Seda Umarova

Raissa allungò dal rotolo un pezzo di nastro adesivo. Tenendo un'estremità fra i denti, lo srotolò. Mise da parte le forbici e si piegò, facendo attenzione ad afferrare la parte inferiore del nastro senza farlo appiccicare su se stesso. Tenendosi in equilibrio portò il nastro verso la finestra. Con un piede stava sulla tavola, con l'altro sulla sedia di cucina. Si girò per far sì che la striscia combaciasse esattamente alla fessura fra il telaio della finestra e il muro, poi la applicò con il palmo della mano e fece pressione. Lisa le aveva spiegato come fare. Raissa continuò a mettere il nastra adesivo a tutte le finestre della casa. Erano i preparativi per l'inverno. I doppi infissi non erano a tenuta stagna e ben presto vi si sarebbe insinuato il vento gelido.

Trascinò la sedia della cucina verso la finestra successiva, quando, all'improvviso, suonò il telefono.

«Pronto?»

«Raissa?»

«Chi parla?»

«Sono contento di trovarti a casa. Arrivo subito.»

La persona che aveva chiamato riattaccò.

Cercò di ricordare a chi apparteneva quella voce. Era dell'uomo dell'FSB?

Raissa decise dì smettere per il momento con il nastro adesivo. Portò la sedia in cucina, tirò le tendine davanti alla finestra e si guardò allo specchio. Tolse la tuta da ginnastica e infilò un vestito. Legò i capelli in una coda di cavallo, che fissò in uno chignon con un paio di forcine.

Attese. Quando suonò il campanello, sbirciò attraverso lo spioncino. Nelle scale c'era il funzionario dei servizi segreti, Raissa gii aprì.

«Seda Umarova?»

Raissa lo guardò senza capire.

«Seda Umarova. Sei tu. D'ora in poi ti chiami così.»

Mentre bevevano il tè e mangiavano biscotti, lui le raccontò la sua nuova identità. Cecena del Daghestan, di Khasaviurt, figlia di una compagna di studi della madre di Lisa. Suo padre era morto durante la prima guerra cecena. Sua madre era morta da poco a seguito di una grave malattia. Anni fa la madre si era fatta promettere dall'amica – che abitava al Nord – che, se le fosse successo qualcosa, si sarebbe presa cura di Seda e le avrebbe fatto imparare un mestiere. E la madre di Lisa si era fatta fare la stessa promessa. Le loro figlie non sarebbero state solo delle mogli. E ora che l'amica era morta, la madre di Lisa aveva tenuto fede alla promessa fatta e aveva preso con sé Seda, così che imparasse un mestiere qui al Nord.

«E cosa devo diventare?»

«Cosa vuoi diventare?»

«Insegnante di inglese.»

«Non puoi studiare qui a Ussinsk. Dovresti andare a Syktyvkar, la capitale. La repubblica dei comi è molto grande come superficie, ma ci vivono poche persone. Troppo poche per aprire un'università. Bisogna andare nella capitale.»

«E non mi lasciate andare fino a Syktyvkar, vero?»

«Lo sai, che i posti di studio gratuiti sono pochi.»

«Ho capito.»

Raissa se l'aspettava. Era davvero improbabile che il servizio segreto russo offrisse un posto di studio a una cecena. Oppure lei avrebbe dovuto dare qualcosa in cambio, ad esempio avrebbe dovuto avere le orecchie lunghe, «fare l'informatrice», come dicevano loro.

«Cosa posso fare, allora?»

«Non lo so. Cerca di trovarti un lavoro. È già abbastanza difficile. Da quando le compagnie petrolifere si sono modernizzate e mirano all'efficienza, molte persone hanno perso il posto. Ma tu sei giovane, qualcosa da fare te lo troverai. E ricordati di mantenere Sa tua nuova identità. Non ti tradire. Fai attenzione soprattutto quando sei in presenza dei lavoratori petroliferi. Fra di loro ci sono dei ceceni, Fortunatamente qui non ce ne sono troppi.»

Prima di andarsene le diede il suo biglietto da visita, sul quale c'erano solo il suo nome e il numero di telefono. «Nel caso ti trovassi in difficoltà.»

Seda. Seda Umarova. I russi avrebbero finito per chiamarla Sedotschka? Seda… Raissa cercò di abituarsi al suo nuovo nome. Non conosceva nessuna Seda, anche se il nome era abbastanza comune. Seda, allora.

Quando la cognata e il fratello tornarono da un giro di compere, raccontò loro la novità. Parlarono di ciò che significava ora la nuova identità di Raissa e si resero conto che il punto di riferimento di Seda non sarebbe stato più Ramsan, bensì Lisa e, soprattutto, sua madre. La cognata esclamò agitata: «Ora devi assolutamente conoscere mia madre. Non bisogna perdere tempo, devi andare ad abitare da lei».

