La giusta punizione

Umar tastò con cautela nel bagagliaio della Lada bordeaux. Sollevò il sacco e lo portò nella guardiola. Il collega del turno di notte dormiva profondamente. Umar aveva ricevuto l'auto da Aslan e Achmed e ora eseguiva il compito che gli era stato affidato.

Non lo faceva solo per i soldi. Questa azione dava voce a un suo profondo desiderio. Essere costretto a prestar servizio insieme ai russi gli risultava onestamente intollerabile. Cosa ci facevano i russi in un posto di polizia ceceno? Lui – un poliziotto ceceno -, costretto a lavorare per Mosca. Con i russi. Pazzesco.

La stazione di polizia del rione di Staropromyslovski era circondata da palazzi di cinque piani. Il quartiere era stato risparmiato durante gli attacchi a Grosny. Tuttavia l'edificio piatto e basso della polizia era un monito costante che la pace era ben lontana.

La stazione di polizia, dove prima venivano imprigionati ladruncoli e teppisti, era stata trasformata in una vera e propria fortezza. Pesanti lastre di cemento restringevano l'accesso. Tutto intorno erano accatastati sacchi di sabbia e, davanti alla facciata, era stato eretto un altro muro di mattoni. Le finestre erano state ridotte a feritoie. Nonostante lo spazio fosse ormai ridotto al minimo, per ulteriore sicurezza, era stata anche allestita una recinzione di cemento fra la stazione e i palazzi.

Quanti russi aveva già conosciuto Umar! Venivano distaccati lì per qualche mese e, grazie a questo, si vedevano aumentare lo stipendio in maniera consistente. Chi accettava la trasferta in zone di conflitto faceva anche rapidamente carriera. In quel periodo gli uomini venivano da Rostov sul Don, quindi dal sud. A dire il vero erano persone molto gentili, ma pur sempre russe. I ceceni non si fidavano di loro e i russi non si fidavano dei ceceni. In fin dei conti erano stati spediti lì per "ripristinare l'ordine". Poiché i militari russi disponibili al trasferimento erano moltissimi, per Umar era diventato sempre più difficile far lavorare alla stazione i suoi conoscenti. Trovare un buon impiego in Cecenia non era certo facile, e proprio i russi occupavano quelli più ambiti.

Umar sudava. Aveva già portato di soppiatto nell'ingresso tre grandi sacchi. Ne doveva nascondere ancora uno all'interno del divano letto, così sarebbe stato pieno. Calcolò di aver portato dentro, in tutto, circa ottanta chili di esplosivo. Mancavano solo i fili. Li legò e li collegò al detonatore. Programmò poi il cellulare sulla sveglia. Per maggiore sicurezza controllò l'ora sul suo secondo cellulare.

Poi, al posto della suoneria, attivò la vibrazione e inserì anche il telefono nel cassone del letto pieghevole. Infine rimise a posto il materasso. Un paio di giornali sul divano. Fatto.

Umar lasciò la stanzetta di ritrovo e guardò il collega russo. Si era messo comodo in una cella, nella zona separata. Al momento non avevano molti prigionieri. Mancavano ancora tre ore al cambio di turno. Per il servizio diurno erano impegnati quasi tutti i colleghi, una ventina in tutto. Lui, invece, terminato il turno di notte, se ne sarebbe tornato a casa. Andò al parcheggio e raggiunse la propria auto. Lì chiamò Achmed e gli disse solo «6.18». Era il codice concordato per segnalare che tutto era andato come previsto.

Dal cassetto portaoggetti tirò fuori la videocamera, la controllò e la rimise a posto. Scese dall'auto e tornò al posto di polizia. Era un bene che avessero solo due prigionieri. Due sabotatori che volevano far saltare i tralicci dell'alta tensione nella zona industriale. Anche loro erano mossi solo dal denaro. Lo stesso Umar non era più in grado di dire dove erano i fronti, chi fossero i mandanti e chi gli esecutori.

La luce del giorno cominciò a rischiarare il cielo. Umar raggiunse l'ingresso. Udì qualcuno in strada. Poteva essere solo la vecchia spazzina. Anche oggi era vestita come una vagabonda. Portava sempre scarpe da ginnastica di poco prezzo, sformate, che davano un aspetto grottesco alle sue gambe, piene di varici. La gonna e la camicia senza maniche avevano bordi irregolari. In estate e in inverno la spazzina indossava un piumino, diventato lucido tanto era sudicio, come se fosse stato un magnete in grado di attirare tutta la sporcizia che lei, ogni mattina, diligentemente raccoglieva.

Con quel suo cappello a punta sembrava un piccolo clown. Quando aveva terminato il lavoro, la strada rimaneva pulita e linda per almeno un paio d'ore. Senza di lei, da tempo, la zona sarebbe stata invivibile.

