Negli occhi di Antonia le stelle si spegnevano ogni sera e nelle vene le scorreva un petrolio scuro e viscoso che avrebbe potuto infiammarsi in un niente, incendiandola, insieme a tutte le cose che si trascinava dentro di sé, e fuori di sé. I pensieri, foschi, dannosi, la precipitavano in abissi dai quali sempre più faticava a riemergere.
Il suo cuore e il suo corpo erano la terrificante patria degli angeli sconsacrati, i maledetti.
Maledetto il giorno che aveva conosciuto quel verme.
Maledetto il giorno che era nata.
In una casa magnifica e gelida, come solo le dimore ricche sanno esserlo, Antonia aveva visto la luce in un mattino d’inverno, quando nessuno pensa al freddo degli alberi spogli, affamati di foglie e di sole, che tendono le braccia al cielo invocando la primavera. Per un’antica tradizione, era stata partorita tra le pareti della camera padronale, sul letto a baldacchino dove poi non sarebbe più salita per divieto genitoriale, e si era subito aggrappata alla governante, che l’aveva accolta in un calore che sapeva di sapone di Marsiglia e amido di riso, e lì l’avrebbe tenuta ogni volta che avesse avuto bisogno di una ciambella di salvataggio. Cioè, sempre.
A scuola, poi, Antonia si era affezionata alla maestra elementare, che profumava di mandorla e miele, e aveva le unghie colorate di perla. La maestra che, quando le metteva dieci sul quaderno, nello zero ci disegnava una faccina sorridente. Di bambina brava.
O di mamma contenta.
Non la sua, fredda e bellissima come una cera di Madame Tussauds, avvolta in una nuvola di sofisticata fragranza francese invece dell’odore di latte e muschio che lei immaginava avessero le mamme. Le mamme che facevano il bagno a mare, che davano le briciole ai piccioni, che leggevano le fiabe con le vocine e le vocione, e non il distacco di un’annunciatrice della tivù; le mamme che permettevano ai pargoletti di dormire nel lettore come a lei sarebbe piaciuto.
Ma l’acqua salata rovinava i capelli, i piccioni portavano malattie, le fiabe dovevano essere propedeutiche, il lettone era diseducativo.
La colpa, Antonia lo sapeva, andava attribuita al patrimonio genetico, un immenso ghiacciaio che i suoi genitori avevano ereditato dai nonni, i nonni dai bisnonni, e così via, fino al capostipite di quelle due altere famiglie in cui lei si sentiva un pesce fuor d’acqua. La colpa era del suo essere diversa, che aveva dovuto soffocare sotto una spessa coltre di civiltà, ostentata, dove ben nascoste stavano le incomprensioni tra i suoi genitori, le assenze del padre, i tradimenti della madre, la depressione del fratello. Nessun malessere doveva mai trasparire. Perciò, con urgenza, aveva ricevuto i migliori trattamenti per l’acne giovanile che le deturpava il viso: perché sparisse, come ogni loro bruttura; una volta curata, il laser aveva completato l’opera.
La pelle di Antonia, infatti, sembrava porcellana, fine e bianca, delicata e preziosa. Ma sotto, in ognuno dei sette strati, c’erano pus e fango e veleno e disperazione e odio, quell’odio appuntito che è l’amore quando ha varcato il confine, l’amore quando è malato e folle, come lo era il suo, che le ottenebrava il cervello, le intorbidiva le acque, le assordava i timpani con il chiasso infernale che faceva. E le ammorbava l’anima, rendendogliela giorno dopo giorno più torva e greve e sporca. Marcia, bacata.
Eppure, al pensiero che il verme non ci sarebbe stato nel suo futuro, ad Antonia mancava il respiro. Non riusciva a concepire la vita senza.
Vita?
Cos’era la vita?
Il suo matrimonio silente e perfetto, esemplare nella sua nullità, nella sua praticità, nello scambio di mere comunicazioni di servizio; nel sesso formale e disadorno, quando accennato, quando scansato, e sempre estraneo: questa era la vita, così era?
Girava su Facebook una frase della Fallaci dietro cui ogni tanto giustificava i suoi errori: Puoi vivere con un tale per vent’anni e considerarlo un estraneo, puoi passare con un altro venti minuti e portartelo dentro tutta la vita.
Relativa, ecco com’era la vita.
Più pericolosi, in Antonia, erano i momenti di discutibile lucidità, in cui la mente era fredda e cercava soluzioni. Soluzioni disperate. Se lui era il male, il male andava estirpato, dentro e fuori di lei, in una maniera o in un’altra affinché, liberata, potesse meritarsi una vita migliore. Anche dietro le sbarre, ma senza più catene.
Meglio che lui lo sapesse (Facebook era un ottimo mezzo di comunicazione subliminale). E si nascondesse.
Che dirai, sotto la minaccia
dei manganelli, la notte in cui
i gendarmi irromperanno
in casa tua e troveranno
il cadavere di un uomo
che come unica colpa
inventò canzoni d’amore
e insieme a me le cantò
sulle note del vento?
E che risponderai quando
inclementi ti chiederanno
un alibi per l’ora in cui,
senza neanche un gemito,
l’uomo mio moriva?
Quali menzogne inventerai
e dove fuggirai quando
la giustizia chiamerà me,
non te, a riconoscerlo?
Nasconditi quel giorno
perché io, dovessi vederti,
t’ammazzerò con queste mani.
Anzi, no. Lasciò la pagina, senza pubblicare nulla.
Meglio che non lo sapesse (sempreché la guardasse). E restasse indifeso, vulnerabile.