«Ma prima Raissa deve conoscere la città. E, soprattutto, deve riabituarsi a uscire. Stasera andremo da tua madre.»

«Seda. Si chiama Seda», lo corresse Lisa.

Fecero un patto: chiunque avesse chiamato ancora Raissa con il suo vecchio nome, avrebbe dovuto versare dieci rubli in una cassa comune.

I tre decisero di sfruttare la giornata di sole per fare un giro fino ai campi petroliferi. Lisa prese in mano il telefono e dopo un attimo chiese a Ramsan di recarsi al suo ufficio per prendere la macchina di servizio. Poi chiamò la madre e tutti e tre uscirono.

Appena oltre i confini della città si estendevano le sterminate pianure dell'estremo Nord. Natura a perdita d'occhio. Aghifoglie rachitiche su terreno sabbioso. Oltre alla strada non c'era nessun segno di civiltà. Tucktuck, tucktuck, tucktuck, tucktuck, le ruote sobbalzavano sulla strada, lastre di cemento unite da solchi, stuccati alla meno peggio.

Poi videro una torre di perforazione in legno tutta sgangherata, poi ancora un'altra e anche un oleodotto che correva a un metro di altezza da terra, appoggiato su dei supporti. A destra e a sinistra della strada, pozzanghere vischiose di petrolio ricoprivano il suolo sabbioso. Sembrava che la terra sanguinasse da un gran numero di ferite. Il petrolio era attaccato anche alle piante. «Come sangue raggrumato sui capelli», pensò Raissa.

«L'oleodotto non è a tenuta stagna, perde. Ma nessuno se ne preoccupa. Abbiamo ricevuto miliardi dall'estero per riparare le condutture e bonificare il terreno. Il denaro è sparito, e guarda ancora come siamo messi. È un vero schifo.»

«Lisa è la nostra ispettrice ambientale. Fino a quando non arriva la neve lei segue l'oleodotto per rintracciare le perdite. E chiederne conto ai direttori responsabili», aggiunse Ramsan rivolto verso il sedile posteriore, dove era seduta Raissa.

«E cosa c'entra con la neve?»

«La neve ricopre tutto. Le pozzanghere di petrolio e le falle. Quando c'è la neve sembra che tutto sia a posto. Ma in primavera riemerge la verità. Quello che mi è sfuggito in autunno, lo scopro l'anno seguente. Nel corso dell'inverno ho il tempo per affibbiare ai responsabili le loro colpe e, se non pagano, li porto in tribunale.»

Raissa era sorpresa. Sua cognata perseguiva degli uomini, com'era coraggiosa.

Quando, lungo la strada, comparve una diga alta circa due metri, Lisa pregò il marito di fermarsi. «Facci scendere. Voglio mostrare una cosa a Seda.» Lisa salì sulla diga con passi piccoli e lesti. Con un cenno della mano fece segno a Raissa di seguirla. Lei non ne capiva la ragione, ma la seguì ugualmente fino in cima.

Da lassù lo sguardo spaziava su un mare marrone e oleoso. Di tanto in tanto un pino morto spuntava dalla massa viscosa. Uno spettacolo orrendo.

«Costruirono questa diga per evitare che il petrolio si riversasse negli alvei dei fiumi. Ma oramai era già tardi. Nella Kolva e nell'Ussa i pescatori non potevano già più gettare le reti. Di sicuro non nelle vicinanze dei villaggi. Dovevano spostarsi in barca verso il Nord, fino al Mar Glaciale Artico, dove la macchia di petrolio non era ancora arrivata. Ma, quando in primavera i fiumi esondarono, questa poltiglia avvelenata inquinò i campi e i prati. Il petrolio poi ha raggiunto anche le acque freatiche, perché il terreno torboso l'aveva assorbito come una spugna. Una volta passato il grande freddo, l'acqua di disgelo ha fatto riaffiorare il petrolio. Quindi non c'è stato né raccolto e nemmeno foraggio per il bestiame. Ma qui abitano solo comi, e cosa vuoi che gliene importi dei comi, a quelli delle alte sfere. I responsabili se ne fregano.»

Raissa non capiva da dove venisse tutto quel petrolio. In Cecenia c'era del petrolio e c'erano anche incidenti, ma non aveva mai sentito che potessero verificarsi simili catastrofi. Meno che mai ne aveva vista una con i propri occhi. Lisa le spiegò che il petrolio, qui, al Nord, conteneva un'alta percentuale d'acqua, che faceva arrugginire le condutture dall'interno, rendendole porose. Era solo questione di tempo, prima che un oleodotto si rompesse. Le compagnie non volevano sborsare un soldo per dotarsi della tecnologia necessaria per sottrarre l'acqua al petrolio.

