Di notte, quando arrivano i fratelli

L'anno volgeva al termine. Il sole splendeva come se volesse illuminare anche l'angolo più remoto della misera esistenza di Raissa. In quei giorni il cielo si apriva in ampie schiarite, come per dire: «Prendete esempio da me, finitela di rintanarvi!». Anche le nuvole, che passavano in fretta, sembravano esortarli: «Datevi da fare, o volete restare lì con le mani in mano?».

Ma Raissa e i suoi genitori si ritraevano. Si isolavano, ciascuno restava solo con il proprio dolore, con il proprio lutto e con i propri pensieri. Non appena il sole era abbastanza caldo, il padre usciva di casa. Restava per ore in cortile, seduto su una panchina, in un angoletto al riparo dal vento e fissava il vuoto davanti a sé. La madre sì recava sulla tomba di Fatima, come se sperasse di trovare lì anche Medina e Hejda. Raissa non riusciva a trovare pace.

Si sentiva persa e dimenticata. La nuova casa era al margine del paese. Non c'era il passaggio dei vicini, perfino i bambini giocavano da un'altra parte. Dava da mangiare alle poche galline, faceva la spesa, preparava il pane e cucinava. Ora che erano rimasti solo in tre non c'era molto da fare, perciò trascorreva la maggior parte del tempo davanti al televisore.

Raissa dormiva sempre peggio. Non passava notte senza che si svegliasse per gli incubi. Continuava a sognare di scappare dal fuoco. Bombe erano esplose accanto a lei, poi era scoppiato un incendio e doveva sbrigarsi a uscire dalla casa che bruciava. Scavalcava balaustre infuocate poi, però, si rendeva conto che non era lei a camminare, la portavano due uomini senza volto che la tenevano per i polsi, uno a destra e l'altro a sinistra. Raissa si voleva scrollare di dosso le mani sconosciute, ma quelle stringevano di più. Alla fine riusciva a liberare una mano. Cercava di liberare anche l'altra ma, all'improvviso, sentì un dolore. Si svegliò, si sfregò la mano con la quale aveva urtato il muro. Cercò di mettere ordine nei suoi pensieri: si trovava nella cucina della casa di suo zio. Il divano era accanto alla stufa bollente, di fronte alla finestra. Aveva preferito sistemarsi lì, invece che continuare a dormire insieme alla madre.

Era notte fonda. Dalla finestra della cucina si scorgeva solo la luna. Accanto russava il padre. Ormai Raissa era completamente sveglia. Si alzò, si avvicinò alla finestra e guardò fuori, lontano. La prima neve aveva disteso un velo bianco, leggero e sottile. Si intravedevano i contorni del terreno come attraverso una camicia da notte trasparente. La superficie era argentea.

Nulla disturbava questo manto bianco che brillava, puro e immacolato, alla luce della luna.

«Che meraviglia», pensò Raissa e si rese conto che, da tempo, non aveva un pensiero così bello. Da molto, molto tempo non aveva più visto nulla di bello. Una profonda pace si impadronì di lei. Tornò a letto e si riaddormentò.

Nei giorni seguenti nevicò più forte. Uno strato spesso copriva i campi, mentre le strade del villaggio si trasformavano in pantani, come sempre quando non faceva abbastanza freddo da gelare il terreno.

Una notte – Raissa si era appena coricata – qualcosa sbatté sul vetro di una finestra, facendo un rumore sordo. Vide tracce di neve sul vetro. Aspettò. Lo colpì una seconda palla di neve. Infilò la giacca della tuta sulla camicia da notte e aprì la finestra.

Ascoltò nel silenzio della notte.

«Raissa, apri, ma senza far rumore.»

Riconobbe la voce di Achmed. Erano arrivati i suoi fratelli.

Raissa infilò la camicia da notte nei pantaloni della tuta e si affrettò ad aprire la porta di casa. Li salutò entrambi abbracciandoli di fianco.

«Non accendere la luce, nessuno deve sapere che siamo qui.»

«Volete mangiare?»

Loro fecero cenno di sì col capo e presero posto a tavola. Raissa andò in cucina, facendo ben attenzione a non fare rumori inutili. Mise per prima cosa la pentola sul fuoco. L'acqua bollì in fretta. I fratelli trangugiarono avidamente il tè caldo e dolce e si riscaldarono le mani sulle tazze.

«Come stanno?», chiese Achmed, indicando la porta dietro la quale immaginava stessero i genitori.

«Male, non riescono ad accettare che non possono dare loro nemmeno una sepoltura.»

«Sì, quei porci russi sanno come farci male. Le devi vendicare.»

«Io? Ora, all'improvviso? Quando le hai portate via, hai detto che dovevo restare con i nostri genitori. Hai cambiato idea?»

«Ora non abbiamo ospiti. Pensaci su.»

