Nel cuore del nemico

Movsar fece numerose telefonate in quei giorni. La primavera era stata breve e gli alberi si erano rapidamente ricoperti di foglie. Ora faceva caldo, ma grazie all'altitudine, era sopportabile. Per la maggior parte del tempo Movsar restava seduto davanti al portatile, oppure parlava al cellulare, ma per farlo doveva uscire dalla grotta, perché al suo interno non c'era sufficiente campo.

La linea col Qatar divenne rovente. Telefonava spesso a Movladi Udugov, uno dei loro maggiori strateghi, con cui, anche in passato, aveva mantenuto contatti regolari. In particolare quando si trattava di commentare gli attacchi più recenti. Non di rado ritrovava le sue stesse parole sulla loro pagina web, parole che aveva pronunciato poco prima al telefono.

Ma ora non telefonava più soltanto a Udugov, bensì anche a Iandarbiev. Zelimkhan Iandarbiev aveva un piano, del quale lo metteva a parte poco alla volta. In un primo momento aveva impartito solo ordini parziali. Movsar doveva mettere insieme un esercito di donne. C'era bisogno all'incirca di venti vedove nere. Perciò doveva servirsi di tutte quelle che si trovavano al momento al campo e doveva reclutarne altre. Le giovani donne avrebbero preso parte a un'azione di cui avrebbe parlato tutto il mondo.

Ecco finalmente qualcosa per Movsar. Era un uomo orgoglioso e voleva dimostrare di essere in grado di motivare i guerriglieri. Fino a quel momento era stato semplicemente il nipote di Arbi. Questa era la sua grande occasione. Ed era anche un qualcosa di veramente nuovo, di straordinario, che la sua prima missione importante fosse alla testa di un gruppo di donne. Si riprometteva di instillare loro la consapevolezza che sarebbe stato un grande onore andare in battaglia con lui. Le vedove avevano tutte più o meno la sua età. Non sarebbe stato difficile.

Era un bell'uomo, alto, qualche capello grigio cominciava a crescere sulle tempie, ma era ancora nel pieno vigore. A venticinque anni non aveva ancora perduto la vitalità della gioventù, tuttavia gli anni trascorsi al fianco dello zio gli avevano conferito una certa notorietà. Percepiva il rispetto che le vedove nutrivano per lui. Alcune addirittura mostravano una sorta di venerazione nei suoi confronti. Bastava solo far sì che fossero pronte a morire al suo fianco. Questo non poteva dirglielo apertamente, altrimenti avrebbe instillato inutilmente in loro un sentimento di incertezza. Se invece avesse detto loro che le attendeva un compito molto importante, di grande prestigio, ma altrettanto rischioso, non si sarebbe discostato poi di tanto dalla verità.

Movsar iniziò a farsi vedere durante i corsi di addestramento e, ogni volta, dava a una donna la sensazione che si interessasse particolarmente a lei, che desse grande valore alle sue qualità. Elogiò Medina per la sua precisione nell'avvolgere i pacchetti di esplosivo. Quando riempiva il sacchetto con la polvere e sigillava il tutto, il pacchetto aveva una forma talmente perfetta che sembrava uscito da una produzione industriale. Guardando le mani di Hejda notò le sue cicatrici. «Sono stati loro a fartele?», chiese semplicemente. Hejda gli lanciò un'occhiata fugace, perché non stava bene guardare apertamente gli uomini in volto.

Annuì e notò come lui serrava le labbra, Da un gesto così semplice comprese che, non appena ne avesse avuto la possibilità, avrebbe vendicato anche quell'episodio.

Le donne impararono ad avvolgere i pacchetti con fogli di alluminio e a collegarli con fili. Impararono a preparare il contatto di accensione con i morsetti di metallo. Fissavano poi i pacchetti a cinture molto alte, nelle quali era predisposta una doppia fila di tasche. Poiché i pacchetti erano delle dimensioni di un pancarré, solo un po' più piatti, li si doveva fissare con molta attenzione. L'esplosivo pesava all'incirca un chilo; i chiodi, le viti e i frammenti di metallo altrettanto. Impararono a ripartire in ugual misura il peso sulla cintura. Sotto i loro abiti, così ampi, le cinture sarebbero risultate praticamente invisibili.

Nessuna di loro sapeva esattamente a cosa si stessero preparando. Poiché, però, tutte erano impegnate in egual misura, avevano la sensazione di prender parte a una grande missione, per la quale ciascuna di loro avrebbe dovuto dare il meglio di sé.

Iniziarono a dipingere manifesti con i versetti del Corano. Scritte bianche su sfondo nero. Tagliavano la stoffa, cercavano superfici pianeggianti nella foresta e Shura copiava le scritte in arabo con la vernice bianca. Proprio lei, che non conosceva affatto Sa lingua, aveva copiato più volte i versetti. Le riuscivano più regolari che alle altre, quindi il delicato compito toccò a lei. Non sapeva cosa significasse ciascun segno, però, alla fine, sulla stoffa nera si leggeva: «Non c'è altro Dio che Allah e Maometto è il suo profeta: Dio è grande!». Le donne prepararono quattro di questi striscioni. Poi, una di loro ebbe l'idea di vestirsi come i pilota kamikaze giapponesi o 1 terroristi palestinesi, che hanno una sorta di "marchio".

Pregarono Movsar di dare loro il permesso, permesso che lui concesse. Le lodò persino. I giapponesi portavano fasce rosse e bianche, i palestinesi verdi e bianche. Le donne decisero di indossare fasce nere o blu scuro con scritte bianche, simili a quelle degli striscioni.

Una mattina Movsar si presentò ai campo delle donne in un orario insolito per lui. Era cambiato. Non aveva più la barba e si era tagliato perfino i capelli. Chiamò Medina ed Hejda. «È ora. Raccogliete le vostre cose. Vestitevi con colori vivaci. Prendete però anche gli abiti scuri. E naturalmente le cinture. Ma senza i pacchetti. Troverete tutto il resto a Mosca. Abbiamo provveduto a tutto.» Le donne si guardarono sorprese. A Mosca? A Movsar non sfuggirono gli sguardi stupiti e perplessi, ma non fornì nessun'altra spiegazione. Alla fine Hejda osò chiedere: «Cosa faremo lì?».

«Ci insinueremo fino al cuore del nemico e voi entrerete a far parte della storia.»

