Vendetta di sangue

Durante la notte Raissa aveva deciso che il mattino seguente avrebbe dato il libro a Dmitri, anche se lui non glielo aveva più chiesto. Era sempre molto riservato e cortese e la ringraziava con un inchino per ogni pasto che gli portava. Di lei non aveva più paura. Era l'unica che andava da lui, i fratelli non si erano fatti vedere e Raissa non poteva che esserne contenta.

Con molta cautela, facendo bene attenzione a non sembrarle curioso e a non ferirla, di tanto in tanto Dmitri le chiedeva cosa ne pensasse di quella guerra. «Perché rapite proprio i giornalisti? Se ci impedite di fare il nostro lavoro, il resto del mondo non può sapere ciò che succede realmente qui. Non vi rendete conto di quanto danneggiate la vostra causa?»

Raissa sapeva che aveva dannatamente ragione. Tuttavia rispose sgarbatamente: «Perché per voi ci danno più denaro».

«Ma queste storie orribili di teste mozzate e di smembramenti di corpi certo non attirano simpatie alla vostra causa, al contrario. Sono queste le storie che raccontano i russi, quando parlano di voi. E i fatti dimostrano solo che hanno ragione loro. Chi sarebbe disposto a dichiararsi solidale con voi?»

«Chiedilo ai miei fratelli, se proprio Io vuoi sapere.» In cuor suo Raissa sperava che non sarebbe stato così stupido da farlo. Non gli rivelò i propri timori. Invece lo attaccò ancora, perché si sentiva disperata: «E che mi dici dei russi che vengono a prendere i nostri uomini che, con tutta probabilità, non faranno mai più ritorno a casa? Ed è normale, secondo te, che violentino e strangolino una ragazza di diciotto anni, solo perché sospettano che sia una tiratrice scelta? E che poi tentino di occultarne il corpo facendola seppellire dai soldati, com'è successo a Elsa Kungaieva?».

Raissa sapeva di essere stata ingiusta, perché lui non intendeva affatto dire quello. Il piccolo buriate con la barba rada non cadde nella trappola e, guardandola con occhi stanchi, ribatté con tono di rimprovero: «Sei troppo intelligente per fare queste domande. Inoltre sai perfettamente che era stato proprio un generale russo ad accusare il colonnello dell'armata. Persino sua moglie aveva testimoniato in tribunale contro i suoi eccessi violenti e i suoi soldati si erano rifiutati di seppellire il corpo della ragazza».

A Raissa dispiaceva aver fomentato quel battibecco. Tolse il libro dalla cintura della gonna e glielo porse: «Conoscerai già tutto, di sicuro eri bravo a scuola».

«Grazie per aver cercato. Nona classe? Letteratura russa? Vediamo un po' che effetto fa, rileggerlo dopo tanto tempo. È il tuo libro?»

«Sì, c'è anche Tolstoj, Chadzi-Murat.» 

«Non ti piace la storia?»

«Perché? Cosa te lo fa pensare?»

«Perché lo hai detto con tono cattivo.»

«Sciocchezze.»

«Allora ti piace la storia?» «Sì.»

«Anche se l'ha scritta un russo?» Voleva provocarla un po'.

«Già, anche se l'ha scritta un russo, guarda un po'!»

«Bene, allora abbiamo almeno una cosa in comune.»

«Non credo proprio», disse Raissa, che fece per andarsene. Avevano parlato fin troppo.

«Quando viene tuo fratello?»

«Fai troppe domande», e se ne andò.

Raissa mise i piatti nel lavandino e passò davanti al soggiorno, dove Hejda e sua madre, col naso in su, guardavano il televisore. Era un bene che la TV fosse a volume così alto, perché le scale della cantina scricchiolavano. Non voleva incontrare nessuno. Si distese sul letto, prese il Corano e iniziò a sfogliarlo. Lo leggeva con sempre maggiore facilità. Conosceva a memoria il libro con l'alfabeto arabo. Non andava più nella madrassa, aveva finito tutti i corsi. Ora avrebbe potuto diventare insegnante nella scuola coranica e insegnare l'arabo alle ragazze. Ma non aveva ancora preso una decisione. Le lingue le imparava con facilità. Se solo avesse potuto usare un po' l'arabo, parlarlo con qualcuno, o addirittura visitare un paese di lingua araba… ma l'Arabia Saudita le faceva paura. Lì le donne avevano ancora meno diritti che in Cecenia, dove era ancora viva l'influenza russa e le donne potevano studiare e lavorare.