Raissa era colpita. Ma quante cose sapeva, sua cognata? Era la prima donna che incontrava che possedeva tante conoscenze tecniche. Per suo fratello doveva essere una vera compagna, anche sotto questo aspetto. Voleva saperne di più. «E poi cosa è successo alle persone che non hanno più potuto dar da mangiare ai loro animali?»

«Il bestiame è stato macellato, perché rischiava comunque di morire di fame. Quando i comi finalmente sono riusciti a dare l'allarme e, soprattutto, quando si è diffusa la notizia all'estero, sono riusciti ad avere anche cibo. Sono arrivati camion di derrate alimentari, come se fossimo in zona di guerra. Già, tu lo sai.»

Scesero dalla diga.

Durante il tragitto Lisa continuò a parlare. Le raccontò che doveva il suo lavoro proprio alla catastrofe ecologica, perché subito dopo la zona di estrazione aveva dovuto essere sottoposta a controlli a scadenza continua, per verificare eventuali disturbi all'equilibrio ambientale. Anche lei era convinta che le compagnie petrolifere avessero fatto erigere la diga solo per nascondere all'opinione pubblica la portata del disastro. «Lo sai come la pensano qui: occhio non vede, cuore non duole.»

Dopo alcuni chilometri Ramsan si fermò di nuovo. Scesero dalla macchina, anche se non si vedeva nulla, oltre a una foresta bassa e alla strada. Raissa osservò il paesaggio senza capire. Poi suo fratello le prese dolcemente il mento fra le mani e le fece sollevare il capo. Sopra la sua testa, a circa due metri e mezzo di altezza, c'era un cartello rotondo con su scritto, a caratteri cirillici Circolo Polare Artico. Sotto, in inglese, Artic Circle. Al centro, in bianco su uno sfondo nero, erano disegnati un orso polare e una renna, un pino e degli iceberg, sovrastati da un cielo stellato. L'orso e la renna erano bucherellati. I cacciatori li avevano usati come bersaglio.

Raissa fissò il cartello, come se potesse crederci solo perché lì c'era scritto: Circolo Polare Artico. «Questo non me lo toglie nessuno.» Rise, si tolse il berretto da baseball e ruotò lentamente su se stessa. Guardava in tutte le direzioni, come se dovesse imprimersi esattamente nella memoria ogni dettaglio del Circolo Polare Artico. A dire il vero non era diverso dal resto del paesaggio che avevano appena attraversato, l'unica differenza era che qui erano davvero al Circolo Polare Artico. Raissa si chinò e prese un pugno di sabbia. Lo mise nel fazzoletto, che chiuse a mo' di sacchetto.

«In eterno ricordo?» disse Ramsan, ridendo.

Raissa annuì. Non sapeva a chi avrebbe destinato questo souvenir, ma voleva portare con sé un pezzetto di quel luogo, per conservare il ricordo di un momento così importante.

Proseguendo lungo la strada, il fratello le raccontò che Ussinsk si trovava a circa cento chilometri dal Circolo Polare Artico. Le autorità avevano voluto che la città sorgesse così a sud, perché solo al circolo polare era obbligatorio pagare l'indennità ai lavoratori. Anche le compagnie che, nel corso dei decenni, si erano spinte con le loro torri nel circolo polare, avevano la sede a Ussinsk e, così, evitavano di pagare queste indennità agli operai.

Ramsan si fermò di nuovo nei pressi di una torre di trivellazione abbandonata.

«Da lì si gode un bel panorama.»

Salirono sulla piattaforma e spaziarono con lo sguardo sulla pianura. Come delimitata da uno steccato invisibile, la foresta di conifere si fermava in lontananza, in linea retta e dietro, a perdita d'occhio, si estendeva la tundra. Un tappeto rossastro come di velluto, fatto di muschi e licheni, interrotto solo da brillanti superfici d'acqua blu.

«E da qualche parte, lì in fondo, inizia il Mar Glaciale», con il braccio Ramsan indicò in direzione nord.

Le torri di trivellazione si ergevano nel paesaggio come bandierine su una cartina militare.

«Guarda!», inveì Lisa. «Lì hanno finito.. Hanno estratto il loro petrolio. E poi… dopo di loro il diluvio. È incredibile, non smontano nemmeno le torri, le lasciano lì, fino a quando non crollano. Ovunque ti giri vedrai solo cumuli di macerie.»

Ramsan protestò: «Le torri non fanno grande danno. Se anche fuoriesce un po' di petrolio non muore nessuno, sempre che la fuoriuscita non assuma proporzioni allarmanti. Ma a chi danno fastidio le torri? Chi le vede? Guardati intorno: la tundra è enorme, e qui non ci viene mai nessuno».

Lisa lo contraddisse con veemenza: «Ma noi uomini danneggiamo e inquiniamo la natura. Non puoi dire che non importa».