Alle 16.22 il treno partì dalla stazione di Nazran, in Inguscezia, dove erano giunte a bordo di un'auto. Se non fosse stato per i numerosi posti di blocco sulle strade, nessun inguscio, nessun ceceno avrebbe potuto dire con certezza dove finiva un Paese e iniziava l'altro. I rapporti di parentela andavano ben oltre i confini. Le differenze tra le lingue erano quelle fra dialetti. Fino a poco tempo prima l'Inguscezia e la Cecenia avevano fatto parte di una repubblica, prima all'interno dell'Unione Sovietica, poi della Russia. Anche se era stato Stalin, nel lontano 1934, a costringere Inguscezia e Cecenia in una sola repubblica, le due nazioni si consideravano popoli fratelli, pronti ad aiutarsi gli uni con gli altri. Erano vainachi, per essere esatti, erano un solo popolo.

Gli ingusci offrirono rifugio ai ceceni quando, per la seconda volta nell'arco di pochi anni, nel loro paese scoppiò la guerra.

Medina ed Hejda cercarono, per quanto possibile, di mettersi comode nel treno. Negli scompartimenti l'aria era viziata, non si potevano aprire i finestrini. Il viaggio durò oltre sedici ore. Le donne erano sdraiate sulle loro cuccette e si riposavano. Dopo due settimane al campo l'acqua corrente nel bagno del treno sembrò loro un lusso incredibile. Le due giovani parlavano appena, sonnecchiavano. Nessuna di loro era mai stata a Mosca e non sapevano cosa aspettarsi. Naturalmente avevano visto delle immagini in televisione: la Piazza Rossa, il Cremlino, questo o quel nuovo edificio che veniva inaugurato con solenni celebrazioni, perfino lo stadio Luschniki. Ma non avevano la più pallida idea di come fosse la gente, di come fossero le strade.

Il treno giunse puntualmente alle 8.45 del mattino seguente alla stazione Pavelezker di Mosca. Si trovava al centro della città, a poca distanza dagli imponenti edifici voluti da Stalin, dagli uffici di vetro e dal Kutusovski dove, quasi a ogni ora del giorno, si riversavano dieci file di auto. I passanti camminavano frettolosamente all'ombra di tabelloni pubblicitari giganteschi e colorati. Senzatetto sporchi e ubriachi vagavano nei sottopassaggi strascicando i piedi. I venditori ambulanti camminavano trascinando pesanti borse a quadri. Le sorelle inciamparono quasi nelle misere figure di reduci afgani che spingevano avanti i loro corpi mutilati, senza gambe, su carrozzelle di fortuna. Gli uomini si spingevano a mani nude sulla strada sporca.

Medina ed Hejda avvertivano il ritmo pulsante della vita della capitale, la fretta, la disinibizione. La superiorità dei vincitori. Lo sconforto dei vinti.

Già sul marciapiede della stazione c'era una gran calca di persone. Poliziotti in uniforme blu controllavano gli uomini non appena questi mettevano piede fuori dal vagone. Il treno proveniva dal sud e tutti gli abitanti del Caucaso erano considerati sospetti. Le donne, invece, potevano salire senza problemi sul treno successivo: quello della metropolitana. Uscirono dalla stazione e seguirono semplicemente il flusso di persone. Movsar si era raccomandato di parlare il meno possibile con i passanti. «Seguite la massa, è sempre diretta alla metropolitana.»

Avevano visto ben poco di Mosca, fatta eccezione per i pochi metri dai binari all'ingresso della metropolitana. La confusione era insopportabile. Inoltre, proprio là, dove il passaggio si restringeva, ossia all'ingresso della metropolitana, donne anziane avevano formato una vera e propria barriera: vendevano vodka fatta in casa, sigarette di contrabbando, a volte anche un paio di limoni. Tutti, quindi, dovevano passare loro accanto, a tutti veniva offerta la mercanzia.

Molti mendicanti vagavano nei pressi della stazione. I loro occhi scrutavano senza posa il terreno alla ricerca delle bottiglie vuote, che il robivecchi avrebbe comprato loro per pochi copechi. Se vedevano una bottiglia di birra o di vodka sotto un'auto posteggiata, oppure vicino al bidone della spazzatura o nel canaletto di scolo, si piegavano in un lampo, la raccoglievano e la infilavano in grandi buste di plastica che portavano strette al petto come un tesoro.

Medina ed Hejda erano sorprese dalla quantità di loro connazionali che vivevano nella capitale. Mosca era diventata un rifugio per almeno centomila ceceni, tanto che si poteva parlare di una vera e propria diaspora cecena.

I ceceni costituivano una comunità potente, alcuni uomini d'affari erano diventati molto ricchi. Durante le lotte per la spartizione, a tratti particolarmente cruente, erano riusciti a inserirsi nel commercio del petrolio e di altre materie prime o anche nelle lotterie, nonché nel settore delle scommesse, accumulando ingenti somme di denaro.

A questo gruppo di privilegiati non appartenevano di certo i piccoli fruttivendoli, che vendevano la propria merce sulla strada, esposti alle intemperie. I moscoviti compravano da loro, ma li trattavano con superiorità. Sia che venissero dalla Cecenia, dalla Georgia, dall'Azerbaijan, dal Tagikistan, dall'Uzbekistan, per la gente di città loro erano comunque e solo immigrati dal Caucaso del Sud. "Neri", se li volevano offendere. Potevano anche picchiarli a piacimento, contando sull'impunità.

Medina ed Hejda notarono il gran numero di poliziotti. Significava che, soprattutto nella metropolitana, non c'era alcuna possibilità di sfuggirgli. In quel momento le due sorelle capirono la realtà del pericolo che Movsar aveva loro prospettato. I poliziotti sembravano concentrarsi solo ed esclusivamente sulle persone inermi e indifese e, naturalmente, sulle persone di nazionalità caucasica. Li pescavano ovunque: agli ingressi delle stazioni delle metropolitane, alle barriere fotoelettriche ai piedi delle lunghe scale mobili, sulle banchine. E non si limitavano al semplice controllo dei documenti.

I soldati di Mosca erano famosi perché corrotti e brutali. Chi non era in grado di mostrare la propiska, una sorta di certificato di registrazione e di permesso di soggiorno valido per la capitale, veniva portato alla centrale. Molti di questi militari consideravano le persone fermate alla stregua di prede, sulle quali potevano accanirsi a proprio piacimento. Cercavano di addossare loro ogni possibile reato perché, se nell'arco di un mese riuscivano ad assicurare alla giustizia un buon numero di ladri, violentatori, picchiatori o addirittura assassini, la percentuale di casi "risolti" saliva e loro venivano ricompensati con premi "produttività": denaro extra che avrebbero percepito insieme allo stipendio. In mancanza di questo denaro, lo stipendio a fine mese sarebbe risultato decisamente meno cospicuo.

