Viaggi in autobus a Grosny

In estate il padre tornò definitivamente dai Kazakistan. Aveva raggiunto da tempo l'età della pensione e non gli rinnovarono più il contratto; forse, per la prima volta, viveva insieme alla moglie. Erano una coppia anziana e silenziosa, che non aveva più il comando della propria casa perché da tempo chi dettava legge era Achmed, il loro secondogenito.

Dopo diverse settimane Medina ed Hejda si recarono qualche giorno in visita ai genitori. Sulla gioia di riabbracciare le figlie si stendeva l'ombra dell'incertezza. Sarebbero scomparse presto di nuovo. Raissa cercò di cavar loro di bocca qualche informazione sui commando di vedove. Ma loro tacevano. Si chiudevano in se stesse, leggevano, pregavano, ascoltavano le canzoni dei martiri, che a Raissa facevano paura. Che avevano subito una profonda trasformazione lo capì dai fatto che tutte e due si alzavano al mattino presto per andare a correre. Proprio loro, che si erano sempre prese gioco della sua passione per lo sport.

Tuttavia nemmeno lo sport riuscì a ravvicinare le tre sorelle. Medina ed Hejda lasciavano che Raissa le prendesse in giro, ma non davano nessuna spiegazione. Vivevano nel loro mondo, non avevano più un posto in famiglia.

Quando si accomiatarono, dissero che sarebbero andate a Osmaniurt per accudire la nonna. Il padre se ne rallegrò. Da tempo era preoccupato per sua madre: le sue sorelle si prendevano cura di lei, ma l'anziana donna era ormai alla fine. Se anche qualcuno della sua famiglia avesse dato una mano, lui avrebbe avuto meno rimorsi nei loro confronti. La moglie e Raissa provavano pietà per lui, per la sua ingenuità. La moglie si guardò bene dal togliergli quell'illusione. Non era difficile, in fin dei conti in casa si parlava poco.

L'unica persona con la quale Raissa poteva ancora parlare era Dmitri. Ma anche lui, con il trascorrere del tempo, si faceva sempre più silenzioso. Di tanto in tanto Raissa gli aveva portato di nascosto dei quotidiani. Li aveva recuperati quando era andata dalle autorità a Grosny per avere il suo passaporto e per riscuotere la pensione dei genitori. Trovava sempre dei validi motivi per recarsi nella città bombardata. Vedeva con i propri occhi quanto era difficile per gli abitanti sopravvivere fra le rovine. A volte raccontava a Dmitri di questi suoi viaggi. Lui conosceva bene Grosny, le chiedeva di alcuni posti, di alcune strade. Lei gli descriveva la città, come era diventata.

Lo spettacolo più triste era la Piazza Minutka, poco distante dal centro. Conosceva bene quella piazza circondata da case. Al centro, c'erano dei caffè. Uno si trovava a livello quasi sotterraneo, dove sbucava il sottopassaggio per i pedoni, e uno era in superficie. Dal caffè che si trovava in superficie si poteva vedere l'altro che stava giù, di fronte, come da una galleria. Quante volte aveva sentito nell'aria il profumo invitante dello schaschliki, grigliato sul carbone di legna.

Oggi la piazza era un immenso cratere. La donna che sedeva accanto a lei nel pullman le aveva raccontato che nel sotterraneo, dove prima c'era il caffè, durante i combattimenti erano state ammucchiate montagne di cadaveri. Sin dalla prima guerra entrambe le fazioni – ceceni e russi – si erano scontrate con estrema violenza, combattendo per settimane casa per casa, strada per strada. All'inizio della seconda guerra i combattimenti si erano concentrati nella piazza, pur se era già solo un ammasso di macerie.

I civili erano fuggiti da un pezzo. Il luogo, un tempo brulicante di vita, era stato distrutto sino alle fondamenta. I pannelli prefabbricati erano crollati come fossero stati di carta e le grandi lastre di cemento creavano montagne di macerie, non troppo alte, dalle quali spuntavano di tanto in tanto ferri arrugginiti. Gru di un cantiere svettavano nel cielo in un'angolazione strana, come se si fossero fermate nel bel mezzo di una rotazione. I bracci di carico penzolavano verso il basso, come se qualcuno all'improvviso avesse staccato loro la corrente. Oppure erano spezzati come fiammiferi e scuriti dalla ruggine.

