Strumento di propaganda

I genitori sembravano aver perso il coraggio di vivere o qualsiasi tipo di interesse nei confronti del mondo circostante. Non riuscivano ad accettare il fatto che fosse stata rifiutata loro la possibilità di dare l'estremo saluto alle fighe. La madre di Shura si trasferì, come aveva detto. Non avevano mai avuto contatti con i genitori di Larissa e nessuno al villaggio voleva più avere a che fare con loro. Gli stessi poliziotti dei servizi segreti che, poco dopo il tragico sequestro, li avevano prelevati più volte per ascoltarli, sembravano essersi resi conto che i due vecchi non avevano più nulla da dire. L'unico contatto con il mondo esterno era Raissa, che si occupava degli acquisti. Lei, però, evitava accuratamente i negozi del villaggio, preferiva andare in bus fino a Grosny, al mercato, che era anche sempre una fonte di notizie. Dopo le ore trascorse in solitudine nella casa paterna, aveva bisogno di incontrare gente. La confusione non le dava mai fastidio, anzi le sembrava che non ce ne fosse mai abbastanza. Voleva sentire voci, pettegolezzi, vedere volti diversi, riempirsene le orecchie e gli occhi, per ricordarseli quando doveva ripiombare nel silenzio tombale di casa sua.

 

La madre di Raissa continuava ad alzarsi presto, com'era sempre stata abituata a fare. Si vestiva, e si metteva a sedere nella cucina buia, accanto alla stufa spenta. Raissa le prendeva la legna dalle mani e incominciava a fare la pasta per il pane. Manteneva la casa in ordine, cucinava per i genitori e controllava che mangiassero qualcosa. Li metteva davanti al televisore perché tendevano a isolarsi sempre più in angoli remoti e diversi della casa. Evitava accuratamente i programmi d'intrattenimento musicale, perché ricordavano Hejda e facevano soffrire.

Nelle belle giornate dorate che l'autunno ancora una volta donò loro, Raissa portava i genitori nella cucina estiva. Tutti amavano la cucina estiva, ma quell'anno l'avevano usata proprio poco. Quando faceva più fresco era come stare in una veranda, si era protetti dal vento, ma comunque si stava all'aperto. Nella calura offriva un'ombra fresca e le donne potevano sbrigare lì le loro faccende senza sentirsi rinchiuse in casa. In estate la vita di casa si svolgeva qui. Qui si impastava, si cuoceva, si cucinava, si facevano le conserve, qui si mangiava, si chiacchierava. Per una pennichella erano belli e pronti dei divani, si portava fuori anche il televisore. Se arrivavano degli ospiti che non si voleva far entrare in casa, non si peccava di malagrazia nel riceverli nella cucina estiva a bere una tazza di tè. Dalla cucina estiva, inoltre, tenevano d'occhio tutto il cortile.

Avevano appena finito di cenare e Raissa stava armeggiando davanti all'acquaio. I suoi genitori guardavano il notiziario e Raissa faceva attenzione a non fare troppo rumore con i piatti, perché voleva sentire anche lei. Ciononostante non riusciva ad afferrare una sola parola. Da qualche parte iniziava a provenire un rumore. Come di un motore, ma sempre più forte. Un elicottero. Si stava avvicinando. Raissa imprecò, perché volava nonostante ormai fosse buio, e così basso, per giunta. Alzarono il volume del televisore, ma non riuscivano a contrastare il rumore.

Raissa fece un passo più fuori e guardò il cielo. L'elicottero puntava diretto verso di lei. «Vengono qui da noi!», urlò. «Giù! Giù! Mettetevi giù!» Poi ci fu un crepitio tremendo.

L'onda d'urto fece volare Raissa in cucina.

L'elicottero virò.

Raissa fu la prima a riprendersi e a rialzarsi. Cautamente sgusciò fuori, nel cortile. Il secondo piano della casa era completamente distrutto. «Quei porci ci vogliono ammazzare.» Tutti e tre tesero l'orecchio, ma l'elicottero non tornò. I genitori si spinsero di qualche passo nel cortile e rimasero inorriditi. La loro casa a due piani, che avevano costruito prima con le loro mani e poi con l'aiuto dei figli, dei cugini e degli zii, era semidistrutta. La stanza delle ragazze e la stanza da letto non c'erano più. Erano rimasti intatti solo i versetti del Corano che Hejda aveva dipinto come un fregio sulla parete, nel corso dell'ultima visita. Il soggiorno e la cucina al piano terra erano scoperchiati.