«Di che ti lamenti? Di natura ne abbiamo anche fin troppa. Inoltre si rigenera benissimo da sola, anche senza il nostro intervento.» Lisa si voltò verso Raissa. «Che disperazione. Fanno tutti così. Prima inquinano tutto, poi si cercano un altro pezzetto integro e pulito, si spostano un po' più in là e ricominciano lo scempio.»

Scesero dalla torre in disuso, salirono in macchina e proseguirono. A un certo punto Ramsan svoltò dalla strada di cemento, immettendosi in una strada sterrata che portava direttamente a una torre di trivellazione.

Grandi fusti arrugginiti e vuoti erano disseminati sul terreno. C'erano due prefabbricati su ruote. E finalmente la torre nuova, imponente e maestosa. Sul versante sottovento, un'autogru dipinta di azzurro aveva il braccio abbassato. Quattro uomini accanto al veicolo guardarono incuriositi nella loro direzione.

Non appena riconobbero Ramsan lo salutarono con un sonoro «Ciao».

«E ha portato anche due donne. Che uomo eccezionale.»

Erano raggianti. Lisa li salutò frettolosamente e si allontanò subito per andare a eseguire i controlli.

Ramsan presentò Raissa. Poi si voltò in direzione del più anziano, i cui occhiali spessi erano sporchi di petrolio. «Voglio mostrare all'amica di Lisa cosa succede quando si trivella.»

«Sali pure di sopra e faglielo vedere. Noi abbiamo quasi finito con il montaggio», disse il caposquadra. «Ma Lisa ce la teniamo qua, così le possiamo raccontare le ultime porcate ambientali.»

Tranne il caposquadra, che occhio e croce aveva più di cinquant'anni, gli altri uomini erano tutti giovani. Avevano al massimo trent'anni. I loro abiti di lavoro erano sudici. Uno strato scuro e spesso si era posato su giacche, pantaloni e berretti. Uno indossava una sorta di zanzariera. Il cotone blu scuro sembrava pelle, talmente era imbrattato di petrolio. Il petrolio era nelle pieghe delle mani, nei pori, dappertutto. Gli uomini fumavano e perfino le sigarette erano nere.

Raissa e Ramsan scalarono la torre, che un pesante motore diesel faceva vibrare costantemente. Si avvicinavano sempre più al motore e, per parlare, erano costretti a urlare. «Anche tu ti conci così quando lavori?», Raissa non era affatto affascinata dalla lezione di tecnica petrolifera, preferiva sapere cosa faceva il fratello lì. Come viveva, come lavorava.

«Intendi dire se m'imbratto?»

Raissa annuì.

«Lo sai che sensazione è indossare al mattino quei vestiti? Sei già lercio prima ancora dì iniziare. Fra un paio di chilometri vedrai una realtà del tutto diversa.»

Raissa lo guardò con fare interrogativo.

«Mi ci ha portato una volta un conoscente che lavora per una ditta straniera. Non lontano da qui. Ogni giorno cambiano completamente abiti da lavoro. Chi non porta scarpe di sicurezza o dimentica l'elmetto, viene punito. Hanno guanti antistrappo, con i quali si può afferrare senza pericolo qualsiasi cavo di acciaio. E dovresti vedere gli alloggi. Hanno docce, bagni, perfino la palestra. All'interno del prefabbricato ogni operaio ha una stanza tutta per sé, con il televisore. E non parliamo poi di quanto guadagnano.»

«Forse c'è bisogno di buone conoscenze per lavorare lì?»

Ramsan rise: «Questi posti vengono lasciati in eredità. Ma forse questa munificenza finirà ancor prima che chi ne gode possa rendersene conto. Con questi standard gli stranieri rovinano i prezzi. È solo questione di tempo prima che li mandino via».

«E dov'è la tua torre?»

«Là dietro, in direzione del Mar Artico.» Ramsan rise. «Lì non c'è proprio nulla che possa distrarci dal lavoro, perché oltre alla tundra paludosa non c'è proprio un bel niente.»

Scesero i gradini di metallo. La torre tremava sotto i loro passi. Di sotto, in uno dei piccoli prefabbricati su ruote, la invitarono a bere il tè. L'interno era piccolo e nero come quelli che ci stavano. Anche qui tutto sembrava essere ricoperto da una patina di petrolio. A destra e a sinistra della finestra troneggiavano due letti a castello, vicino alla porta c'era un tavolo con quattro sedie e, in un angolo, una semplice piastra da cottura. I bicchieri per il tè erano talmente sporchi che Raissa non osava nemmeno portare il suo alla bocca. Un attimo dopo Lisa entrò dicendo: «Dovete riferire ai vostri superiori della falla. Devono fare qualcosa. La riparazione non costa molto».

«Così ci riducono i premi? Non se ne parla nemmeno.»

«Se non lo dite voi, lo dico io. E se vi riducono i premi, ditemelo, perché per legge non possono farlo.» Gli uomini borbottavano.