Umar rimase a osservarla per un po' e poi si diresse nella sala di ritrovo. Si fece un caffè. Alle sei meno un quarto andò a svegliare il collega, ma fece in modo che non si fermasse nella sala di ritrovo. Gli portò la tazza fumante nella segreteria, dove svolgevano il servizio diurno e dove, quindi, aspettavano il cambio. Il collega bevve con gusto il caffè, rallegrandosi al pensiero di avere la serata libera. Di lì a poco udirono arrivare la prima auto di uno dei colleghi del turno di giorno. L'uno dopo l'altro arrivarono tutti. Erano da poco passate le sei. La segreteria si riempì, perché era lì che stava il caffè. Un rituale. I superiori erano già presenti. L'aroma del caffè appena fatto si mescolava all'odore del sapone e del dopobarba. Umar salutò tutti, il collega del turno di notte si era fermato a chiacchierare con un conoscente di Rostov.

L'uomo mise in moto l'auto, uscì dal parcheggio e si immise sulla strada che costeggiava i palazzi. Si fermò in un punto dal quale aveva una buona visuale della facciata della stazione di polizia, prese la telecamera e se la depose in grembo.

6.16. Umar tolse il coperchio di plastica dall'obiettivo, accese la telecamera e la coprì con la giacca, in modo da lasciar scoperto solo l'obiettivo. Premette il pulsante dell'accensione.

6.17, lesse sul display della videocamera. La strinse forte e piantò il gomito sul cruscotto, cercando di restare immobile. Guardava attraverso il mirino.

6.18. Umar filmò la stazione di polizia che saltava in aria con un tremendo boato.

L'esplosione sventrò il lato sinistro dell'edificio. Lastre, telai di finestre, corpi umani volarono in aria. Una seconda esplosione, poi una terza e, infine, una quarta. L'ala sinistra dell'edificio era andata completamente distrutta, al centro si apriva un cratere. Le auto posteggiate vicine ai muri furono scaraventate per aria dalla detonazione.

Anche la spazzina era stata colpita dall'onda d'urto. Non si muoveva. Il grande cartone che utilizzava per raccogliere la spazzatura, era a pezzi. Umar spense la telecamera, la avvolse nella giacca e si allontanò. Missione compiuta.

 

Quando al mattino Raissa sentì dell'attentato alla radio, non aveva la benché minima idea di quale stazione si trattasse. Si parlava genericamente di Grosny. Fu amareggiata dal fatto che, ancora una volta, erano rimasti uccisi ceceni e civili innocenti. Perché coinvolgevano sempre più la sua gente? Raccontò alla madre dell'attentato, ma tenne per sé le proprie considerazioni.

La madre, invece, esclamò: «Perché permettono che muoiano sempre più ceceni?».

Raissa decise di recarsi al negozio del paese. Voleva saperne di più. Nella piccola bottega sicuramente non si sarebbe parlato d'altro. Infatti, davanti all'ingresso, erano raccolte delle donne che commentavano ad alta voce: «Devono esserci almeno venti morti».

«La maggior parte erano poliziotti russi.»

«È stato a Staropromyslovski.»

«Cosa vogliono anche qui?»

Fino a quel momento Raissa non aveva aperto bocca. Trasalì non appena udì quel nome. Staropromyslovski? Staropromyslovski era il quartiere di Grosny dove era stata torturata insieme alle sue sorelle.

In quel preciso istante Raissa seppe, con assoluta certezza, che i responsabili di quell'attentato erano i suoi fratelli.

Dovette farsi forza per non fare domande. Le donne del villaggio non avrebbero avuto altro da dirle. Inoltre sapeva benissimo che non parlavano volentieri con lei, perché erano stati i suoi fratelli che, per primi, erano andati sulle montagne. Da allora la famiglia di Raissa era stata considerata responsabile della partenza degli altri ragazzi. Nessuno osava dare apertamente voce a questa accusa, ma le amiche le avevano confidato le opinioni dei rispettivi genitori. Anche se tutti sostenevano la lotta agli invasori, nessuna madre era disposta a sacrificare volontariamente il proprio figlio.

Quando i russi, nel corso delle loro famigerate "operazioni di sicurezza", cercavano ripetutamente i fratelli di Raissa, perquisivano anche le altre case e mettevano le mani su qualsiasi uomo capitasse loro a tiro. Le donne erano convinte, perciò, che la famiglia di Raissa avesse portato sventura al villaggio. E quando anche un numero sempre maggiore di ragazze si unì al commando di vedove nere, inevitabilmente la colpa ricadde di nuovo sulla sua famiglia. Si diceva che i suoi fratelli fossero i reclutatori. Raissa, all'inizio, aveva pensato che si trattasse solo di una maldicenza, ma poi Achmed aveva portato via le sue stesse sorelle. Chissà se in paese si erano già accorti che Medina ed Hejda non c'erano più?

I genitori di Raissa, molto riservati, si erano sempre tenuti in disparte, cercando di sottrarsi il più possibile all'attenzione degli altri. Non erano ricchi, ma nemmeno poveri. Non manifestavano il benché minimo desiderio di assumersi il ruolo dei portavoce della comunità. Ma, volenti o nolenti, vivevano pur sempre ad Assinovskaia.