Dalle macerie si alzavano delle fiamme. I vicini accorsero. Qualcuno urlò: «Prendete dell'acqua!». Qualcun altro portò dei secchi. Formarono una catena e aiutarono a spegnere il focolaio. Raissa apprezzò moltissimo questo intervento, dopo tutto quanto era successo. Ringraziarono i vicini.

«Dove andate, ora?», chiese qualcuno.

Il padre rispose: «Per ora rimaniamo qui, staremo nella cucina estiva. Oggi ci ha salvato la vita, ci sistemeremo anche per la notte. E poi», proseguì, anticipando la domanda successiva, «vedremo. Troveremo qualcosa. La nostra famiglia è grande».

Il vicino annuì. Le donne tirarono i foulard di lana fin sulle spalle e si voltarono per andarsene. «Fateci sapere se avete bisogno di qualcosa.» Era la vecchia solidarietà, come durante le notti dei bombardamenti.

«Allah sia con voi.»

Quando i vicini se ne furono andati, la madre scoppiò a piangere. «Dove abiteremo? Dove andremo?»

Anche il padre dovette sedersi, l'incendio e la vista delle macerie annerite lo stremavano. Tuttavia si rianimò, per amore della moglie: «Andrò da Ibrahim. La sua casa è quasi pronta e forse per un periodo di tempo ce la potrà prestare. Ci si potrà trasferire in un secondo momento, mentre faremo i lavori qui».

«Come facciamo a ricostruirla? I tuoi figli se ne sono andati.»

«Forse ci aiuteranno i figli di Ibrahim. Quando, se non in un momento così, una famiglia deve aiutare l'altra? Stai calma, vedrai, si aggiusterà tutto, andrà tutto bene.» Era in piedi dietro a sua moglie e le carezzava le spalle. Poi lanciò uno sguardo a Raissa facendole capire che doveva occuparsi della madre, lui voleva andare dal cognato.

Lo zio abitava nel villaggio accanto, in una casetta minuscola, troppo piccola per la sua famiglia. Con la bisnonna, i nonni e gli otto figli, erano ben tredici persone. Da tempo volevano trasferirsi, ma non riuscivano mai a finire la nuova casa. La guerra ritardava sempre i lavori. Ora il padre di Raissa doveva chiedergli ospitalità. Raissa poteva immaginare quanto gli costasse.

Dalle macerie della casa Raissa aveva tirato fuori abiti e coperte. Molte cose erano andate distrutte nell'incendio, ma alcune si potevano recuperare, anche se tutto puzzava inesorabilmente di bruciato. Si organizzarono per la notte. Raissa avrebbe dormito insieme alla madre su uno dei divani, sull'altro avrebbe dormito il padre.

 

Gli preparò già il letto, così, quando fosse tornato più tardi, l'avrebbe trovato già fatto. Poi le due donne andarono a dormire. Faceva molto freddo. La cucina estiva non era la soluzione migliore, come rifugio di emergenza.

 

Raissa non aveva sentito rientrare il padre. Il profumo del pane appena cotto le solleticò le narici, un bel tepore le riscaldava un fianco. La madre, che al mattino s'era alzata per prima, aveva già acceso il forno e aveva fatto il pane. Che gioia, che progresso! Le erano ritornate la vita e la voglia di lottare. Ogni disgrazia serviva a qualcosa, constatò Raissa fra sé e sé.

Anche se dovettero impegnarsi, cercarono di non svegliare il padre. Quando si svegliò, attesero che raccontasse loro com'era andata.

«Nessun problema, ci possiamo trasferire nelle due stanze di sotto. Hanno detto che ce le possono prestare, per i prossimi mesi. E i figli di Ibrahim mi vogliono già aiutare a sigillare la casa per l'inverno, così in primavera potremo incominciare subito con i lavori. Le donne vi vengono a dare una mano, se volete portare via dei mobili.»

«Come potremo sdebitarci?», chiese la madre.

«Non pensarci. Sono contenti che i russi non ci abbiano uccisi. E anche noi dovremmo esserlo. Volete dare il pane fresco alle galline, o si può fare colazione?» esclamò leccandosi i baffi.

Da tempo Raissa non lo vedeva più così di buon umore. Erano rimasti illesi durante l'attentato e proprio quando ne avevano avuto più bisogno, i vicini e la famiglia non li avevano abbandonati. Era come se avessero avuto in dono un'altra vita.