«È così testarda anche con te?», si informò il caposquadra.

Ramsan guardò Lisa e disse, ridendo: «Ecco, ora capite cosa mi tocca sopportare a casa».

Raissa notò che Lisa, sotto lo sguardo di Ramsan, era arrossita un po' e fu contenta non solo del fatto che suo fratello amasse molto la propria moglie, ma anche che ne andasse fiero, pur se non era in pieno accordo con lei in merito ai problemi ambientali.

Il caposquadra si voltò verso Raissa: «Vieni dal Daghestan? Lì avete montagne alte…».

«Ma la cosa bella della tundra è che nulla distrae lo sguardo. È unica», esclamò Raissa, perché intuiva che volevano sentire commenti adulatori. Inoltre lei lo pensava davvero.

«Ruslan, il collega dell'altro turno, viene dalle parti di Grosny», raccontò il caposquadra. E, rivolgendosi più a Ramsan che a Raissa, proseguì: «Dovresti vederlo. Da quando ha perso il figlio, a dicembre dell'anno scorso, sembra un altro uomo. Si rimprovera di non averlo trattenuto qui più a lungo. Aveva quasi terminato gli studi».

«Conosco Ruslan, ma com'è che si chiama, di cognome?», quel nome non gli diceva nulla.

«Il figlio si chiamava Dschamil, parlava sempre di lui.»

Raissa trasalì. Non poteva essere una coincidenza. Dschamil, lo studente. Al matrimonio di Medina le aveva raccontato del padre che lavorava in un campo petrolifero al Nord. Allora Dschamil era morto. Iniziò a mangiarsi le unghie: era l'unico modo per non urlare.

Quando Ramsan si congedò, lei fu la prima ad alzarsi in piedi. In auto non riuscì a frenare le lacrime. Lisa voleva metterle un braccio sulle spalle e accarezzarla, ma Raissa la scostò con un movimento brusco. Non voleva essere compatita e nemmeno consolata. Sentì montare la vecchia collera. Sempre e solo morte.

Continuarono a percorrere la strada di cemento in direzione nord. Passarono accanto a quattro cisterne luccicanti e ad alcuni edifici moderni. Questo centro estrattivo non aveva proprio nulla in comune con le baracche fatiscenti che si erano appena lasciati alle spalle. Sembrava un'astronave aliena. La strada si addentrava ancora alcuni metri nel tappeto muschioso, poi terminava. Pale di ruspe, con le dita aguzze, erano ferme, pronte a conficcarsi nella tundra.

Raissa aveva ripreso il controllo di sé. Chiese a Ramsan perché la strada finiva nel nulla. Guardando lontano, verso nord, il fratello le spiegò che il percorso era già stato tracciato e che ben presto la strada sarebbe arrivata a dei terminal petroliferi e per il gas liquido in un porto moderno, distante poco meno di duecento chilometri da lì.

Tutti e tre fecero fatica a immaginare questo scenario di fronte alla natura incontaminata. Raissa arrivò proprio fino al limite, così che la strada, i veicoli e i loro autisti restassero alle sue spalle. Non voleva vedere nessun segno di civiltà. Davanti ai suoi occhi si stendeva l'immensità bruna della tundra. Null'altro se non piante alte al massimo fino al ginocchio. Attorno nessun uomo, nessun animale. Solo natura. Natura che lottava strenuamente, per sopravvivere. Una natura che, per mesi, era schiacciata da masse di neve e ghiaccio e dal gelo di una temperatura che scendeva anche a 50° sotto zero. Una natura che, ciononostante, ogni primavera riusciva a rompere il ghiaccio e a rifiorire. Un vero miracolo.

E tutto questo senza l'aiuto dell'uomo. Forse era proprio questo il segreto? Raissa credeva di sì. Gli uomini portano sempre il male. Non sanno fare di meglio che uccidersi? È un bene che non ci siano dappertutto. Era dovuta fuggire molto lontano per sottrarsi a loro.

Tuttavia una persona soia, in questa landa desolata che, pure senza neve, era inospitale, sarebbe stata inesorabilmente spacciata. Per sopravvivere qui gli uomini dovevano stare insieme e aiutarsi l'un l'altro. Era questo, forse, che faceva di loro delle persone migliori?

Raissa si guardò intorno. Ramsan e Lisa stavano l'uno accanto all'altro, un'unità indissolubile. Non riusciva a immaginare che Ramsan potesse ripudiarla, come facevano tanti uomini nel suo paese.