«C'è un nuovo commando di vedove?»

«È sempre il vecchio, continua ad arrivare gente.»

«Cosa avete in mente?»

«Lo saprai se ti unisci a noi. Io so solo che presto ci sarà qualcosa di grosso. Se vuoi vendicare le tue sorelle, vieni con noi.»

«Non lo so.» Aveva rassicurato Medina, e Hejda dicendo loro che sarebbero tornate a casa. E cos'era successo, invece? Erano morte. Sarebbero andate se avessero saputo che la loro missione sarebbe finita così? Medina, forse, sarebbe andata. La sua rabbia contro i russi era tale, che non si sarebbe tirata indietro. Ma Hejda? Perché? Di sicuro Hejda non voleva morire. E lei? Doveva, voleva vendicare le sue sorelle? Cosa ottenevano con questo eterno ciclo di uccidere e morire?

«Hai pure dei dubbi?»

«Cosa ne sarà dei nostri genitori? Non possiamo lasciarli soli.»

«Dimenticalo, vigliacca», l'apostrofò Achmed.

Spostò con uno strattone la sedia e balzò in piedi. Aslan si sforzò di fare meno rumore. Poco prima di raggiungere la porta Achmed si voltò verso la sorella e le lanciò uno sguardo sospettoso: «Almeno hai preso le armi dal giardino?».

«Non ho potuto. Mi osservavano. Sono ancora lì, dove le hai sepolte tu.»

«È un bene che la bomba sia caduta solo sulla casa, prima o poi passiamo a prenderle.»

«Achmed, i nostri genitori – tuo padre – per un pelo non è morto. È stato solo un caso se eravamo nella cucina estiva e non dentro la casa.»

«Di che ti scaldi? Siete vivi, no? Non farla tanto lunga, non è successo niente.»

Se ne andarono. Aslan non aveva detto una sola parola, né l'aveva guardata una sola volta negli occhi. Evitava sempre il suo sguardo. Era altrettanto privo di scrupoli come Achmed, quando si trattava della vita degli altri?

Raissa si sentì gelare. L'insensibilità dei fratelli, che mandavano al macello il resto della famiglia, la fece rabbrividire.

 

L'anno vecchio finì con un nuovo attentato. Un camion pieno di esplosivo si lanciò contro il palazzo del governo di Grosny, protetto da più recinzioni. Il camion aveva dovuto passare attraverso due cancellate. Le telecamere mostravano le guardie che facevano cenno al camion di passare. O conoscevano gli autisti, oppure i loro documenti non suscitavano sospetti.

Quando il camion attraversò il secondo cancello, l'autista accelerò e si lanciò contro la sede del governo, come se volesse tamponarlo.

La bomba esplose con una tale violenza che saltò in aria tutto l'edificio. Morirono oltre settanta persone, fra le quali anche funzionari ceceni che avevano cambiato padrone e che lavoravano per Mosca. E naturalmente, morirono ancora una volta anche civili innocenti.

Raissa si chiese se era questo il colpo cui s'era riferito Achmed. Quale sarebbe stato il suo compito? Rubare il camion e caricare i sacchi di esplosivo era un lavoro da uomini. Sedere con l'autista suicida nell'abitacolo e ingannare le sentinelle? Le sentinelle sembravano sempre meno sospettose in presenza di donne. Donne e attentati non erano un'equazione probabile. Perché no? Di quanti esempi avevano ancora bisogno per capirlo?

Quale vedova nera questa volta aveva collegato i fili, innescando l'esplosione? O l'esplosione era stata innescata solo dall'urto? Quale donna avrebbe accettato di farsi dilaniare in mille pezzi da un intero carico di esplosivo, al punto da rendere impossibile capire a chi fosse toccato d'andare direttamente in paradiso? E ci si arrivava lo stesso in paradiso? Anche se si era a pezzi, bruciati, mutilati? Come faceva Allah a capire chi gli chiedeva di entrare?

Se avesse seguito Achmed, sarebbe morta davvero anche lei? E i suoi genitori non avrebbero potuto seppellire nemmeno lei, perché anche di lei non sarebbe rimasto nulla? Achmed l'avrebbe realmente venduta al suo comandante in cambio di denaro… magari per una promozione? L'avrebbe mandata a morire così, senza farsi tanti problemi? Sì, sì, sì, purtroppo sì.

Raissa si sentì montare dentro una rabbia indescrivibile. Achmed era un assassino, la morte delle sorelle l'aveva lasciato talmente indifferente, ch'era già pronto a far ammazzare anche la terza. Se fosse andata con lui a quest'ora già sarebbe stata morta. E poi, chi avrebbe scelto, sua moglie? La vita di una persona, di una persona a lui cara, non contava niente?