Si trasferirono nella nuova casa, che non aveva ancora il pavimento ma che, almeno, aveva un tetto, finestre e porte. In una stanza e nella cucina c'era una stufa e la toilette estiva era già stata usata durante i lavori di costruzione.

Stavano bene nella loro nuova casa. Raissa propose alla madre di cucire delle tende da regalare alla cognata. Alla madre l'idea piacque, così, almeno potevano mostrare un po' di gratitudine ai loro benefattori.

Nulla aveva preannunciato il loro arrivo. I soldati mascherati di nero erano entrati di nuovo in casa, senza fare rumore. Una notte, poco prima che finisse l'anno, Raissa se li ritrovò in camera da letto. Né lei, né la madre li avevano sentiti arrivare. E di nuovo il terrore si impadronì di loro. «Come lo sanno, che ora stiamo qui?», fu il primo pensiero di Raissa.

Si era messa a sedere nel letto, tirandosi le coperte fino al mento.

La madre era furiosa: «Non ci fate almeno vestire? Volete strapparci anche le coperte? Ci avete già tolto la casa».

«Non ti arrabbiare, vecchia, non c'eravate dentro. Di che ti lamenti? Non parli certo così ai tuoi figli wahhabiti e le tue figlie non hanno bisogno delle nostre bombe: usano le loro.»

Tremando la madre afferrò il foulard di lana, ai piedi del letto. Mentre se lo metteva, con un lembo si asciugò gli occhi.

«Non piangere, vecchia. Da te non vogliamo niente. Vogliamo parlare un po' con questo fiorellino qui. Vestiti. Seguici», urlò il capo a Raissa. Si maledisse per non essere andata a letto vestita. Durante i bombardamenti avevano preso l'abitudine di farlo. Come aveva potuto essere così sprovveduta? Ora stava lì, ferma, e non sapeva come fare a togliersi la camicia e a infilarsi gonna e pullover davanti a quei bei tipi. Per guadagnare tempo cominciò dal fazzoletto, poi si mise i calzini.

La madre disse con voce alta e ferma, che sorprese Raissa: «Potreste almeno voltarvi, se non potete uscire dalla stanza». Uscirono. Raissa indossò una gonna di velluto, lunga e calda, un pullover nero e, al posto dei calzini, mise Se calze lunghe, quelle calde di lana. «Prendi questa giacca, così almeno non congeli», le sussurrò la madre. Raissa era già pronta quando la porta si spalancò. «Fuori, ora. Sbrigarsi!», abbaiò il capo, Dietro i quattro uomini nel corridoio Raissa vide suo padre. «Cosa è successo? Dove la portate? Di cosa la accusate?»

«Questo ce lo racconterà lei.»

«Dove la portate? Dove possiamo venirla a prendere?», chiese la madre.

«Chiedi troppo. Qui le domande le facciamo noi.»

Raissa immaginava fin troppo bene cosa l'aspettava. Aveva paura. Paura di essere violentata. Quella sarebbe davvero stata la fine.

La portarono a Grosny. Non nella vecchia stazione di polizia della volta precedente, perché non esisteva più. Era un edificio nei pressi del mercato centrale, quindi al centro città. Erano a bordo di una jeep militare. Raissa sedeva sul sedile posteriore, schiacciata fra due miliziani dell'Omon dalla figura imponente. Gli altri due erano seduti davanti. Il capo si voltò verso di Sei e, già in macchina, iniziò a interrogarla.

«Lo sapevi che le tue sorelle erano entrate nelle vedove nere?»

«Solo quando le ho viste morte alla televisione.»

«Quando si sono unite al commando?»

«Non lo so.»

«Lo saprai pure, quand'è che se ne sono andate di casa!»

«In estate, ma avevano detto che andavano a curare la nonna malata a Khasaviurt.»

«I vostri vicini ci hanno raccontato che non le hanno più viste dalla primavera scorsa.»

«Sono andate via in estate.»

«Chi le ha reclutate, i tuoi fratelli?»

«Non so chi le ha reclutate. Quando se ne sono andate, hanno detto che andavano dalla nonna a Khasaviurt.»

«Ma voi non avete una nonna a Khasaviurt.»

«Certo che l'abbiamo. È a Osmanuiurt, un piccolo villaggio a cinque chilometri da Khasaviurt.»

«E dove sono i tuoi fratelli?»

L'interrogatorio durò ore e ore. Le sorelle, i fratelli, i comandanti, il wahhabismo, Movsar Baraev – le chiesero tutto, ma proprio tutto. Anche dell'attentato alla stazione di polizia di Staropromyslovski e del sequestro di Dmitri. Elencarono tutti i crimini compiuti dai fratelli. Tuttavia Raissa si guardò bene dall'ammettere cose che loro non sapessero già.