Quando erano insoddisfatti o stufi delle proprie mogli, i mariti le scacciavano semplicemente di casa, non senza aver prima tolto loro i figli. Maschi e femmine restavano con i padri, perché probabilmente il secondo marito della madre non li avrebbe amati. Ma che c'entravano gli uomini con i figli? Il loro lavoro educativo consisteva nel dare regolarmente una bella lezione, con o senza motivo. Di norma, infatti, erano le donne che si occupavano dei figli, dei propri e di quelli acquisiti. Rivedere la loro madre naturale dipendeva solo ed esclusivamente dal buon cuore del marito. Lui poteva dare il proprio consenso, ma non era costretto a farlo. Ramsan certamente non avrebbe mai reso così infelice Lisa.

Raissa era contenta di vederli così legati. Erano la cosa migliore che le fosse capitata da anni. Cosa sarebbe stato di lei senza di loro? Questo pensiero le attraversò la mente come un fulmine. Cosa sarebbe successo se Ramsan non avesse vissuto così distante da casa? Se lui e la sua nuova famiglia non fossero stati disposti ad accoglierla? Raissa sospirò.

Per la prima volta da molto, molto tempo si sentì sicura e protetta. E questo lo doveva solo ed esclusivamente a suo fratello e a sua moglie. Di nuovo di buon umore Raissa andò dai due con un sorriso.

«Grazie.»

I due fecero un'espressione sorpresa «Di cosa?»

«Di tutto.»

 

Ramsan ripercorse a ritroso la strada. La stessa strada diritta. Tucktuck, tucktuck, tucktuck, facevano le ruote sul nastro di cemento. Raissa si addormentò e si risvegliò solo quando Ramsan spense il motore, davanti a un palazzo di Ussinsk.

Il portone era chiuso a chiave. Lisa, con entrambe le mani, premette in sequenza tre numeri su una tastiera montata sul portone, il portone si aprì.

Da sopra venivano voci di bambini.

«Mamma, mamoshka!»

Lisa chiamò nelle scale: «Dove sono i miei pulcini?», e corse di sopra.

Una bambina piccola le corse incontro salterellando. Dietro di lei c'erano un bambino più grandicello e uno più piccino. La madre di Lisa era sulla porta. I saluti durarono un bel po'. Ramsan prese i bambini che, eccitati, parlavano senza fermarsi e, uno alla volta, li sollevò e li baciò. Abbracciò la suocera alla maniera cecena. Raissa si teneva in disparte. All'improvviso Lisa l'afferrò per il braccio.

«Guarda mamma, chi ti abbiamo portato. Questa è Seda di Khasaviurt. Eccola qui.»

«Seda. Che gioia conoscerti, finalmente!»

Lisa e Ramsan dovevano essersi messi d'accordo perché Ramsan sparì con i bambini in soggiorno, mentre le tre donne rimasero in cucina.

All'inizio Lisa raccontò per sommi capi alla madre la storia di Raissa. Raissa si rese conto che la donna non conosceva il suo vero nome. Si parlava infatti sempre della sorella minore di Ramsan o di Seda. Le rivelarono il ruolo che le era stato assegnato e lei lo accettò di buon grado.

Era una donna energica e intelligente e, da quando aveva perso il marito, viveva da sola. Non le piaceva affatto. «Seda, se sei d'accordo, questa ora è casa tua. Puoi stare da me per tutto il tempo che vorrai. Ma ora beviamo una tazza di tè, facciamone di fresco.» La madre di Lisa riempì tutti i piatti con una sorta di gulasch. Non c'erano né patate, né verdure, né pane, né qualsiasi altro tipo di contorno.

Raissa si meravigliò. Non dovevano bere il tè? Raissa assaggiò la carne. «Auguri, Seda», disse Ramsan ridendo. «Ora puoi dire non solo di essere stata al circolo polare, ma anche d'aver mangiato carne di renna. Ti piace?»

«È ottima.»

«Fresca dalla tundra», le spiegò la suocera di Ramsan. «La prima di quest'anno, al mercato. Gli animali vengono macellati adesso, perché durante l'estate si son fatti belli grassi.»

La carne di renna era una prelibatezza. Per acquistarla bisognava andare fuori città perché, pur se lì intorno c'erano diverse mandrie, raramente la carne arrivava direttamente nei negozi.

I bambini non avevano ancora rivolto la parola a Raissa. Erano contenti per il gelato che Lisa aveva promesso loro alla fine della cena. Bevvero rumorosamente il tè dai piattini, rovesciandone regolarmente una parte. Raissa guardò Ramsan. Lui non reagiva. Un comportamento così a casa loro sarebbe stato inammissibile. Ma, a quanto pareva, suo fratello non voleva essere un padre severo. Anche quando i bambini si macchiarono di gelato, nessuno intervenne. Perché no? Non gli importava se i suoi figli diventavano dei monelli maleducati e viziati? A Raissa non piacque l'indifferenza che mostrava il fratello, anche se capiva che non aveva intenzione di fare una scenata, lì, davanti a tutti.