Raissa si chiese dov'era andato a finire il ragazzo che era in lui. La morte di Fatima lo aveva sconvolto a tal punto da indurlo ad andar via di casa per vendicarla. Con la morte della prima sorella sembrava essere morta anche qualsiasi sua emozione. La vita del campo con le bande armate lo aveva ridotto come un animale selvatico. Per i comandanti dei guerriglieri lui, con la sua totale assenza di scrupoli, era un idiota utile, che li riforniva costantemente di carne da macello.

La reclutava direttamente all'interno della propria famiglia, scegliendo la strada della minore resistenza. Prima Aslan, poi i gemelli e, alla fine, quando non c'erano più maschi, aveva consegnato le donne al commando di kamikaze.

Raissa si chiese che differenza faceva se la uccidevano i russi o se la mandavano a morte i suoi fratelli. Non aveva proprio nessun'altra prospettiva se non la morte? E perché sembrava valere di più da morta che da viva?

La morte era in agguato ovunque. A volte aleggiava nell'aria sopra di lei con il suo carico di bombe, a volte indossava le uniformi dei russi, una volta le si era presentata a casa, sotto le sembianze di suo fratello. La morte aveva aiutanti dappertutto.

 

Non nevicava più e la pioggia battente riempiva le pozzanghere della strada del villaggio. Le giornate si allungarono. Raissa si perse nei ricordi. Medina si era sposata circa un anno prima, proprio in quello stesso periodo. Aveva ancora davanti agli occhi la macchina degli sposi imbrattata di fango.

La giovane attraversò in fretta il villaggio per raggiungere la casa dei genitori. Diluviava. Aveva lasciato di proposito la casa degli zii sotto quella pioggia battente per non incontrare nessuno. Sbirciò nel giardino attraverso il recinto, diverse armi erano già state dissotterrate. Raissa socchiuse il portone del cortile quel tanto che le permise di entrare. I grandi teloni di plastica azzurra, che dovevano sostituire il tetto bombardato della casa, erano scossi dal vento. A tratti vi si erano formati dei ristagni d'acqua. Ci si sarebbe potuto fare un bagno.

Ma Raissa non ci fece caso. Passò velocemente accanto alla cucina estiva ed entrò nell'orto. Era tutto sottosopra. Grazie al cielo. La terra era scura e grassa, Achmed non poteva essersene andato via da molto. Aveva preso le armi. "Speriamo tutte", pensò Raissa. "Allah, fa che le abbia prese tutte." Raissa, in quella casa, si era sempre sentita come su di una polveriera.

Non aveva mai pensato al rischio che avevano corso lei e la sua famiglia. Se, durante una perquisizione, i soldati russi avessero iniziato a scavare, li avrebbero certamente tutti arrestati.

Sperava con tutto il cuore che Achmed e Aslan non avessero lasciato più nulla. Poi, con calma, non appena la pioggia avesse smesso di cadere, avrebbero potuto riparare la casa dei genitori senza rischiare di ricevere una visita dei fratelli. Il padre avrebbe potuto raccontare di aver già preparato l'orto per la nuova semina. Sarebbe sembrato ben strano, invece, se, nel bel mezzo della ricostruzione, qualcuno avesse lavorato nell'orto e non in casa.

Raissa si riparò nella cucina estiva. Sedette su uno sgabello basso e dopo un po' sentì un leggero miagolio. «Kiska. Sei tu. Mascalzona. Preferisci star qui, vero?» Prese in braccio il gatto bagnato e lo accarezzò. Quante volte aveva cercato di portarlo nella loro nuova abitazione, ma era sempre fuggito via. Ora le faceva le fusa e, con la zampa anteriore, raspava nello stesso punto. Infilò gli artigli nella gonna di Raissa e tirò dei fili di stoffa. «Piano, rompi tutto, mettiti tranquillo e fai il bravo.» Il gatto si girò un paio di volte e alla fine si mise a sedere. Faceva così tante fusa che sembrava un piccolo motore.

La pioggia smise di cadere e fece capolino il sole. Per un brevissimo momento Raissa chiuse gli occhi e assaporò il calore e la luce di cui aveva tanto sentito la mancanza. Un attimo dopo una nube minacciosa oscurò il sole e finì anche quel momento di pace. Il giorno ripiombò nel suo consueto grigiore.

L'umore di Raissa era pessimo. Si alzò con uno scossone e fece saltar via anche il gatto, che scappò di corsa e che, solo quando fu a distanza di sicurezza, si voltò a guardarla. A Raissa dispiacque di averlo spaventato. «Torniamo presto. E poi abiteremo tutti insieme», gli promise. Il gatto la guardò con indifferenza e si allontanò. A passi lunghi Raissa si affrettò verso la porta del cortile. Le sue galosce, troppo grandi, sbatacchiavano, a ogni passo facevano rumore.