Raissa sognava di diventare insegnante di inglese. Le piaceva la lingua, anche se conosceva solo poche parole. Le piaceva stare con i bambini. Non l'aveva mai detto a nessuno. Se suo fratello Achmed ne fosse venuto a conoscenza, sarebbe sbottato in quella sua perfida risata che lei proprio non sopportava. Meglio che non lo sapesse. Medina, dal canto suo, non avrebbe mai potuto capire. Era una tipica cecena. Ubbidiente fino alla morte. Anche Hejda. Come facevano ad accettare così passivamente il principio che gli uomini sono migliori delle donne? Sì, lo sapeva anche lei che questo era un insegnamento del Corano, ed era ciò che le donne anziane avevano inculcato loro sin da bambine. Ma lei proprio non ci riusciva ad accettare questi dogmi senza ribellarsi. Soprattutto se pensava a suo fratello Achmed. Ovviamente c'erano uomini degni di rispetto, ma nella maggior parte dei casi le risultava difficile riconoscere questa superiorità.

Più Raissa rifletteva, più si infuriava. Tirò fuori dalla tasca la corda per saltare e fece ben duecento salti senza saltelli intermedi. Riprese fiato. Il cuore le batteva in gola, le venne mal di testa, ma continuò. Quando la corda si impigliava rimetteva in ordine le estremità con un moto di impazienza e continuava a saltare. Centottantadue, centottantatré… novantotto, novantanove, duecento. Buttò la corda in un angolo e si lasciò cadere sul letto. Aveva il respiro affannoso. Pian piano sentì che il polso si calmava.

 

Prese i pesi. Erano di ghisa, vecchissimi. Lo strato sottile di colore scuro era quasi completamente consumato. Li aveva trovati nella rimessa e se li era portati di nascosto in camera sua. Quando le sorelle non c'erano li tirava fuori da sotto il letto e si allenava. Stendeva le braccia lateralmente all'infuori e sollevava i pesi fino a formare un angolo retto. Cinque chili per ciascun braccio erano troppi, per quell'esercizio. Ma Raissa aveva voglia di torturarsi. Continuò. Lasciò un peso, si inginocchiò sul ginocchio destro, mise in avanti il sinistro, piegato ad angolo retto. Appoggiò la mano sinistra sulla coscia. Con il braccio destro, rivolto all'indietro, sollevò il peso verso la spalla. Questo movimento serviva a rafforzare i muscoli posteriori della parte superiore del braccio.

Prima a destra. Poi a sinistra. Alla fine si impose di fare trenta esercizi per i bicipiti. Raissa avvertiva il proprio corpo, la propria forza.

Le sarebbe piaciuto molto fare qualcosa di utile con questa sua forza, avrebbe fatto volentieri qualcosa che la mettesse alla prova, che la stimolasse. Le sarebbe piaciuto essere un bojevik, un lottatore. Perché diamine era nata donna?

Afferrò ancora una volta la corda. Ancora duecento salti. Ma questa volta sbagliava più spesso. Però li fece tutti. Il cuore le batteva all'impazzata, si sentiva stremata ma almeno, adesso, era un po' più tranquilla. Quando il respiro tornò normale scese di nuovo in soggiorno. Hejda e sua madre erano ancora sedute con il naso incollato alla TV.

All'improvviso udirono arrivare un'auto. Hejda corse alla porta, poco dopo rientrò con un'espressione grave. «Hanno riavuto il corpo di Magomed. Lo hanno sepolto. Malik è partito.»

La madre sapeva bene quel che sarebbe potuto accadere a Medina. Ben presto sua figlia avrebbe potuto fare ritorno a casa, ma da vedova.

 

Afferrò il foulard e, con passi strascicati, si diresse in cucina. Iniziò a lavare i piatti. Poco dopo non si sentì più alcun rumore. Nella casa scese il silenzio. Raissa andò pian piano in cucina per vedere cosa era successo. Sbirciò attraverso il vetro del terzo riquadro della porta e vide sua madre seduta lì, ricurva, davanti al forno di argilla. Raissa sgattaiolò via, sapeva che non doveva disturbare sua madre, non voleva guardare la maschera di coraggio e controllo che avrebbe indossato velocemente sapendo che lei era lì.

