tenerezza erano rigorosamente tabù.

Medina avrebbe voluto andare dalla suocera, ma il padre di Malik le sbarrò la strada. «Lasciala stare, non disturbarla, ora.» Il vecchio aveva parlato a voce bassa, la sua voce era poco più che un sussurro. Anche per lui era difficile restare composto e non abbandonarsi al dolore. Mentre si voltava per andar via aggiunse, rivolgendosi a Medina: «Andate nella vostra stanza, vi chiamerà presto».

Medina esitò un momento di fronte a suo marito, ma lui le voltò le spalle e uscì. Medina si sentì sola e sperduta in quella casa in cui, ora, al dolore per la perdita dell'amico di famiglia, si aggiungeva anche il timore per Malik, un timore che serrava la gola a tutti.

Medina ed Hejda furono contente quando la suocera entrò nella stanza e affidò loro il compito di cucinare la cena per gli uomini.

Le sorelle si affrettarono in cucina. In silenzio prepararono il brodo di pollo con le patate. Non osavano parlare e, quando proprio non potevano farne a meno, bisbigliavano.

Dopo aver apparecchiato la tavola, Medina, con voce esitante, chiamò gli uomini. Le sorelle lasciarono la sala da pranzo e aspettarono nel corridoio, vicine alla porta, pronte a servirli in caso le avessero chiamate. Quando gli uomini ebbero finito, anche le donne poterono cenare. La suocera non toccò praticamente cibo. «Andrà tutto bene, vedrai», esordì, rivolta a Medina, ma dal tono di voce si sentiva che non ne era affatto convinta. Le sue parole, che nell'intenzione avrebbero dovuto tranquillizzare la nuora, sortirono l'effetto contrario. Medina era sempre più preoccupata. Le sorelle attendevano con impazienza il momento in cui la donna le avrebbe rispedite nella loro stanza, e si sarebbero ritrovate da sole.

«Deve vendicarlo?» chiese Hejda.

«Credo di sì. Così ho capito. E anche lui. Avresti dovuto vederlo. Credo che abbia una gran paura. Di certo non ha ancora ucciso nessuno.»

Hejda esitò prima di fare la domanda successiva, ma si fece coraggio. «Che succede, se muore? Cosa succede allora?»

«Hejda, sarò vedova. Allah avrà voluto così.»

«Non hai paura?»

«Tanta. Ma non bisogna mostrarla, lo capisci? Non siamo più bambine.»

Udirono un leggero rumore. Una piccola pietra aveva colpito il vetro della finestra. E poi un'altra ancora.

«Apri la finestra, cosa aspetti?» Hejda esortò Medina, che si avvolse velocemente un foulard attorno al capo, si mise uno scialle di lana sulle spalle per coprire alla meglio la camicia da notte e aprì la finestra. L'aria pungente della notte entrò nella stanza. Medina sussurrò qualcosa che Hejda non capì. Poi ridacchiò. Chiuse la finestra, era raggiante.

«Devo andare.» Medina, in preda all'agitazione, camminava avanti e indietro nella stanza. «Cosa devo mettermi? Non ho niente. Non mi guardare così.»

Hejda scoppiò a ridere. «Corri intorno come un pollo spaventato. Sbrigati, invece, sennò se ne va. Mettiti l'abito arancione, lui non l'ha ancora visto. Sbrigati.»

Medina ridacchiò, si tolse in fretta la camicia da notte facendola passare dalla testa, mise le calze e infine scivolò nel vestito. Hejda l'aiutò con la chiusura lampo. Quando Medina prese le scarpe che erano ordinatamente in fila sulla soglia della porta, si bloccò e fissò Hejda con i suoi grandi occhi. «Domani mattina lo sapranno tutti. Mia suocera guarderà il lenzuolo. Mi sento male all'idea.»

«Medina, cosa ti succede? Queste cose le sai da tempo. Non sei la prima sposa a vivere la sua prima notte di nozze. Non ci pensare, va' felice incontro a tuo marito. È un bravo marito, ora va'!»

Medina le lanciò un ultimo sguardo, era combattuta fra il timore e la gioia. Poi sgattaiolò fuori e subito dopo Hejda la sentì ridere sommessamente davanti alla porta. Era felice per Medina e comprendeva benissimo la sua apprensione. Era contenta che non fosse ancora arrivato il suo momento. Di avere ancora tempo, per prepararsi alla vita da moglie. Ma se i suoi genitori lo avessero voluto, e se seguivano l'ordine di nascita, la prossima sarebbe stata proprio lei.

 

Malik condusse Medina in una stanza della casa che lei non conosceva. Si trovava sulla parte posteriore. Era spoglia, ma in una piccola stufa brillava il fuoco. Faceva caldo in quella stanza buia, illuminata solo dalla luce del cortile che filtrava attraverso le tende sottili. Malik la spinse dolcemente dentro, la raggiunse alle spalle e la baciò sul collo. La fece avanzare fino al letto, le girò intorno e le tolse il foulard. Poi cercò la cerniera lampo e le sfilò il vestito. A ogni indumento che toglieva le baciava la pelle nuda. Le sue mani esplorarono le sue spalle, i suoi fianchi, scesero sul ventre e risalirono fino ai seni. Non aveva fretta, era delicato e non parlava. Lei sentiva che lui tratteneva il fiato e le soffiava l'alito caldo sulla pelle. Il cuore le batteva fino al collo.