Se qualcuno rifiutava di sottoscrivere le false accuse veniva persuaso con le torture. Fra i metodi più comuni – oltre a percosse, agli insulti e all'elettroshock – c'era quello di incatenare il prigioniero per giorni interi ai caloriferi. I funzionari, poi, si divertivano a farsi beffe delle proprie vittime che, dopo aver resistito per ore e ore, finivano col bagnarsi con la propria urina. Non esitavano nemmeno a giocare alla "proboscide dell'elefante", tuttavia dovevano fare attenzione che le maschere antigas che facevano indossare alle loro vittime non le soffocassero. Era normale che qualcuno svenisse, ma se il prigioniero moriva, c'era il rischio di inchieste imbarazzanti e scomode.

Se gli uomini caucasici volevano sfuggire a tutto questo avevano solo due possibilità: o corrompere i poliziotti, oppure esibire i documenti. Ma quest'ultima richiesta era quasi impossibile da soddisfare.

Mentre queste vessazioni sembravano inevitabili per gli uomini, le donne, sorprendentemente, venivano lasciate in pace. Non erano considerate sospette e potevano circolare liberamente. Ed era proprio questo ciò che Movsar intendeva sfruttare.

 

Le due sorelle salirono sulla circonvallazione, fecero le due fermate fino a Oktjabrskaja e poi presero la metropolitana, dirette a sud. Il tragitto durò ancora più di un'ora. A ogni fermata gli scompartimenti si svuotavano sempre più e da tempo, ormai, i vagoni viaggiavano in superficie. Più si addentravano nella periferia, più le stazioni diventavano squallide e tristi, ben diverse da quelle sontuose del centro, con i loro lampadari a corona, le decorazioni in marmo alle pareti e gli inevitabili simboli sovietici. Scesero a Jasenovo. Capolinea. Jasenovo è uno dei numerosi quartieri dormitorio che circondano Mosca, dove milioni di persone vivono praticamente le une sulle altre. I palazzi sono prefabbricati alti, assemblati frettolosamente. Tutte le mattine i pendolari impiegano un'ora, un'ora e mezza per recarsi al lavoro in centro e la sera fanno ritorno sfiniti, comprano in fretta ciò di cui hanno bisogno e scompaiono nei casermoni fino al mattino seguente. In estate, ogni venerdì, fuggono nelle dacie. Lunghe colonne di auto si muovono lentamente, dirette fuori città. I paesini lì intorno attendono l'invasione dei moscoviti. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se le persone conoscono poco o niente i propri vicini e se non sanno distinguere un vicino di casa da un perfetto sconosciuto.

Dalla metropolitana le giovani si diressero verso la fermata dell'autobus. Non rimasero lì ad attenderlo, si incamminarono, invece, verso un supermercato. Non potevano presentarsi prima delle cinque nella casa che Movsar aveva indicato loro. Avevano tutto il tempo per guardarsi intorno. Il sole splendeva, faceva caldo, ma non troppo. I bambini giocavano in strada, alcuni anziani sedevano sulle panchine collocate davanti agli ingressi dei palazzoni, all'ombra di alberi striminziti. Un paio di giovani mamme con i bambini venivano loro incontro con le loro buste cariche di spesa.

Medina ed Hejda indossavano gonne colorate, lunghe fino al polpaccio, maglietta di cotone e sandali. In confronto alle moscovite, sofisticate e attraenti, sembravano sciatte e goffe. Le giovani della loro stessa età apparivano molto più disinibite. E la maggior parte di loro se lo poteva anche permettere. Indossavano gonne corte o pantaloni attillati, camicie o maglie che lasciavano intravedere le forme del loro corpo, i volti erano accuratamente truccati, i capelli, tagliati alla moda, avevano belle tonalità di colore: evidentemente, prima di uscire di casa, le donne curavano a fondo il proprio aspetto. Le moscovite erano famose per la loro bellezza e ora Medina ed Hejda avevano l'opportunità di constatarlo con i propri occhi. Iniziarono a rendersi conto che qui, il concetto di "chic" era ben diverso da quello che vigeva in Cecenia, dove regnava sovrano il rossetto perlato.

 

Quando volevano farsi belle le donne cecene aggiungevano qualcosa: una tonalità di colore più accesa, più paillettes sugli abiti, stoffe variopinte, profumi più forti. E quando si tingevano i capelli non esitavano a scegliere il biondo. Il contrasto del colore chiaro con il nero delle sopracciglia le faceva sembrare molto più anziane, perfino sciatte. Medina ed Hejda una volta avevano provato a usare dell'henné. Ma questo era stato molto tempo prima, in un'altra vita.

Persino qui, nel quartiere dormitorio nella periferia della grande città, c'era un gran numero di cartelloni pubblicitari, l'uno accanto all'altro. Pubblicizzavano telefoni cellulari, whisky, mobili da cucina o sigarette. Medina ed Hejda erano irritate per il gran numero di donne che fumavano con disinvoltura in mezzo alla strada, o che bevevano birra come se fosse stata acqua minerale. Le sorelle lo sapevano, naturalmente, che gli uomini moscoviti bevevano, ma che lo facessero così sfrontatamente anche le donne, beh, questo proprio le sconcertava.

Una coppietta, mano nella mano, si diresse verso una panchina all'ombra. Il ragazzo prese la ragazza sulle ginocchia e i due si baciarono e si accarezzarono con una tale intimità che le due sorelle distolsero, imbarazzate, lo sguardo. Pur se Medina – durante il suo breve matrimonio – aveva desiderato che le regole di casa non fossero così severe e che suo marito, per abbracciarla, non dovesse aspettare che fossero sempre rigorosamente soli, quella esibizione le parve assolutamente fuori luogo.

Il ricordo di Malik la colpì con forza. Quanto le mancava! Come le sarebbe piaciuto mostrargli il figlio che le cresceva in grembo. Il ventre rigonfio si celava ancora bene sotto le camicie ampie, ma cresceva costantemente. Il piccolo non avrebbe mai conosciuto il proprio padre. Medina sentì la rabbia montarle dentro, così violentemente che si sentì mancare. Serrò i pugni e si morse le labbra. Hejda capì al volo. «Malik?» Medina annuì appena. Grosse lacrime cominciarono a scenderle giù per le guance. Si sedettero su una panchina al parco giochi dei bambini. Era ancora presto.

Hejda osservava con curiosità l'ambiente circostante e cercava di imprimersi nella mente ogni dettaglio, senza perdere di vista la fermata. C'erano due linee: la 781 e la 759. Alle 16,30 le due sorelle salirono sull'autobus e, seguendo le istruzioni di Movsar, contarono sei fermate. Trovarono al primo colpo sia la strada, sia il palazzo.