 

Dalla notizia della morte di Magomed, Malik non s'era più fatto la barba. Agli uomini con meno di quarant'anni era tassativamente proibito portarla. Era considerata un segno distintivo della dignità che solo esperienza e saggezza possono conferire. Chi porta la barba non può mentire, non può bere, non può fumare. Se la può tagliare solo per volere "divino". Solo chi è impegnato nella jihad, nella guerra santa, può farsi crescere la barba prima dei quarant'anni. E Malik era in guerra. Gli era stato affidato il compito di vendicare la morte del suo amico, che era anche figlio del migliore amico del padre. Era un problema di onore per entrambe le famiglie.

Non aveva salutato nessuno. Anche questo faceva parte del rituale. Niente e nessuno poteva far vacillare chi aveva il mandato di compiere la vendetta, meno che mai poteva trattenerlo. Perciò tutti si erano allontanati da Malik, per dimostrargli la propria solidarietà. Nelle ore che avevano preceduto la partenza aveva pregato le cinque volte prescritte, ma in maniera ben più intensa. Sperava e pregava di avere abbastanza coraggio e forza per portare a termine il proprio compito. Aveva rimosso completamente qualsiasi pensiero relativo al "dopo". Non mangiò e non bevve più, indossò il maglione più caldo che aveva sotto la giacca di pelle foderata di pelliccia, e si allacciò un paio di robusti stivali con spesse suole di gomma. Infilò le gambe dei pantaloni negli stivali, come i guerrieri. Calcò in testa il berretto di lana che rendeva ancora più pallido il suo volto cui la barba, conferiva un aspetto sinistro.

Malik cambiò tre volte auto e autista, poi proseguì a piedi. Penetrò nel luogo dove era stato tenuto il cadavere per più giorni. Era convinto che gli assassini di Magomed fossero anche gli stessi che avevano preteso il denaro per restituirne il corpo.

Regnava ancora l'oscurità. Si riconoscevano solo le sagome dei pioppi spogli che svettavano contro il cielo. Il viale era interrotto da una strada secondaria. La strada portava al campo dei russi, che, invece, era ben illuminato. L'accampamento era decisamente modesto rispetto alle grandi basi militari lungo la provinciale per Grosny. Non c'era una piattaforma d'atterraggio per gli elicotteri. In compenso, c'era una lunga fila di carri armati con i cannoni puntati tutti nella stessa direzione. L'ingresso del campo somigliava a un comune posto di blocco. Montagne di sacchi di sabbia accatastati, lastre di cemento bianche e nere disposte ad angolo in modo che rimanesse solo uno spiraglio per sparare. Dietro, un recinto di filo spinato e tende mimetiche.

Erano da poco passate le cinque, mancavano ancora due ore all'alba. Malik si avvicinò furtivamente al margine del campo che, stranamente, era protetto solo da filo spinato. In giro non c'erano sentinelle. O stavano nascoste dietro alle feritoie, oppure dormivano. Tipica negligenza dei russi.

L'oscurità era dalla sua, tuttavia non abbassò la guardia. Si avvicinò al campo strisciando sul ventre. Con il suo kinschal, un pugnale ritorto, tagliò le maglie inferiori della recinzione, e sgusciò dentro. Una volta passato dall'altro lato pensò bene di allargare il buco perché, forse, anzi con tutta probabilità, al ritorno, in fuga, avrebbe avuto meno tempo. Si avvicinò furtivamente alla prima tenda e tese l'orecchio. Gli uomini russavano.

All'improvviso vide una pattuglia. A dire il vero era un solo soldato, imbacuccato in una spessa uniforme invernale e armato di kalashnikov, che ispezionava i corridoi fra le tende. Malik, girando intorno alla tenda successiva, gli si avvicinò di soppiatto alle spalle, lo afferrò con il braccio sinistro e, con la destra, gli puntò il coltello alla gola. Con un sussurro gli intimò dì non dare l'allarme. Il soldato era poco più che un ragazzino. Dalla testa rasata il berretto cadde nel fango, gli occhi scuri da bambino erano pieni di terrore. Era impietrito. «Chi di voi ha ucciso Magomed?»