Gli chiese dolcemente: «E tu, non vuoi spogliarti?».

«Fai tu.»

Lei tirò fuori la camicia dai pantaloni, slacciò i bottoni. Quando anche lui non ebbe più nulla indosso, si rifugiarono sotto le coperte, restarono distesi, avvinghiati, fino a quando le dita di lui non ripresero a esplorarla. Sembrava che avesse dieci mani, Medina sentiva il suo tocco leggero dappertutto, come se lasciasse una traccia, come se le sue dita lasciassero una scia di fuoco.

 

Al mattino seguente Medina tornò nella sua stanza. Un attimo prima era entrata la suocera e aveva sorriso con complicità a Hejda. La ragazza scrutò attentamente il volto della sorella. Quella notte l'aveva cambiata? Si vedeva che ora era diventata una donna? Aveva le guance rosee, gli occhi le brillavano, era tranquilla e composta. Hejda cercò di catturarne lo sguardo, ma Medina si divertiva a sfuggirle.

«Dai, racconta.»

«Non so cosa vuoi sapere. Non c'è proprio niente da raccontare.»

«Non essere cattiva, in fondo sono tua sorella. La tua adorata sorellina. Dimmi solo se è stato brutto.»

«Normale.»

«Normale bello o normale brutto?»

«Normale e basta.»

«Non sapevo che la prima notte trasformasse in una capra!»

«Lasciami in pace, non capisci proprio niente.»

«Beehee, beehee.» Hejda belava come una capretta. Poi abbracciò la sorella maggiore e le baciò i capelli.

Medina le tenne la mano. «È stato bello. Te lo racconto più tardi. Promesso.» Non ne voleva ancora parlare perché temeva che quella meravigliosa sensazione, una volta rivelata, si sarebbe frantumata in tanti pezzetti. Almeno per un po' voleva gustarsela, tenerla solo per sé. Fino a quando il ricordo non le avesse portato alla mente altri dettagli, fino a quando non avesse più sentito quel dolce formicolio nel ventre, rivivendo ogni singolo istante. Solo allora lo avrebbe raccontato a Hejda. Ma ci sarebbe voluto molto, molto tempo.

«Come ha reagito lei?», "lei" era la suocera di Medina.

«Ha tolto velocemente il lenzuolo, lo ha preso e poi ha parlato dei tappeti. Durante la notte ha nevicato; dobbiamo batterli nella neve fresca.»

«Meglio che se avesse fatto commenti. Quand'è che potete trasferirvi nella vostra nuova stanza?»

«Ha detto presto. Credo oggi stesso o al più tardi domani.»

«Ma non avete tempo da perdere. Dovete sfruttare il poco che gli rimane prima di partire. Posso andare a casa o vuoi che resti ancora qui?»

«Quando ci trasferiamo nella stanza è meglio se riparti.»

«Ti vengo a trovare, se posso. Mi dici tu quando posso venire, va bene?» Hejda sentiva che il cuore le diventava pesante. Ciò che per molto tempo aveva rimosso, ora la colpì con forza: la separazione dalla sorella. Medina era diventata una moglie e aveva la propria famiglia. La loro infanzia era finita e, quindi, anche il tempo in cui avevano condiviso ogni cosa.

La suocera entrò nella stanza. «Vieni colombella. Ora facciamo colazione e poi portiamo fuori i tappeti.»

Medina uscì, Hejda la seguì, ma la suocera la trattenne. Ora mi dirà che devo andare a casa, pensò. Invece le bisbigliò: «Oggi non dovete fare molto. Lei deve trascorrere il suo tempo con Malik. Forse non gliene rimane molto, chi lo sa. Se a lei fa piacere averti qui, puoi restare. Non ci disturbi. Ma lascia che sia lei a decidere, va bene?».

Hejda fu sorpresa, ma si sentì rassicurata. Medina si sarebbe trovata bene in quella casa. Lei sarebbe ripartita. Aveva capito ciò che aveva inteso prima sua sorella. Quel pomeriggio avrebbe chiesto a Malik di riportarla in auto fino ad Assinovskaia. Il tragitto era breve.

 

Anche Hejda venne accolta dalla madre sulle scale, come già Raissa prima di lei. Malik salutò con rispetto la suocera, ma si accomiatò subito e ripartì. Lo guardarono allontanarsi. L'auto bianca, che il giorno del matrimonio era tirata a lucido e addobbata a festa, ora era solo schizzata di fango.

All'andata avevano trovato pochi posti di blocco. Malik sperava di fare ritorno a Belgatoi senza problemi, così da potersi occupare di Medina.

La madre sembrava preoccupata. «Come sta?»

«Bene, mamma. Non ti preoccupare. Le vogliono bene. Si trova bene.»

«Mi fa una tale pena. Cosa succederà ora? Cosa succede se il prossimo è lui? Sono così giovani.»

«Mamma, smettila, andrà bene.»

«Se Dio vuole.»

La madre trattenne Hejda nell'ingresso. «Abbiamo di nuovo qualcuno qui.»

«Ancora? Ma non si finisce mai!»

«Hejda, sta' zitta e smettila di lamentarti. E poi tu non devi averci niente a che fare. È compito di Raissa. È lei che si deve occupare di lui. Non andare giù. I tuoi fratelli non vogliono che veda troppi di noi.»