La maggior parte delle amiche di Raissa se n'erano andate da tempo. A parte Raissa, il villaggio sembrava abitato solo da vecchi. I giovani se ne erano andati a combattere sulle montagne. Alcuni avevano poco più di dodici anni e venivano utilizzati come corrieri. Oppure i guerriglieri li addestravano a mettere mine e a farle saltare. Ogni razzia fruttava nuovi adepti. Si vendicavano sui russi per le detenzioni, per i parenti o gli amici spariti senza lasciare traccia, per le torture e le esecuzioni sommarie.

Raissa non sopportava il fatto di essere rimasta l'unica ragazza del villaggio. Con chi poteva parlare? Con queste vecchie che sbraitavano in mezzo alla strada? Neanche il tempo di tornarsene a casa, che già sarebbero piovuti i pettegolezzi. Comprò farina e zucchero. Quando depose gli acquisti sul tavolo da cucina, la madre la guardò con aria interrogativa. «Staropromyslovski, dicono. Vediamo le notizie.»

«Staropromyslovski?», chiese la madre. «Ma è dove hanno portato voi… Oh, Raissa, sono stati loro! Sono stati Achmed e Aslan. Volevano vendicarvi. Lo avevano giurato. Ora i russi si metteranno ancora di più alle loro calcagna. Avete mai raccontato in paese dove siete state portate?»

«No, mamma. Ma ricordati che qualcuno ci ha aiutate. La donna che ha chiamato il marito affinché ci portasse a casa. Ovviamente la gente ne parla. Qualcuno dei nostri conoscenti lo verrà a sapere, stanne certa. Possiamo solo sperare che nessuno della polizia se lo ricordi. Ma non possiamo farci conto. Quanto scommetti che tra un po' avremo visite?»

Erano stati proprio i suoi fratelli a compiere l'attentato? Erano arrivati davvero fino a Grosny? O avevano incaricato qualcuno? Raissa pensò ai poliziotti che l'avevano torturata. Non le dispiaceva affatto per loro. Avevano avuto quel che meritavano.

All'ora del notiziario, il padre si mise a sedere con loro nel soggiorno. Anche lui trasalì nell'udire il nome di Staropromyslovski. «Ma è dove ho pagato la cauzione per voi. Qui c'è sicuramente di mezzo Achmed. Non fa che peggiorare le cose.»

Raissa non si era sbagliata. Quella stessa settimana, come di consueto, nelle prime ore del giorno, arrivò una camionetta. Quattro uomini in tuta mimetica e anfibi bussarono alla porta. Uno portava un berretto nero, gli altri tre berretti con visiera. Sulle mostrine al petto e sulla manica stava scritto Omon e Ministero degli Interni Russi. Anche senza quelle, bastava il berretto a rivelare a Raissa con chi aveva a che fare: teste di cuoio, l'unità speciale della polizia russa, nota per la sua brutalità. Anche in questa unità si arruolava un numero sempre maggiore di ceceni. Erano pagati molto bene e, per un paio di rubli, erano pronti a tradire Allah e la patria.

Raissa aveva indossato la tuta sopra la camicia da notte, si era avvolta un foulard attorno alla testa ed era andata ad aprire la porta.

«Sei Medina?» disse in ceceno il capo con il berretto.

«No.»

«Hejda?» «No.»

«Allora sei Raissa.»

«Mm.»

«Chiama le tue sorelle. Dobbiamo parlare con voi.»

«Le mie sorelle non ci sono.»

«Dove sono?»

«Dalla nonna. La curano. È in fin di vita.»

«Dov'è tua nonna?»

«A Khasaviurt.»

«Controlleremo, stanne certa. Allora adesso parliamo con te.»

«Di cosa?»

«Dietro all'attentato alla stazione di polizia ci sono i tuoi fratelli?»

«E io che ne so? Perché dovrebbero essere stati loro?»

«Non fare finta di niente. Perché è la stessa stazione dove siete state portate voi.»

«Io non so come si chiamava la stazione. Era a Grosny. Ce ne sono molte.»

«Ma guarda caso era proprio la vostra. Dove sono i tuoi fratelli?»

«Non lo so.»

«Quando sono stati qui l'ultima volta?»

«Non ne ho idea. Molto tempo fa.»

«Cosa significa molto tempo fa? La settimana scorsa, il mese scorso, in primavera? Rispondi!»

«No.»

«No, cosa?»

«Non sono stati qui ieri e neanche il mese scorso e neanche in primavera. L'ho già detto, non li vedo da un'eternità.»

Raissa pensò che l'avrebbero di nuovo portata via. Ma il capo fece un gesto strano. Diede ordine ai suoi uomini di perquisire la casa e il cortile. Poco dopo erano spariti.

I fratelli non si fecero vedere e da settimane, ormai, non si sapeva più nulla delle sorelle. Raissa non avrebbe mai pensato di potersi sentire così sola. Lei, che aveva nove fra fratelli e sorelle: lei, che aveva sempre avuto un sacco di amiche. Il silenzio che regnava in casa la faceva stare male.