La risposta fu un gorgoglio incomprensibile. Malik allentò la presa, ma premette la punta del coltello contro la gola del soldato. Questi si spaventò ancora di più, fu preso dal terrore. «So solo chi aveva il cadavere. Erano nella tenda tre. Nessuno poteva entrare per via del cadavere. Lo hanno tenuto un paio di giorni, ma non so chi glielo ha dato.»

«Dov'è la tenda tre?»

«Là davanti, prima fila.»

Malik gli passò la lama sulla gola, il giovane gli scivolò dal braccio e cadde pesantemente al suolo. Montò sul corpo senza preoccuparsene e si avvicinò di soppiatto alla tenda tre. Dalla tasca dei pantaloni estrasse una bomba a mano, tolse la sicura e la gettò attraverso un lembo di stoffa che fungeva da finestra. Malik fece per correre via, ma inciampò in un picchetto e non riuscì a rialzarsi in tempo. L'esplosione squarciò il silenzio del mattino.

La granata aveva dilaniato sei uomini. I soldati russi, che osservavano ciò che restava dei loro compagni nella tenda distrutta, trovarono poco distante anche Malik e il giovane soldato russo, morto.

Malik era gravemente ferito, gli sanguinava la testa. Nonostante le ferite lo sollevarono e lo trascinarono nel campo. Lo gettarono in una buca, coperta da una grata di fortuna. Congelava. Serrò i denti. La temperatura era rigidissima, si appiattì ancora di più contro il terreno, dal quale spuntavano delle radici scure, che sembravano una ragnatela.

Malik aveva chiuso gli occhi e vedeva se stesso correre insieme a Magomed, con la sua figura imponente. Rideva. Aveva percorso la strada del villaggio a tutta velocità in sella a una bicicletta. Quando scansava le buche, storceva talmente il manubrio che un paio di volte stava quasi per perdere l'equilibrio. Gli occhi di Magomed brillavano di allegria, rideva ancora più forte e sollevava in alto il mento. Quanto aveva ammirato Malik questo gesto fiero dell'amico. Poi si vide mentre ballava insieme alla sua sposa, vestita con l'abito bianco. Si chiese come fosse possibile: non aveva mai ballato con Medina. Sentì i suoi capelli sulla guancia, la baciò sul collo. Un senso di benessere si impadronì di lui. All'improvviso una luce abbagliante oscurò le sue immagini. Malik perse conoscenza.

Quando più tardi riaprì gli occhi vide Medina, avvolta in un pesante foulard di lana, nella sua giacca imbottita di pelliccia. Era in alto, sopra il margine della buca, e lo fissava. Non sorrideva, continuava a fissarlo tremando. Aveva le labbra blu. Perché era così triste? Perché non era contenta di rivedere il suo adorato marito? Non avevano appena smesso di ballare…? Malik non capì più nulla. Non era nemmeno in grado di pensare. Aveva molto freddo. Desiderava solo dormire.

 

«Questo figlio di puttana è tuo marito?» Un ufficiale russo la strattonò per il braccio così rudemente da farle quasi perdere l'equilibrio e farla cadere nella buca. La tirò per i capelli, ma gli rimase in mano solo il foulard, che gettò via, furente.

«Lo sai cosa facciamo ora a questo porco wahhabita? Guarda!» Fece un cenno ai due soldati che gli erano accanto e questi, prese delle taniche, versarono benzina nella buca.

«Nooooooo!», urlò Medina. «Questo non potete farlo! No!»

«Chiudi il becco, puttana! Questo cane ha ucciso sette dei nostri.»

Stese la mano e uno dei soldati gli porse uno straccio. Quando il superiore gli accostò il suo accendino, la miccia, imbevuta di benzina, prese immediatamente fuoco. La gettò nella fossa, troppo rapidamente perché Medina, aggrappata al suo braccio, potesse fermarlo. Con un moto di rabbia lui la spinse lontano. Medina cadde a terra e urlò con tutte le sue forze nella buca «No!» Ma le fiamme erano già alte e lambirono anche lei.

Medina cercò di scivolare oltre il bordo della fossa. «Tu sporca puttana resti qui. Ti piacerebbe cavartela così!» L'ufficiale l'afferrò per la giacca con entrambe le mani e la spinse un po' indietro. «Indietro!» Rabbiosamente la colpì alla schiena con lo stivale, contro la spalla e ancora ai reni. Medina non sentì nemmeno i calci, fissava le fiamme e continuava a urlare «No!» Cercò di raggiungere di nuovo il bordo della fossa. «Piantala stronza! Portate via questa puttana di una terrorista!»