Raissa si guardò intorno in cucina. Il tavolo era apparecchiato senza cura. Sull'incerata era posata la pentola nella quale era stata cotta la carne. Metterla in un piatto da portata avrebbe creato troppo fastidio alla madre, in mezzo a quel trambusto. Preferiva parlare con la figlia e con il genero. Rivolgeva anche molte domande a Seda.

I tre non smisero di parlare un momento anche mentre rigovernavano e lavavano i piatti. I bambini si annoiarono ben presto dei discorsi degli adulti, volevano guardare la televisione e insistettero fino a che i genitori non dettero loro il permesso.

I quattro adulti restarono seduti in cucina e parlarono fino a quando la piacevole serata non giunse al termine.

Raissa non aveva detto molto, eppure non si era mai sentita un'estranea, nemmeno per un secondo.

Nei giorni seguenti imparò a conoscere Ussinsk. Dal modo in cui le persone la salutavano, Raissa capì che la madre di Lisa era una persona molto rispettata. Spesso le si rivolgevano in maniera cordiale, ma, allo stesso tempo, estremamente deferente. E quando lei presentava Seda l'attenzione dell'interlocutore si spostava automaticamente su Raissa.

Durante questo giro Raissa aveva scoperto dove erano il negozio di alimentari e il fornaio, nel quale, al pomeriggio, nell'orario in cui veniva sfornato il pane, si formava una piccola coda. Raissa si meravigliò nel vedere la madre di Lisa passare davanti alle persone in attesa, entrare dietro al bancone e marciare a passo sicuro fino al retro. Nessuno protestava, però a Raissa non piaceva questo privilegio che si prendeva la donna. Nel retro un ragazzo stava spostando cinque forme di pane in cassetta dal forno al tavolo, tutte insieme.

«Arriviamo al momento giusto», disse allegramente la madre ai presenti. Un uomo con i guanti le porse, prima ancora che lo chiedesse, un pane caldo. La madre di Lisa se lo fece scivolare nella borsa. Non ringraziò ma, del resto, nessuno sembrava aspettarsi un ringraziamento. Era un onore fare questo piacere a lei, la direttrice della scuola? La madre di Lisa spezzò un angoletto di pane. Quando si scottò le dita, Raissa ebbe un piccolo moto di soddisfazione, del quale, però, si pentì subito.

Cosa le saltava in mente? La madre di Lisa era disposta a fare molto per lei.

«Vuoi che ti mostri dove lavoro?» Raissa annuì. Andarono fino alla scuola, accanto alla quale si trovava l'asilo. I piccoli scorrazzavano in cortile.

«Posso guardare l'asilo?»

«Ora, o dopo la scuola?» La madre di Lisa non attese la risposta. Aveva capito che Raissa desiderava molto stare insieme ai bambini.

Pregò una delle maestre di far fare un giro a Raissa nei dormitori e nei saloni. L'impiegata eseguì subito il compito assegnatole dal capo e le mostrò delle stanze che sembravano fatte per dei nanetti. Nei saloni e nelle mense c'erano sedie piccolissime e tavoli piccolissimi. Nel dormitorio erano allineate lunghe file di lettini e nel bagno i lavandini erano talmente bassi che, in un primo momento, Raissa aveva pensato che fossero lavapiedi. Tutto era pulitissimo e perfettamente in ordine. Nell'insieme, forse, ricordava un po' una caserma, ma era a misura di bambino e soprattutto, era accogliente. Andarono alla scuola. La lezione era terminata, alcuni bambini stavano ancora mangiando alla mensa, ma dal secondo piano, dove c'erano le camere degli interni, proveniva un gran baccano.

«Ci vivono i figli degli allevatori di renne. Poiché devono frequentare la scuola, vanno a casa solo durante le vacanze, in primavera e in estate le famiglie si spostano con le mandrie e i bambini vanno con loro, ma in autunno e in inverno vivono da noi.»

Raissa non riusciva a immaginare come un bambino potesse vivere per così tanto tempo lontano dai propri genitori. Lei non ci sarebbe riuscita. La madre di Lisa, che nel frattempo le aveva raggiunte, continuò a parlare, come se avesse letto i suoi pensieri. «I piccoli hanno una nostalgia terribile. Sono cresciuti in tenda, sempre fuori, all'aria aperta, anche quando fa freddo. E non appena raggiungono l'età scolare, devono venire qui. Si sentono in prigione.»

Aprirono una delle porte. Non appena vide la direttrice un bambino piccolo, di circa sei anni, scese dal letto a castello. La madre di Lisa gli chiese se era già andato a mangiare. «Non ho fame.» Il bambino era pallido. La direttrice si voltò per andar via. Nel corridoio buio confidò a Raissa che quel bambino aveva nostalgia dei genitori. Gli altri alunni della prima classe ci si erano abituati, ma lui aveva dei problemi.

