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All’alba

Immersa nella notte e nella malinconia, Antonia aveva guidato sul rettilineo deserto, gli occhi sbarrati, la mente straziata, l’anima afflitta. Aveva consumato mezzo serbatoio di benzina, incurante che costasse quasi due euro al litro, per correre dietro alla sua inquietudine, grata ai semafori rossi perché le facevano fermare per qualche attimo quei pensieri che a briglia sciolta sembravano propagarsi direttamente dall’acceleratore. Dove andasse e cosa cercasse non lo sapeva. Sapeva, sì, che avrebbe voluto ricomporre la sua vita, ma non ne conosceva il modo. L’avere rivisto il fratello le aveva fatto bene, ma non aveva cambiato le cose. Come lei un tempo, viveva soggiogato dall’autorità paterna, anche se fortunatamente si era sposato per amore. Senza volerlo, o forse invece scientemente, era passata davanti alla villa dei genitori e all’appartamento dove aveva vissuto da coniugata. Vero che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto, ma lei aveva ammazzato solo se stessa, la sua anima. Almeno fino a quel momento.

Le luci erano spente, le tapparelle abbassate. Si chiedeva quanto la odiassero tutti, o se si ricordassero di lei. Il suo ex marito si era fidanzato e, anziché il divorzio, aveva chiesto l’annullamento del matrimonio per potersi risposare in chiesa, come era buona norma nel loro religiosissimo ambiente. Anche lei aveva cancellato quegli anni grigi, vuoti, privi di slanci ed entusiasmi, anni di ricordi senza memoria, di braccia senza abbracci, di bocche senza sorrisi...

Ma era stato veramente così? Talvolta, confusa, si era domandata se non avesse forzatamente voluto vedere tutto nero. La risposta che scaturiva dal cuore era un no deciso, e non avrebbe mai pensato di tornare indietro. Ma non voleva neppure rimanere dove stava, voleva andare avanti e invece si trovava ferma a un punto morto. Un punto che ruotava intorno a Rocco e a ciò che rappresentava: un imbroglio o una svista del destino. Perché si era innamorata così perdutamente di lui? Perché con poche frasi era riuscito a toccare le corde più profonde di lei o semplicemente perché Antonia aveva bisogno di appena due paroline e di un sorso d’acqua? Era davvero conciata così male?

Sì, se nei capitoli dei suoi libri cercava disperatamente qualcosa che appartenesse a lei, ma non trovava nulla, e le medesime frasi che una volta lui pronunciava guardandola con occhi lucidi e sorriso incantatore, adesso le scriveva con disinvoltura e tecnicismo nei dialoghi e nelle descrizioni, mortificandole tra quattro virgolette dove per Antonia non c’era posto. Quel che per gli altri era talento, per lei era crudeltà. Se avesse intravisto o percepito un messaggio subliminale tra le righe, anche inconscio, forse lo avrebbe perdonato. Un messaggio in cui Rocco ricordava qualche momento del loro amore, dichiarava di essersi pentito, o paradossalmente chiedeva scusa.

Invece niente.

Basta temporeggiare, si era detta facendo un’azzardata inversione a U, doveva mettere in atto una vendetta, la più diabolica possibile.

Il tono divertito, l’insigne scrittore andava cianciando che il fantomatico mentore lo aveva iscritto al concorso letterario per scherzo? Bene, gli avrebbe fatto vedere lei cos’era uno scherzo vero. E poi vediamo chi ride!

Avrebbe iniziato con il pubblicare il loro carteggio. E il fax con cui lo aveva iscritto, con tanto di rapporto di trasmissione e firma falsa (l’aveva messa lei per lui). Erano inediti di immenso valore, che avrebbero rivelato le menzogne del grande Rubino agli occhi dei suoi lettori e principalmente della sua diletta. Il mondo avrebbe saputo che non esisteva nessun fantomatico mentore e... tutto il resto a seguire.

Basta, sì, la decisione era alfine presa.

Il rosseggiare dell’alba la vide aprire il portone di casa esausta, ma risoluta. Poi, corroborata da un caffè bollente, accese il computer e compilò un elenco di editori a cui offrire la sua opera.

Era sicurissima che avrebbe fatto gola a molti.

Anche Mariolina era su internet, il sito del Comune aveva finalmente pubblicato la data della prova scritta: il quindici maggio. Avrebbe avuto tempo per un’accurata ripetizione e per fiondarsi mezza giornata nella biblioteca centrale del capoluogo, sui cui terminali fare un po’ di pratica con il catalogo, sperando che offrissero più possibilità di esercitazione di quelli in rete. Ora stava guardando su Facebook il profilo di Letizia che aveva pubblicato le foto della vacanza alle terme. Quella donna era straordinaria, così vivace, brillante, all’avanguardia. Aveva un cervello da fare invidia ai ventenni. Si chiese come sarebbe stata lei a settant’anni, sperando di arrivarci. E di arrivarci in salute e lucida di testa.