Quando aprirono il portone, accanto alle scale videro una portineria, ma a quanto pareva la portinaia aveva appena lasciato la guardiola: la porta era aperta e la minuscola stanzetta era vuota. Trovarono l'ascensore e raggiunsero l'ottavo piano. Il sedile scuro, rivestito di formica, puzzava di urina. Una piccola lampadina sopra la porta diffondeva una luce fioca, ma sufficiente per studiare le pareti ricoperte di disegni osceni. Un numero infinito di gomme da masticare era attaccato nelle fessure di ventilazione. Si sentirono sollevate quando le porte si aprirono. Ma il sollievo fu di breve durata: nella tromba delle scale, in cemento, con le porte di ferro che conducevano ai singoli piani, la situazione non era certo migliore.

Le due sorelle cercarono l'appartamento. Si ritrovarono davanti a un'altra porta che non si aspettavano di trovare.

Cosa fare? Dovevano bussare al vetro? Aspettare finché non arrivava qualcuno? Hejda notò quattro campanelli. Né un nome, né il numero dell'interno aiutava a capire a chi rivolgersi. Tuttavia sui telai delle porte c'erano i numeri degli appartamenti: dal 48 al 51. La loro casa era l'interno 51 quindi, probabilmente, era l'ultima. Dovevano decidersi. Hejda suonò il primo campanello partendo dal basso. Dietro al vetro opalino videro passare qualcuno. Shura! C'erano anche le altre del commando? Shura mise il dito sulle labbra indicando loro di far silenzio e fece segno di seguirla in casa. All'interno si trovavano molte altre donne che erano state con loro al campo, ma ce ne erano anche altre che non avevano mai visto prima.

L'appartamento era composto da quattro camere, arredate in maniera spartana. Una donna che non conoscevano portò loro tè e panini imbottiti. Si vedeva che tutte loro erano esauste per il lungo viaggio. La maggior parte delle donne, come Medina ed Hejda, vedeva Mosca per la prima volta. Alcune erano arrivate in aereo a breve distanza l'una dall'altra, altre, invece, che fino a qualche minuto prima non si conoscevano affatto, erano giunte a Mosca con lo stesso autobus proveniente da Machatschkala.

In quel primo giorno non successe nulla di importante. Le donne si divisero le stanze e iniziarono a preparare i giacigli per la notte. La maggior parte dovette accontentarsi del pavimento, giacché c'erano solo due divani.

Il giorno successivo giunse Movsar e consegnò a ogni donna un passaporto e la propiska. Ora avevano documenti in regola e non dovevano più temere i controlli della polizia. Gli indirizzi riportati sul permesso di soggiorno non corrispondevano a quello della casa di Jasenovo, ma questo i poliziotti non lo avrebbero scoperto. Una donna, meravigliata, chiese a Movsar come si era procurato i documenti. Lui sorrise e, di colpo, sembrò anche più giovane.

«In fin dei conti a Mosca vivono molti nostri connazionali. Anche se hanno rinunciato a lottare in patria, ricordano perfettamente le proprie origini. E se le hanno dimenticate, noi facciamo in modo che se le ricordino, anche se alcuni qui sono diventati ricchi.» Non solo qui, pensò Hejda, che rammentava ciò che si diceva a proposito di Movsar, e cioè che guadagnasse più che bene riscuotendo tangenti e che viaggiasse in lungo e in largo per la Cecenia a bordo di una jeep lussuosa. Maldicenze o verità? Che possibilità aveva lei di scoprirlo? E, soprattutto, voleva davvero scoprirlo?

Erano di grande aiuto non solo la comunità cecena a Mosca, ma anche i funzionari corrotti dell'ufficio registrazione che chiudevano un occhio in cambio di un lauto compenso.

«Oggi pomeriggio andiamo a Selenogradskij, a circa 30 chilometri dalla città. Riposatevi. Siete state brave, siete qui, nessuna di voi è stata fermata. Non lasciate la casa e non fatevi notare. Se tutto prosegue così come è cominciato, sarà una cosa grossa.»

«Che genere di cosa grossa? Perché siamo qui?»

«Lo saprete a tempo debito.» Movsar sparì. Con i jeans neri, la maglietta blu e le scarpe da ginnastica nessuno avrebbe riconosciuto in lui il guerrigliero delle montagne. La sua pelle era più chiara di quella dei suoi connazionali. Era diverso anche il colore dei capelli: non li aveva neri ma castani, con qualche riflesso ramato. Era un giovane atletico e magro, di bell'aspetto.

 

Il sole era caldo, tempo ideale per la dacia. Mezza Mosca sembrava diretta fuori città, nel verde. Si arrivava con relativa rapidità alla tangenziale, ma lì, il traffico inesorabilmente si bloccava.

Come al tempo dei sovietici, ai posti di controllo i poliziotti facevano, a caso, segno alle auto, invitandole a uscire dalla carreggiata: chiedevano i documenti e non di rado davano uno sguardo anche al bagagliaio. Cercavano esplosivo. Da quando due palazzi di Mosca erano saltati in aria i minibus, i furgoni e i camion erano considerati sospetti e venivano regolarmente controllati. E per lo stesso motivo Movsar aveva voluto macchine con autista. E proprio per questo motivo erano partiti di venerdì. Avrebbero dato meno nell'occhio in mezzo al traffico dei datshinki. Medina ed Hejda erano uscite di casa senza foulard, come le altre donne, del resto. I foulard avrebbero attirato inutilmente l'attenzione qualora le auto si fossero bloccate nel traffico e i passeggeri avessero avuto tempo di guardare all'interno delle altre vetture.

La coda si muoveva molto lentamente. Medina bisbigliò a Hejda: «Farebbero meglio a controllare i loro agenti dell'FSB2. Loro sanno perfettamente chi nasconde cosa. Chi, al posto dello zucchero, trasporta esplosivo.» Non era mai stato dimostrato che, nell'estate del 1999, erano stati i servizi segreti – e non i terroristi – a far saltare in aria i palazzi. I ceceni, però, erano fermamente convinti che gli attentati erano serviti per dare il via a una nuova campagna contro di loro. Lo sospettavano anche molti russi, in fin dei conti sapevano bene quanto poco valesse la vita umana nel loro Paese.

Cosa vuoi che siano trecento morti e più, se il generale può far scivolare nelle proprie tasche il denaro destinato all'acquisto di armi? Ma è pur vero che, se gli ufficiali progettavano di arricchirsi in maniera illecita, i soldati semplici lo facevano già da tempo. Quando avevano bisogno di denaro per acquistare vodka o droga svendevano ai ceceni kalashnikov, bombe a mano, carri armati e qualsiasi altra cosa sulla quale riuscissero a mettere le mani. Chi sarebbe stato in grado di tenere il conto delle armi perse in azione?