«Cosa succederà in inverno? Le notti polari sono una piaga anche per gli adulti. Durante l'estate il corpo fa fatica ad adattarsi alle notti senza buio, ma è ancora peggio quando in inverno, per intere settimane, non si vede mai la luce del sole.»

Raissa seguì la madre di Lisa nel refettorio, pieno di bambini grandi e piccini che non stavano affatto seduti ordinatamente ai loro tavoli, giocavano ad acchiapparello e strillavano. Quando riconobbero la madre di Lisa, il rumore si smorzò un pochino. Attraverso il passavivande la cuoca porse loro caffè e dolci.

«Posso portare un pezzo di torta al piccino?»

«Vai pure, forse riesci a consolarlo un po'.»

Raissa prese il piatto e salì fino al secondo piano. La stanza del bimbo era quasi alla fine del lungo corridoio. Le assi scricchiolavano e sembravano spezzarsi a ogni suo passo. Il legno gemeva, da quanto era secco. Il collegio sembrava un posto povero e abbandonato.

Bussò piano e fece capolino attraverso la porta socchiusa. Il bambino la guardò con sguardo interrogativo.

«Posso entrare?». Lui annuì impercettibilmente.

«Ti piace, qui?» Non reagì.

«Vuoi che ti lasci da solo?» Nessuna risposta.

«Preferisci restare solo, oppure sei triste perché devi restare qua?». Lui la guardò.

«Io mi chiamo Seda. Vengo da Khasaviurt. Sono cecena.» Raissa si meravigliò di quanto le facesse bene dire che era cecena. Le bastava già rigirarsi quella parola in bocca.

«Lo sai che cos'è un ceceno?»

Il bimbo scosse il capo.

«Hai una cartina geografica?»

Con gli occhi le indicò una piccola mensola.

Raissa andò alla mensola e prese un grande atlante. "Ne avevo uno uguale", pensò.

«Guarda, questa è Ussinsk, dove siamo ora. E questa è la Russia meridionale. E questo è il Caucaso. E qui c'è la Cecenia.»

«Lì c'è la guerra.»

Raissa fu sorpresa. «È vero. E tu come lo sai?»

Nessuna reazione.

«Dalla televisione?»

Lui fece cenno di sì col capo.

«Mi dici come ti chiami?»

«Andrusha.»

Andrej, quindi. Raissa trovò divertente che i bambini russi si presentassero anche agli estranei con i loro vezzeggiativi. Ovvio, perché non venivano chiamati in altro modo.

«Ti posso chiamare anch'io Andrusha, o preferisci Andrej?»

«Andrusha.»

«Andrusha, vogliamo mangiare un pezzo di torta ciascuno? Quale preferisci? Quella con i lamponi o quella con le mele?» Gli mostrò i dolci.

«Non mi piacciono i lamponi.»

«Sono fortunata. Avevo paura che ti prendessi proprio quella con i lamponi. Allora la posso prendere.»

Allungarono insieme la mano verso i dolci. Il bambino prese la torta di mele, Raissa l'altra.

Con la bocca piena Raissa gli chiese: «Qualche volta vai a passeggiare in città?».

«Solo se dico dove vado. E solo se è ancora chiaro.»

«Mi verresti a trovare?»

«Dove abiti?»

«Dalla direttrice. Lo sai dove abita?» Scosse il capo.

«Se vuoi, domani torno a prenderti. Ti mostro dove abito e poi tu mi porti a conoscere la città. Io sono nuova di qui e non la conosco ancora. Ma mi devi spiegare tutto, d'accordo?»

«D'accordo.»

Raissa osservò Andrej, che si leccava il dito per mangiare le briciole.

«Hai ancora fame?» Lui fece cenno di sì con la testa.

«Vuoi che scendiamo insieme e andiamo a mangiare?» Lui fece ancora cenno di sì con la testa.

«Dai, andiamo.»

Attraversarono il corridoio buio e scesero le scale. Raissa sentì che lui infilava la sua manina di bimbo nella sua. Presero la minestra e la kasha, obbligatoria, una pappa che riempiva lo stomaco, ma che era piuttosto scipita. Andrej divorò tutto.

«Mi riporti indietro?»

In corridoio Raissa gli chiese: «Hai paura?».

Andrej scosse la testa.

«Ti manca la tua mamma?» Lui annuì.

«Anche a me manca, la mia.»

«Ma tu sei grande.»

«Ma mi manca lo stesso»

«Ritorna presto?»

«No.» Raissa si rese conto che quel bambino era la prima persona con la quale sperimentava la sua nuova identità.

«Perché no?»

«Perché è in paradiso.»

«Vuoi dire in cielo? Ma allora è morta. È morta?»

Raissa annuì.

«È morta in guerra?»

«No, era molto malata.»

«La mia mamma non è morta.»

«Sei fortunato. Allora tu devi solo aspettare le vacanze. Io invece non rivedrò la mia per molto, molto tempo.»