Quando l'autobus attraversava la città fino al mercato centrale, passavano davanti a palazzi di dieci piani. Sembrava che da questi si fossero staccati angoli giganteschi. Tuttavia, in mezzo alle facciate piene di buchi, di tanto in tanto si scorgeva una finestra adornata da una tendina, con fiori sul davanzale. Un timido tentativo di riportare in vita una parvenza di normalità e di amore per la casa in quel desolato paesaggio di morte. Tutti i palazzi erano in quelle condizioni, Sembrava che sulle loro facciate si fossero accaniti apprendisti tiratori di cannone. Al posto delle finestre ora c'erano soltanto buchi, come orbite vuote di un teschio che fissavano il paesaggio circostante. In tempo di pace vi si affacciavano cucine dove venivano preparati appetitosi blini sottili, quasi trasparenti. Camere da letto dove venivano concepiti bambini, dove si accudivano neonati e vecchi, dove si smaltiva la fatica del giorno, dove si combattevano solo gli incubi. C'erano bagni dove, come in tutti i bagni del mondo, gli spazzolini da denti dei bambini restavano asciutti perché nessuno controllava mai se se li erano lavati per davvero, dove si stendevano i panni e si riponevano secchi e strofinacci.

Ai piani devastati, un tempo, abitavano madri, padri, bambini. Se fra loro si nascondessero dei terroristi o dei separatisti, nessuno lo poteva sapere. E con ancora minore certezza si sarebbe potuto dire in quale abitazione avevano vissuto, ammesso e non concesso che fossero mai stati lì. La città sventrata era la prova che l'operazione russa "contro il terrore" non era altro che una guerra contro la popolazione civile, punita perché alcuni dei suoi membri si erano uniti a separatisti e terroristi.

Durante i suoi tragitti in autobus fino a Grosny, Raissa veniva a sapere di bambini che, giocando sul pianerottolo distrutto, erano caduti nella tromba delle scale. Ogni volta tornava sempre più amareggiata, ben sapendo quanto fossero attesi tanto lei, quanto il giornale. Dmitri sembrava rinascere quando, dopo questi viaggi, poteva farle qualche domanda. In quei momenti tornava a essere curioso, sveglio. Ascoltava con attenzione, non si lasciava sfuggire il benché minimo dettaglio e restava colpito dalla portata della distruzione che, a quanto pareva, era proseguita dai tempi del suo ultimo reportage.

 

Finalmente Achmed diede ordine a Raissa di nutrire meglio l'ostaggio. Ma non mise piede nemmeno sulle scale della cantina. Aveva una fretta indiavolata, si sentiva braccato, il che per Dmitri fu una fortuna. Il giornalista finalmente ebbe la possibilità di lavarsi e di riabituarsi alla luce del giorno. A quanto pareva le trattative per la sua liberazione erano sul punto di concludersi.

Una notte Achmed arrivò insieme ad alcuni estranei. Ordinò a Raissa di andare a prendere Dmitri in cantina. Gli intimò di salire sull'auto degli sconosciuti; tutte e due le auto ripartirono, Raissa era molto preoccupata. Erano in procinto di liberarlo, oppure la sua prigionia sarebbe continuata in un altro luogo? Col capo incassato tra le spalle, come se da un momento all'altro si aspettasse un colpo alla nuca, Dmitri aveva percorso i pochi metri del cortile e poi si era voltato, impaurito, verso di lei.

Come fu felice Raissa, alcuni giorni dopo, quando ascoltò alla televisione le parole della madre di lui. Era medico a Sachalin e i suoi pazienti ie avevano riferito che, dopo tanti mesi di prigionia, suo figlio era ancora vivo e in buona salute. «Il mio terribile figlioletto dalla barba ispida», disse abbracciandolo davanti alla telecamera. Gli dette dei buffetti sulle guance e lo rassicurò che, per prima cosa, lo avrebbe rimesso in forma. Aggiunse anche che non avrebbe accettato obbiezioni, in fin dei conti aveva appena fatto dieci ore di volo da Sachalin a Mosca. Il figlio, dal carattere docile, venne letteralmente travolto dalla sua energica madre.

La donna mostrava molto di più la propria origine buriate rispetto a Dmitri, i cui occhi erano nascosti dagli occhiali. Gli occhi di sua madre erano neri, a mandorla, luminosi nelle guance morbide. Dmitri sedeva accanto a lei, aveva un sorriso sperduto e giocherellava ininterrottamente con il rosario, come faceva anche a casa di Raissa. Solo che adesso sembrava essersi trasformato in un tic. Anche il suo sbattere le palpebre era aumentato tanto. Per il nervosismo, per la stanchezza o a causa della tensione dei mesi di prigionia?

Avevano avuto appena il tempo di salutarsi, ma entrambi erano consapevoli di quanto, nei mesi appena trascorsi, avevano avuto bisogno l'uno dell'altra, di quanto si erano reciprocamente aiutati. Ciascuno a modo suo, nel pieno rispetto dell'altro. Entrambi erano certi che la verità su questa guerra fosse nel mezzo e che non c'erano solo russi corrotti, ladri e assassini, così come non c'erano solo ceceni di una brutalità inaudita, che non indietreggiavano davanti a nessuna forma di violenza, e per i quali nessuna vita era sufficientemente preziosa da essere risparmiata.