I funzionari dell'amministrazione poi traevano ottimo profitto dagli stanziamenti per la ricostruzione. Chi poteva controllare lo stato di avanzamento della costruzione di una nuova scuola, se le bombe la distruggevano sistematicamente? Per non parlare dei proprietari di quelle imprese edili – poche e selezionate – che riuscivano ad aggiudicarsi gli appalti grazie a un accurato lavoro di public relations. E cosa dire, poi, se il denaro per gli affitti e per gli stipendi veniva rubato durante il trasporto? In fin dei conti si trattava di una zona di conflitto. Gli assalti erano all'ordine del giorno. O almeno costituivano un alibi perfetto, per poter sottrarre ingenti somme di denaro. Sì, la guerra è decisamente un ottimo affare.

 

Selenogradskij vive della gloria del passato. Ai tempi dei sovietici questo insediamento, al centro di foreste di betulle e di conifere, era un rinomato luogo di cura alla porte della capitale. Oggi sembra che la vita gli sia passata accanto senza nemmeno sfiorarlo. In un ex albergo, un tempo sempre affollato di ospiti, da anni vivevano rifugiati iracheni che non avevano né il denaro, né gli appoggi giusti per poter tornare in patria. Erano naufraghi, dimenticati dai propri connazionali e dalle autorità russe. Di recente a questi si erano aggiunti anche profughi afgani. Una massa eterogenea di disperati che avrebbe offerto la copertura ideale al commando di vedove.

Al di fuori del paese c'era una colonia, anch'essa abbandonata, dove, di tanto in tanto, grandi aziende organizzavano matrimoni o altre feste. Ma per la maggior parte del tempo restava vuota. Ufficialmente apparteneva a un uomo d'affari della Georgia che, in realtà, era solo un prestanome. Questa struttura era proprietà di un ricchissimo imprenditore ceceno che sporadicamente vi accoglieva soldati feriti, procurando loro anche assistenza medica. L'edificio era circondato da uno steccato alto più di due metri: impossibile scorgerne l'interno. Recinzioni di questo genere erano usuali nella zona delle dacie attorno a Mosca. Gli alberi e le seconde case a due piani, i cui tetti s'intravedevano appena dal recinto, davano ai passanti l'impressione che quel lembo di terra fosse un paradiso idilliaco. Anche le associazioni di artisti, i club sportivi e le aziende possedevano strutture simili. Poiché l'ingresso era riservato ai soci, nessuno faceva caso all'andirivieni degli ospiti.

Le donne si divisero la casa, ciascuna ebbe così una camera tutta per sé. Sfinita, ma quasi contenta Medina si lasciò cadere sul letto e chiuse gli occhi. Se solo avesse potuto restare lì per sempre e non alzarsi più

Fece scorrere lo sguardo nella stanza: i muri erano ricoperti di legno scuro, c'erano una scrivania, due sedie e il tavolino da salotto. Si meravigliò che la stanza fosse già così buia. Non si poteva immaginare che fuori il sole fosse caldo e forte! I suoi raggi, che riuscivano a insinuarsi tra i fitti rami degli alberi, venivano inesorabilmente bloccati dalle pesanti tendine verdi. Nell'atrio c'era un grande frigorifero che emetteva rumori sinistri. Medina andò in bagno. Era rivestito di piastrelle di un bel giallo acceso. Anche se molte erano crepate, era ugualmente bello. Una camera tutta per sé, perfino con il bagno. Incredibile.

Lo sguardo al suo piccolo bagaglio posato in corridoio la riportò bruscamente alla realtà. Nel borsone non c'erano solo gli abiti neri lunghi fino a terra e i pantaloni di cotone a sbuffo che s'indossavano sotto, e il velo nero che arrivava fino alle spalle. C'era anche la cintura da kamikaze. Avrebbero confezionato altri pacchetti, li avrebbero avvolti in sacchetti e in fogli di alluminio, avrebbero fissato le micce e li avrebbero poi assicurati alle cinture.

Medina non riusciva a immaginare una situazione nella quale lei, di propria spontanea volontà, avrebbe dato fuoco all'esplosivo. Qualcuno si aspettava davvero che lei lo facesse? Fino a quel momento era stato detto solo che si trattava di una missione molto rischiosa ma, di certo, non mortale. A cosa servivano allora, le cinture imbottite di esplosivo?

In quel momento, in cui nell'aria aleggiava il profumo inebriante di aghi di pino e di bosco, in cui lei aveva finalmente una stanza tutta per sé nella quale rifugiarsi, Medina sentiva di amare la vita. Perché mai avrebbe dovuto voler morire? Perché mai avrebbe dovuto privare suo figlio del futuro?

Hejda entrò di corsa nella stanza della sorella strappandola ai suoi pensieri. Era eccitatissima, corse alla finestra, guardò fuori: «Che meraviglia! Come dev'esser bello starsene in vacanza qui!» Medina taceva. Le lanciò solo uno sguardo di leggero rimprovero. «Lo so che non siamo venute qui in vacanza, ma possiamo almeno immaginare come sia fare le vacanze qui?», mormorò Hejda. Medina capiva fin troppo bene ciò che provava la sorella.

Sui quattro tavoli nella sala da pranzo erano distese carte geografiche, mappe della città e la piantina della metropolitana di Mosca. Il commando di vedove era dunque aumentato: oltre a quelle del campo si erano aggiunte altre donne, che loro non conoscevano. Alcune di queste erano molto più anziane di loro. Le donne parlottavano sottovoce. Quando Movsar entrò nella stanza si alzarono in piedi, come era stato insegnato loro fin dall'infanzia: quando un uomo entra in una stanza tutte le donne devono alzarsi, persino una donna anziana al cospetto di un bimbo. Erano fra di loro, erano tornate in vigore le loro usanze cecene.

«Imparerete a muovervi con sicurezza in città, a non dare nell'occhio e a eseguire i compiti che vi vengono assegnati», disse solennemente Movsar.

Indossava la tuta mimetica e gli stivali e aveva una pistola attaccata alla cintura come quando era al campo. Le donne avevano messo gli abiti neri e i veli. Con sguardi fiduciosi seguirono le sue spiegazioni, sperando di capire finalmente quale fosse l'obiettivo della missione. Niente.

In questa nuova dimora tornarono al ritmo del campo: le cinque preghiere al giorno, gli allenamenti e i momenti di condivisione. Vennero ripartiti i compiti di casa e vennero rimessi in funzione i mangiacassette, che diffondevano ininterrottamente nell'aria le note delle canzoni dei martiri.