La tennero rinchiusa per vari giorni, di tanto in tanto la portavano a un interrogatorio, la insultavano con diversi epiteti, ma non andarono oltre. Stravolta, senza essersi potuta nemmeno lavare, una mattina Raissa si ritrovò in strada, davanti alla stazione di polizia. Non sapeva come tornare a casa. Non poteva prendere l'autobus perché non aveva nemmeno un rublo con sé. Congelava, non le avevano nemmeno permesso di riprendersi la giacca. Aveva fame. Il cibo che le portavano era immangiabile. Quando il terzo giorno aveva chiesto qualcosa di diverso da quella zuppa indefinibile, il custode le aveva urlato: «Se vuoi ti posso servire della merda!».

Si diresse verso il mercato centrale. Sapeva che lì si fermava l'autobus che faceva il giro dei villaggi. Forse avrebbe incontrato qualcuno che conosceva e che le avrebbe prestato i soldi per il biglietto. Aveva fatto pochi passi quando una Lada si fermò accanto a lei. Era alla guida un anziano ceceno, che le disse: «Vieni, ti do un passaggio. O non devi andare a casa?».

Raissa in un primo momento non l'aveva riconosciuto, ma poi vide che si trattava davvero di un anziano di Assinovskaia.

«Anch'io sto tornando indietro, sali che ti porto a casa.» Avrebbe potuto essere suo padre.

«Sei stata lì?», intendeva la stazione di polizia. Raissa non rispose.

«Va bene.»

In silenzio percorsero le strade di Grosny, costellate da macerie. Ogni incrocio era presidiato da militari. Si fermavano ai posti di controllo, ma per lo più venivano invitati a proseguire. Un vecchio e sua figlia – evidentemente credevano che fosse sua figlia – non destavano i sospetti dei militari.

I soldati facevano loro cenno di passare. Una colonna russa era in movimento, il che rendeva tutti nervosi. Si accodarono all'ultimo veicolo.

Anche il vecchio ceceno era inquieto. Elicotteri sorvolavano i carri armati e le camionette della colonna. Il vecchio si spostava continuamente sul sedile, si piegava sul volante, come se da lì potesse avere una visuale migliore. Non appena poté, si immise sulla corsia di sorpasso, per nulla scoraggiato dal traffico in senso contrario. Raissa, sul sedile del passeggero, era tesissima, perché la strada era stretta. Era impossibile rientrare dietro alla colonna, e non ci si poteva nemmeno spostare sulla corsia più a destra, c'era divieto di transito. Dovevano terminare il sorpasso, a ogni costo. Con tutta probabilità i guerriglieri avevano disseminato cariche d'esplosivo sulla corsia di destra e sul bordo della strada, per far saltare in aria i trasporti di truppe russe. Gli attacchi più frequenti contro gli odiati "federali" seguivano proprio questo copione.

Il vecchio non aveva altra scelta. Doveva superare sulla sinistra la colonna e poteva solo sperare che gli autisti dei veicoli in senso contrario capissero perché viaggiava sulla loro carreggiata.

I motori degli elicotteri che volavano a bassa quota lo rendevano ancora più insicuro. Imprecò. Quando, infine, raggiunsero il veicolo alla testa della colonna, Raissa tirò un sospiro di sollievo. Aveva contato settantadue carri armati, carri che traboccavano di soldati. Autocarri pieni di gente in uniforme. Sul veicolo alla testa della colonna sventolava un'enorme bandiera russa, bianca rossa e blu – una pura provocazione. Nessuna meraviglia che questo movimento di truppe potesse provocare la reazione dei separatisti.

Finalmente si avvicinava il bivio per Assinovskaia e poterono lasciare la provinciale. Il villaggio sembrava morto, per strada non si vedeva nessuno. L'uomo portò Raissa al suo vecchio indirizzo. Lei sapeva che lui abitava da un'altra parte.

«Mi lasci pure qui, proseguo a piedi.»

«Così ti riacchiappano subito? Se ti trovano qui, penseranno che sei andata a mettere mine. Prima ancora che ce ne rendiamo conto ordinano alla colonna di puntare qui e ci ritroviamo il villaggio circondato. No. Ti porto a casa.»

Raissa gli indicò la strada per andare a casa dello zio. Lo ringraziò, e lui proseguì.