La riportarono a casa dei suoceri a bordo di una jeep militare. Scese dalla macchina con il volto sporco di fuliggine, con gli abiti imbrattati, i capelli sciolti e senza velo. Si muoveva meccanicamente, come un automa, come una marionetta priva di vita. I soldati se ne andarono senza dare spiegazioni. Ci avrebbe pensato la nuora a raccontare quello che aveva fatto quel cane di suo marito e il prezzo che aveva pagato.

Medina si lasciò condurre in casa, si fece lavare dalla suocera, si lasciò cambiare d'abito e mettere a letto. «Lo hai visto? È vivo? È morto? Lo hanno ucciso? Ti hanno toccata?» Nessuna delle domande che la suocera le faceva giungeva alle sue orecchie. Non si riusciva a cavarle una parola di bocca. Nessun segno, nessun cenno. Nulla.

La suocera le rimase accanto. Doveva sapere cosa era successo al figlio.

«Medina, parla!» Medina era distesa sul letto con gli occhi spalancati, continuava a fissare sempre lo stesso punto del soffitto. La suocera le afferrò il braccio con tutte e due le mani e la scosse: «Cosa gli è successo?».

Medina si girò verso il muro. «Bruciato», sussurrò con un fil di voce.

«Che vuol dire bruciato? Cosa è bruciato?», la suocera si chinò su di lei, temendo di perdere le parole successive.

«Nella fossa», Medina si raggomitolò.

Il padre entrò nella stanza. «Ha detto qualcosa?»

«Sì, ma non capisco cosa significhi. «Bruciato – nella fossa», ha detto. Cosa significa?»

Il padre si avvicinò al letto. «Cosa significa "bruciato nella fossa"? Abbiamo il diritto di sapere cosa gli è successo. Siamo i suoi genitori. Guardami. Parlo con te!»

Faticosamente Medina si alzò. Girò il volto verso il suocero.

«Hanno dato fuoco a Malik nella fossa.»

La madre iniziò a tremare dalla testa ai piedi. Si lasciò cadere sulla sedia accanto al letto di Medina. Le sue dita giocherellavano con il grembiule, poi con il fazzoletto. Infine si coprì il volto con entrambe le mani. Il marito le dette qualche colpetto affettuoso sulla testa e uscì dalla stanza con passi pesanti.

Il giorno seguente il suocero riportò Medina ad Assinovskaia.

 

Medina sembrava morta. Defunta. Senza vita. Come suo marito, che aveva appena iniziato ad amare.

La madre e le sorelle non fecero trapelare i propri sentimenti quando il padre di Malik depose la valigia e la cassa del corredo davanti alle scale di casa. Lo invitarono a bere il tè, ma lui rifiutò. Tutte e quattro guardarono l'auto allontanarsi lungo la strada del villaggio e imboccare la provinciale. Poi portarono i bagagli in casa. Quando ebbero richiuso la porta, la madre prese la figlia fra le braccia. Hejda abbracciò l'adorata sorella e sua madre. Raissa rimase in disparte, non osava avvicinarsi a loro.

Il suo sguardo incrociò quello di Medina. Raissa disse: «È bello riaverti qui». Poi si rese conto di quanto fosse inopportuna la sua frase. «Cioè, non volevo dire, ma qui a casa… insomma hai capito.» Pareva che Medina non vedesse e non sentisse niente. La sua pelle diafana sembrava di vetro e lei appariva ancora più fragile del solito. Era bellissima. Forse ancora più bella di prima. A Raissa tornò in mente la frase russa, che non aveva mai compreso e che perciò aveva sempre attribuito alla stupidità dei russi: «Il dolore rende belli». Ora lo constatava con i propri occhi.

Le donne si recarono in cucina. Raissa mise la pesante pentola d'acqua sul fornello e accese il fuoco. Tagliò il pane bianco ancora caldo che aveva tolto dal forno non appena il suocero era andato via.

Porse a Medina il cozzetto croccante e le venne in mente quante volte avevano litigato per averlo. Garbushka, il cozzetto, era la parte più buona del pane. Ma solo fino a quando era caldo e fresco. L'altro, quello all'altra estremità della pagnotta, lo davano ai polli.