 

Oh Allah, fa' sì che comprendiamo la verità

fa' che presto tutti invochino il tuo nome

Satana ha oscurato il mondo

solo la jihad lo può illuminare di nuovo.

Ma ci attendono ore di dura battaglia

di fronte a noi c'è l'esercito del nemico.

Oh Allah, fa' che riusciamo a tenergli testa.

 

Hejda continuava a chiedersi quale fosse il vero significato dei versi ossessivi di Muzaraiev. Di quale battaglia si parlava? Ci si aspettava forse che anche loro, delle donne, prendessero parte alla jihad, alla guerra santa? Hejda capiva ancora meno quando lui cantava della gioia di essere uno shahid, un martire. Quale gioia poteva mai esserci nel morire da kamikaze? Chi di loro avrebbe voluto diventare un'attentatrice suicida? Una kamikaze? Ma via! Nessuna! Di questo almeno era certa.

Come al campo fra le montagne, anche qui nessuna poteva uscire di casa, men che mai scrivere o telefonare. Solo di rado Medina ed Hejda avevano l'opportunità di parlarsi a quattro occhi. Con loro c'era sempre qualcuno.

Alcuni giorni dopo Baraev chiamò Medina ed Hejda. Si era sistemato nell'ufficio della casa-vacanze.

Una donna del commando era stata incaricata di occuparsi solo ed esclusivamente di lui. Le sorelle bussarono timidamente alla sua porta, un sorvegliante aprì e, senza parlare, le fece entrare. La donna, che aveva appena servito tè e biscotti, scomparve velocemente, quasi senza fare rumore. Era Sinaida, la prima vedova nera che avevano conosciuto al campo. Anche lei, come Medina ed Hejda, portava l'abito nero.

Movsar fece cenno alle sorelle di avvicinarsi. Nell'angolo a destra della sua scrivania c'era un tavolo da riunione con sei sedie, del tutto normale nell'ufficio di un dirigente sovietico. Indicò loro il tè e le invitò a servirsi. «Sedetevi. Ho un compito per voi. Lavorerete.»

Le due donne lo guardarono sbalordite.

«Nel bar di un teatro. Durante le pause venderete bibite agli spettatori.»

«Quale teatro? Quale bar? Perché non possiamo restare qua, insieme alle altre e svolgere un compito insieme a loro?», chiese Hejda.

Gli occhi di Movsar lampeggiarono, si adirò per questa domanda. Si costrinse a restare calmo. «Voi non capite. Questo è solo l'inizio del grande compito. E non riuscite nemmeno a immaginare che onore sia essere le prime a entrare in azione. Volete servire il nostro popolo? Volete fermare la guerra? O, nel frattempo, avete cambiato idea?»

«Certo che no», lo rassicurò in fretta Medina.

«Pensavamo solo…»

«…che vi escludessi? No. Ascoltate cosa dovete fare…»

Il mattino seguente le due sorelle salirono alla stazione di Selenogradskaja nell'elektrishka, il treno locale che portava i pendolari a Mosca. Negli scompartimenti aperti, in quelle ore tranquille, si trovavano solo pochi viaggiatori, per lo più ubriachi. Indossavano abiti sudici, i capelli erano lerci, e anche le loro facce. Erano tenacemente attaccati alle bottiglie di vodka. Sul pavimento rotolavano i tappi che, una volta aperti, non si potevano più riutilizzare. Le sorelle si sentivano inquiete davanti a questo spettacolo di degrado e furono molto sollevate quando poterono scendere finalmente alla stazione Kiev, dove c'era una gran calca. Anche qui, come a Pavelezker, gli ambulanti trascinavano le grandi borse a quadri. Camminavano in direzione del mercato di Dorogomilovo, che si trovava proprio vicino alla stazione. I facchini spingevano carrelli a fondo piano, dove potevano accatastare balle alte quanto un uomo. Chi non era lesto nello spostarsi, rischiava di venire travolto.

I viaggiatori diretti in Ucraina, in Crimea, in Bielorussia o in Bulgaria si riposavano all'aperto, appoggiati alle valigie. Avevano tutto il tempo che volevano. I loro treni sarebbero arrivati solo in serata, così si risparmiavano un pernottamento nella capitale. Chi non aveva il biglietto non veniva ammesso nella sala d'attesa. Ma quel giorno, con un sole così bello, si stava bene, fuori. Il flusso veloce dei passanti che camminavano in fretta veniva frenato, di tanto in tanto, da un qualche senzatetto che avanzava con passo strascicato. Questi poveracci non facevano in tempo a sedersi, che il personale delle ferrovie li mandava via.

A Medina e a Hejda tutto quel trambusto ricordava il giorno del loro arrivo, appena qualche settimana prima. Anche questa volta dovettero cercare l'ingresso della metropolitana, ma anche questa volta bastò loro seguire la folla. Un vento tiepido soffiava dalla Moscova. Avevano tempo e si concessero una breve passeggiata fino al fiume. Incuriosite, si avvicinarono al capannello di persone raccolto attorno a un pontile. Da lì partivano decine di barconi che trasportavano turisti.

Un cartellone, con delle foto, illustrava il percorso: si passava davanti ai Monti dei Passeri (Monti di Lenin) e di fronte allo stadio Luschniki (una grande struttura ovale ricoperta solo a metà); si passava poi davanti al parco Gorki con le sue antiquate montagne russe e la grande ruota panoramica, alla splendida Cattedrale del Redentore. Si sarebbe potuta osservare la facciata in pietra rossa della fabbrica di praline Ottobre Rosso e, infine, il Cremlino, con torri, stelle rosse, cupole d'oro. Medina ed Hejda studiarono bene il tragitto, ma nessuna confessò all'altra che avrebbe dato l'anima per fare quella gita: Mosca, vista dalla sua prospettiva migliore, sotto quel sole meraviglioso… Tornarono indietro.

All'ingresso della metropolitana acquistarono due abbonamenti mensili e si recarono alle barriere fotoelettriche, passando per l'ingresso riservato agli abbonati. Il controllore, una donna, guardò appena i loro biglietti. La scala mobile le inghiottì. Le persone che risalivano sembravano tutte inclinate in maniera anomala. A Hejda sembravano così buffe, che toccò Medina e le bisbigliò: «Ora rotolano tutti giù!».

Dalla stazione di Taganskaja dovevano fare solo una fermata e scendere a Proletarskaja. La stazione era in via Dubrovsk. In via Melnikov ci volle un attimo a trovare il teatro. Un grande telone pubblicizzava lo spettacolo: Nord-est – musical classico. Lettere blu si stagliavano contro un brillante cielo estivo, nel quale volavano gabbiani. A Hejda e a Medina il titolo non diceva proprio niente. Il telone con le nubi bianche lasciava libero solo l'ingresso e copriva il resto dell'orribile blocco di cemento.

L'edificio aveva una struttura familiare. Infatti somigliava a tutti gli altri centri culturali di epoca sovietica. Fra Kaliningrad e Vladivostok si esibivano numerosi balletti di bambini e cori di donne. Le sorelle entrarono attraverso il passaggio tappezzato di poster. Nel parcheggio lì accanto c'erano solo poche auto, la porta d'ingresso era aperta. La luce entrava nel foyer attraverso la vetrata del piano terra. Gli attaccapanni del guardaroba erano evidentemente nuovi, nulla a che vedere con l'odore stantio che emanava da quelli con i pannelli in legno e i ganci scuri. Nessuno andò loro incontro, ma i rumori che provenivano dal primo piano indicavano già una certa attività. Salirono l'ampia scalinata e videro un ufficio aperto. In fondo al corridoio c'erano una donna delle pulizie e un custode, talmente immersi nei loro discorsi che non le notarono nemmeno.

Hejda bussò alla porta aperta. Una ragazza si stava dando il rossetto davanti a uno specchio posato sulla scrivania. Sollevò un attimo lo sguardo. Con disinvoltura, senza fretta, terminò l'opera e solo allora si voltò verso di loro con le sopracciglia inarcate in segno di domanda. Movsar aveva detto loro il nome del capo dell'amministrazione: Nina Alexandrovna Ladogina. Hejda le si rivolse con tono affabile.

«Nina Alexandrovna, abbiamo sentito dire che cerca personale per il bar del teatro e volevamo informarci.»

«Chi siete? Chi ve lo ha detto?»

Come era stato insegnato loro, Medina nominò Aslan Savgaiev, un uomo d'affari ceceno ricco e influente della diaspora. Il volto della direttrice si illuminò. «Vi manda Aslan? Allora seguitemi.»

Si alzò, lisciò la gonna dell'abito grigio e iniziò a camminare a passo spedito. Medina ed Hejda non riuscivano proprio a capire come facesse ad andar così in fretta con dei tacchi così alti. Le si affrettarono dietro. Entrambe portavano pantaloni scuri di taglio moderno e camicette colorate a maniche corte. Proprio come tutte le altre donne, in estate. Nina Alexandrovna si girò continuando a camminare e chiese loro: «E da dove venite?»

«Da Selenogradskji», rispose Heida. Voleva aggiungere che vivevano lì dalla prima guerra cecena, ma alla direttrice bastò la prima informazione. Passarono accanto agli ingressi delle sale e raggiunsero l'altra ala dell'edificio. In un angolo c'era un bar, dietro si sentiva rumore di stoviglie, ma non si vedeva nessuno.

«Lena?», chiamò Nina Alexandrovna.

Una biondina minuta, con il viso appesantito da un trucco vistoso, fece capolino da sotto il bancone con in mano due bottiglie di Martini. Era intenta a sballare un cartone. «Lena, ti ho portato le ragazze, sono…» si voltò verso Medina ed Hejda: «Come vi chiamate?».

«Medina.»

«Hejda.»

«Fammi sapere se loro due possono bastare.»

Nina Alexandrovna si accomiatò dalla donna del bar e dalle due sorelle con un cordiale paka, «salve». Sempre in bilico sui tacchi, fece ritorno al proprio ufficio.

Lena si rivolse loro: «È il cielo che vi manda! Potete cominciare già da stasera?»

«Certo. Tutte e due?»

«Sì, le mie due ragazze sono assenti. Mi potete aiutare a togliere la merce dai cartoni e io intanto vi spiego cosa dovete fare, d'accordo? È una fortuna che siate arrivate così presto. Per stasera sarete in grado di sbrigarvela da sole.»

Trascorsero il pomeriggio e le prime ore della sera a trasportare i cartoni di succhi di frutta, misero bottiglie di acqua e lattine di Coca-Cola nel frigorifero con le grandi porte di vetro. Bottiglie di whisky o di cognac vuote vennero sostituite con quelle piene. Impararono così che il pubblico del musical non consumava bevande forti. «Per la maggior parte di loro costano troppo, i liquori a teatro non si vendono un granché.»

Quando ciascuna dispensa del bar fu riempita, Lena le condusse in cucina. Lì una donna russa anziana era già intenta a tagliare il pane bianco. Spalmava le fette con il burro e vi disponeva mucchietti di caviale, oppure le farciva con salmone, formaggio o fette di salame. La russa era una donna semplice e gentile ed era contenta che loro fossero così svelte in cucina.

La sera, verso le sei e mezza, il teatro iniziò ad animarsi. Le venditrici ai banchi di souvenir aprirono le vetrinette.

«Mi piacerebbe sapere cosa vendono», disse Medina.

«Va', intanto resto qua io.»

Medina si avventurò a fare un piccolo giro nel foyer al piano di sopra. Nessuna delle venditrici fece caso a lei. Con tutta calma ebbe la possibilità di osservare le piastrine che riproducevano vecchi poster sovietici: Ne boltai! Vi era ritratta un'operaia con un fazzoletto in testa che, con un dito sulle labbra, faceva segno di tenere la bocca chiusa: «Non parlare, tieni la bocca chiusa, non raccontare nulla al nemico!». Era un poster famoso ai tempi dello stalinismo, quando ogni forestiero veniva considerato alla stregua di una potenziale spia. Oggi aveva perso la sua connotazione sinistra, ci si faceva addirittura beffe della propaganda sovietica. Questi poster fornivano uno spaccato storico di un'epoca tutt'altro che rimpianta.

I banchetti vendevano anche fiaschette di ferro, come quelle in uso nell'esercito sovietico. Erano color verde oliva, coperte da un sacchetto di cotone e chiuse con un tappo a vite, assicurato da una catenella. Mancava solo la stella rossa. In Medina si risvegliò immediatamente l'orrendo ricordo dei soldati sovietici che avevano ucciso suo marito. Si allontanò più in fretta che poté dalle bancarelle e tornò da Hejda.

Le donne addette al guardaroba presero posizione un attimo prima che gli spettatori cominciassero a entrare in teatro. Lena aveva raccontato loro che da mesi, ogni sera, le rappresentazioni registravano il tutto esaurito. Chi aveva ascoltato il musical lo consigliava ad altri, perché era uno spettacolo del tutto nuovo per il paese. Russia e musical: ad Hejda i due termini parevano inconciliabili. America e musical, quello sì, lo aveva visto alla televisione. Fu lieta di ricredersi.