Medina non reagì, non ne mangiò nemmeno un pezzettino, né bevve. Si muoveva come se fosse stata in trance.

«Lo hai visto un'ultima volta?», le chiese la madre.

Oltre al fatto che Malik era morto, non sapevano altro.

Medina annuì quasi impercettibilmente. Come se si stesse risvegliando lentamente da un sogno, guardò sua madre. Faceva ancora fatica a fissare lo sguardo sul suo volto. Ma voleva dire qualcosa.

«Nella fossa. Lo hanno bruciato.»

Le donne si guardarono perplesse. Nessuna parlò. Attesero che fosse Medina a parlare.

Il velo invisibile si squarciò. «Forse era già morto, forse era solo svenuto. Lo hanno cosparso di benzina davanti ai miei occhi e gli hanno dato fuoco. Non ha urlato.» Medina posò la testa sul tavolo. Le braccia penzolavano inermi. Le spalle cominciarono a sussultare e finalmente, finalmente Medina scoppiò in lacrime.

La madre tirò fuori il fazzoletto dalla manica del pullover e si asciugò gli occhi. Raissa deglutì.

«È già stato sepolto?» volle sapere ancora la madre.

Medina scosse la testa. «Non hanno ancora il suo corpo.»

«Andrai al funerale?»

«Mio suocero non vuole, dice che non è adatto a una futura madre.»

Le donne trattennero il respiro. «Sei forse…?»

La madre non osò proseguire, Medina la guardò in silenzio negli occhi. La donna si ricompose: «Sei sempre mia figlia, e tuo figlio è il benvenuto. Lo cresceremo insieme». Con un gesto goffo carezzò la figlia sulla guancia.

Hejda strinse la mano di Medina e le posò la testa sulla spalla. Avrebbe amato il piccolo come se fosse stato figlio suo. Questo era certo.

 

Anche se Medina abitava di nuovo in casa, era Raissa che continuava a occuparsi dell'ostaggio. Di tanto in tanto Dmitri le chiedeva dei fratelli, voleva sapere da cosa dipendeva la sua liberazione, se si muoveva qualcosa. Era sempre più emaciato. Non c'era da meravigliarsi. Da mesi non vedeva la luce del giorno, da mesi non respirava aria fresca. Raissa non poteva portarlo all'aperto. Nonostante la simpatia che provava per lui, non voleva correre rischi. Achmed non avrebbe esitato a ucciderla, se se lo fosse fatto scappare.

Raissa non parlò più con nessuno in casa. Non voleva inquietare sua madre con i suoi pensieri confusi. Per la maggior parte del tempo Medina se ne restava seduta in silenzio su una sedia ed Hejda le stava sempre al fianco. Non riusciva ad avvicinarle. Le restava solo Dmitri. Proprio l'estraneo! Qualche volta lui la pregava di raccontargli gli usi e i costumi dei ceceni. Le sue domande sembravano non avere mai fine. Soppesava ogni informazione, faceva ulteriori domande e voleva sempre sapere cosa ne pensava lei dei rituali, delle regole, delle leggi.

Spesso non aveva una risposta per le sue numerose domande. Perché quando le zie e le cugine insegnavano come si doveva comportare una ragazza cecena, era tassativamente vietato fare qualsiasi domanda. Fare domande veniva considerato un segno di ribellione e per questo non solo si rischiava di essere rimproverate, ma persino di essere picchiate. Raissa, tuttavia, aveva sempre cercato di trovare delle spiegazioni. Da tempo non ricordava più tutte le norme. E ora si arrabbiava perché non riusciva a difenderle davanti a Dmitri, a spiegargliene il senso. In cuor suo, però, la pensava come lui. Per avere la pace, bisognava interrompere l'eterno cerchio di vendetta e morte. Tuttavia non riusciva ad ammetterlo davanti a lui, a un non ceceno. Si sentiva sempre su un terreno scivoloso. Era sempre più lacerata, non riusciva a capire quale fosse il suo posto, il suo ruolo. Le sarebbe piaciuto essere un combattente, lassù sulle montagne… sì, le sarebbe proprio piaciuto. Ma starsene lì a casa e tenere prigionieri degli innocenti?

La sera in cui era ritornata Medina, Dmitri le aveva chiesto se la macchina che aveva sentito arrivare era per lui. Raissa non rispose. Senza profferire parola gli mise davanti il piatto con la cena e lasciò la cantina. Il giorno dopo se ne pentì. Che colpa ne aveva lui? Non era nemmeno russo. Gli portò il pane e il tè dolce, e nella cintura della gonna aveva nascosto un sacchetto di biscotti. Gli occhi di Dmitri erano colmi di gratitudine. «È successo qualcosa? Avete avuto visite? Sono venuti i tuoi fratelli?» I suoi occhi tradivano la paura.

«No, no», rispose frettolosamente. La sua angoscia la faceva star male. «È tornata Medina.»

«Chi è Medina?»

«La mia seconda sorella. Si era sposata.»

«Perché dici era? Suo marito l'ha ripudiata?»

«Come ripudiata? Come ti viene in mente? No.» Raissa distolse lo sguardo, sentiva già un nodo in gola. Dmitri taceva. Quando lo guardò di nuovo, le chiese: «Per quale motivo è tornata a casa? Credevo che una figlia sposata non tornasse più a casa dei genitori».

«In guerra succede di tutto.»

«È morto?»

«Diciamo pure così.»

«E come si direbbe esattamente? O non ne vuoi parlare?»

Quella sera Raissa non aveva il foulard, ma un berretto da baseball calcato all'incontrario, con la visiera all'indietro. Per la prima volta lui vide quanto erano lunghi i suoi capelli, che le scendevano lisci e folti sulla schiena. Il berretto e i gesti mascolini rappresentavano un contrasto stridente con i suoi bei capelli. Era sempre così scontrosa… Anche quando era soltanto seria e non arrabbiata, corrugava sempre le sopracciglia. Bastava questo semplice gesto per farle rabbuiare il viso. Anche la T-shirt larga e i pantaloni della tuta color kaki sembravano avere un solo scopo: nascondere la sua femminilità.

Dmitri vide che era profondamente turbata. Si rosicchiava le unghie ed era immersa nei propri pensieri. Attese, di tanto in tanto la guardava e intanto sgranava il rosario fra le dita. All'improvviso Raissa sobbalzò e, come se volesse rimediare ai momenti trascorsi in ozio, iniziò a far roteare velocemente il mazzo di chiavi attorno al dito. Dmitri temeva che le potesse sfuggire e cadere, con un tonfo, da qualche parte. Si tolse il berretto da baseball, lo rimise con la visiera nel verso giusto e si accovacciò per terra. Con le spalle appoggiate alla porta, iniziò a parlare. In poche parole gli raccontò cosa era successo. Lui ascoltava e, di tanto in tanto, faceva qualche domanda. Alla fine ne seppe abbastanza da farsi un'idea precisa. Risparmiò la lezioncina sulla vendetta di sangue perché si rendeva conto che Raissa soffriva già abbastanza per quanto era successo.

«Cosa farà ora Medina?»

«Non lo so. Per quaranta giorni deve osservare il lutto, poi deve prepararsi per un nuovo matrimonio. Il padre o il fratello maggiore decideranno se può vivere in casa. E al momento non ci sono, né l'uno, né l'altro. Forse deciderà Achmed.»

«È Achmed che mi ha…?»

Annuì con un rapido gesto.

«Quando viene?» Raissa era consapevole che Dmitri non lo chiedeva solo per interessarsi del destino della sorella.

«Chi lo sa? Arrivano all'improvviso e se ne vanno via subito.» E qualche volta torturano anche gli ostaggi che teniamo qui, aggiunse tra sé e sé. «Hai letto il libro?»

«Sì, ma mi piacerebbe tenerlo ancora un po'. Posso?»

«Vuoi impararlo a memoria?» Raissa sbottò in una risatina. Per la prima volta, quella sera, il suo viso si illuminò. Dmitri pensò che avrebbe riso più spesso se avesse saputo come diventava carina e, soprattutto, se avesse avuto più spesso motivi per farlo. Era come se qualcuno accendesse una luce e illuminasse i suoi occhi. Le guance rotonde erano graziose, sembravano quelle di una bambina. Ma, forse, visto quanto era brusca, non voleva affatto essere carina.

Raissa gli augurò la buona notte e risalì le scale.