Raccolse furtivamente un programma che qualcuno doveva aveva perduto e lesse: Nord-est. Era la storia di due piloti e del loro amore per le donne e per la patria. Il racconto Due capitani, di Wenjamin Kaverin, riportato nella brochure, serviva da presentazione. Ma che gli veniva in mente? Iniziavano già con gli elogi all'armata Rossa e all'epoca di Stalin?

Tutti gli spettatori dovevano passare sotto un metal detector, le borse delle donne e le valigette degli uomini venivano minuziosamente ispezionati. Ma, come sempre, ben presto regnò il caos. Hejda notò che alcuni spettatori scivolarono all'interno, evitando i controlli.

Quando risuonò per la terza volta il gong, gli spettatori in sala presero posto.

 

Anche se erano da poco passate le 19, nel foyer e nei corridoi c'era ancora un gran caos. Molti erano appena entrati nell'edifico e volevano raggiungere il più in fretta possibile i loro posti. Perciò lo spettacolo iniziava sempre con un po' di ritardo e normalmente veniva ritardata anche la pausa.

Lena glielo aveva detto. Il traffico congestionato impediva ai moscoviti di arrivare puntuali per le sette. Al tempo dei sovietici, quando c'erano meno auto e anche il traffico era minore, c'era tutto il tempo per prepararsi per andare a teatro. Quindi, iniziare lo spettacolo alle sette non presentava alcuna difficoltà. Ma oggi chi non voleva arrivare troppo tardi doveva necessariamente prendersi una mezza giornata di ferie.

Hejda e Medina videro finalmente le porte della sala richiudersi. Si diffusero le prime note. Le sorelle si misero comode vicino a un termosifone nel corridoio e ascoltarono l'orchestra, tenendosi nei pressi del bancone.

Oggi, primo giorno di lavoro, non avevano osato chiedere se potevano assistere allo spettacolo. Lena però aveva fatto intendere loro che nei giorni successivi sarebbero state certamente ammesse in sala.

Una venditrice di souvenir si recò al bar. Hejda le chiese cosa desiderava. «Caffè, uno doppio, all'americana.» Ossia un espresso doppio. Hejda iniziò ad armeggiare con la macchinetta del caffè.

«Sei nuova, qui?»

«Siamo nuove tutte e due. Questa è mia sorella.»

«Come vi chiamate?»

«Io Hejda e quella laggiù è Medina. E tu?»

«Irina. Da dove venite?»

«Da Selenogradskij. E tu?»

«Jasenovo.»

«Jasenovo? Hai un bel tratto di strada da fare.» Hejda era contenta di conoscere quel quartiere, così dava l'impressione di abitare da tempo a Mosca.

«Già, ma che ci vuoi fare? Questa è Mosca. Tutti vengono da lontano. Siete di Selenogradskij? Siete rifugiate cecene?»

«Sì siamo scappate durante la prima guerra.»

«Ecco perché conoscete Mosca. Lo sapete che qui vogliono trasformare tutto?»

«Trasformare cosa?»

«Qui, i bar. Devono essere ingranditi, vogliono mettere i tavolini, i banconi devono essere più lunghi, così da ridurre le pause e vendere di più. Ma non temete, non sospenderanno le rappresentazioni.»

La calca durante la pausa era quasi impossibile da gestire. Davanti ai banconi si formarono lunghe file di persone e, quando arrivava il momento di scegliere, i clienti non sapevano decidersi. Molti iniziavano a pensarci solo in quel momento. Quindi il servizio andava molto a rilento. Si vendevano soprattutto panini al burro e cioccolata, ma anche tortine, cognac o shampanskoje semisecco. La gente amava concedersi qualche piccolo peccato di gola, così da trasformare la serata a teatro in una vera e propria festa.

A volte Hejda e Medina erano un po' lente nel dare il resto. A volte, invece, perdevano tempo ad aprire una nuova bottiglia di spumante. In complesso, però, se la cavavano bene. Erano una squadra affiatata. Hejda, più estroversa, chiedeva ai clienti cosa desideravano e lo diceva a Medina, poi l'aiutava a incartare la merce. Era rapida nel fare le somme. Un talento naturale. Medina era contenta che Hejda lavorasse lì con lei. Senza di lei le cose non sarebbero andate così bene.

 

Quando anche l'ultimo spettatore fu rientrato in sala, Hejda fece i conti e Medina si mise a ripulire. Riportarono i vassoi in cucina e lì incontrarono le ragazze degli altri banchi. Si salutarono rapidamente. L'una chiedeva all'altra quale metropolitana, quale autobus avrebbe preso. Qualcuno del campo andò a prendere Hejda e Medina. Le due sorelle avevano telefonato nel pomeriggio per far sapere che si sarebbero trattenute fino a tardi. Alla fine del lavoro le avrebbe aspettate una Lada metallizzata, ultimo modello. Impararono il numero della targa, ma non venne detto loro il nome dell'autista.

Anche se il parcheggio era affollato, trovarono subito l'auto. L'autista si presentò come un guardiano del campo. Erano quasi le undici. Erano sfinite. Tuttavia erano rimaste loro le forze per parlare sottovoce della loro nuova esperienza.

«Vanno a teatro, mangiano panini al salmone e bevono champagne. E da noi la gente vive in case distrutte o nei campi profughi.» Hejda era indignata. Medina annuiva. «La nostra realtà è lontana dalla loro. Magari non sanno nemmeno dov'è la Cecenia.»

L'auto scivolava lungo le strade vuote attraversando la città silenziosa, illuminata dalle insegne pubblicitarie. Di notte, vuota e colorata, Mosca era molto più accattivante che non di giorno. L'autista svoltò alla Dorogomilovskaja, immettendosi sull'ampia Kutusovski, sulle cui dieci corsie normalmente il traffico era ben sostenuto. Ora, invece, era semideserta. Passarono accanto ai Palazzi di Stalin3, all'Arco di Trionfo. Al Parco della Vittoria una lunga fila di fontane lanciava nel cielo acqua rossa, in un maldestro quanto discutibile tentativo di ricordare il sangue versato sui campi di battaglia della seconda guerra mondiale.

 

Percorsero ancora un pezzo della tangenziale. Poi la strada si restrinse e furono inghiottiti dal buio della notte. Verso mezzanotte e mezza la Lada si fermò all'ingresso del campo. L'autista le svegliò dolcemente: «Siamo arrivati».

Quando le porte si chiusero dietro di loro, scesero e vennero accolte da Movsar. «Complimenti, siete state bravissime. Raccontate cosa avete notato.»

«Ristruttureranno il teatro. Ma i bar continueranno a funzionare. Avranno bisogno di muratori», riferirono le sorelle.

«Ottimo, perfetto», disse Baraev. «Ritiratevi, sorelle, domani dovete essere riposate. Buona notte.»