Non di rado Mariolina si perdeva in ragionamenti oziosi sul futuro, che nascondevano una gran paura d’invecchiare, di vedere il suo corpo sgretolarsi (quanto odiava le ginocchia che iniziavano ad arricciarsi, l’interno delle braccia già flaccido, le cosce che perdevano tonicità!), di smarrire il ben dell’intelletto e principalmente di essere lasciata da Ruggero, nonostante lui le dimostrasse sempre amore e pazienza. Sempre... insomma, quando c’era, quel poco che c’era. Avevano fatto un patto: se non avesse vinto il concorso (ormai aveva studiato e tanto valeva provarci), avrebbe lavorato per l’A.C. Propiziese, ne avrebbe curato l’amministrazione e la segreteria, sostenendo gli ideali, i valori e le speranze di suo marito di vedere la squadra in serie A in un futuro non lontano. In realtà, l’intenzione di Mariolina era tenere le mamme dei ragazzi, e qualsiasi altra cosa dalla forma muliebre, lontane da Ruggero del quale si scopriva ogni giorno più gelosa almeno per due motivi: perso l’odioso gonfiore che gli ingrossava lo stomaco, era tornato attraente come un tempo e, per ben tre volte, dopo la costituzione della società, si era recato personalmente allo studio notarile anziché mandarvi la segretaria. Il che non l’avrebbe allarmata se il notaio fosse stato il solito attempato barbagianni e non una signora molto affascinante, come si poteva vedere dal suo sito dove, con sorridente eleganza, invitava a rivolgersi al suo studio per compravendite, successioni, mutui, donazioni, società, testamenti. Uffa! Le sembrava che le sue pene non dovessero terminare mai. Finita una cosa, ne cominciava un’altra. Ma gli altri, si chiedeva, stavano tutti bene? Le sembrava di sì, le sembrava che solo lei stesse male. Sua sorella, ad esempio: era diventata una donna sicura di sé che gestiva la sua nuova vita con piglio manageriale, senza debolezze, senza bisogno di nessuno, sicura, decisa, indipendente. Come faceva? Avrebbe voluto stare un po’ con lei, parlarle, riprendere il filo interrotto; per tanti anni si erano bastate e il mondo esterno era spesso apparso un intruso. Adesso il loro allontanamento costituiva un ulteriore motivo di sofferenza per Mariolina che forse non avrebbe dovuto sposarsi, ma rimanere con Marietta nella casa dove erano nate e cresciute in due corpi con un’anima sola, dove la loro mamma si era ammalata per colpa... No, i funghi ricominciavano ad avvelenarla! Spense il computer, prese in mano il volume di biblioteconomia e lo aprì dove c’era il segnalibro: Capitolo 7 – Tecniche e linguaggi per la catalogazione. Era presto, le compresse che stava prendendo la facevano andare a letto tranquilla e di buon’ora, dopo un brutto periodo di notti travagliate, ma prima dell’alba il sonno si era bell’e concluso. Avrebbe studiato un’oretta e poi sarebbe andata a svegliare Ruggero con il caffè e il biscotto da mordere a metà, come succedeva ormai tutti i giorni: la coscienza continuava a rimorderle per quell’ignominioso sospetto.

Crollata la sera precedente davanti alla replica della seicentotrentaquattresima puntata di Beautiful, Marietta aprì gli occhi. Una timida luce filtrava dalle fessure della persiana. Allungò la mano sul comodino e lo trovò ancora là, frusciante, reale, tangibile: il telegramma con cui la redazione televisiva la invitava a partecipare alla trasmissione Incontro in giardino di lì a due settimane. Lo lesse e lo rilesse, lo baciò, se lo poggiò sul braccio sinistro e lo cullò. Non aveva sognato, no. In realtà, qualche giorno prima aveva anche ricevuto la telefonata di una centralinista della tivù che le aveva chiesto la sua «disponibilità in termini di giorni» assicurandole che avrebbe fatto seguito una comunicazione scritta. Ed eccola, puntualissima. E ora? Ora si sentiva presa dalla paura. Altro era pensare di andarci, altro era farlo veramente. L’avrebbero vista tutti, e giudicata. Avrebbero pensato che era alla ricerca disperata di un uomo, che era un’assatanata. Dio solo sapeva cosa avrebbero pensato. E detto! Quasi quasi rinunciava.

Ma sei stupida, dopo aver aspettato più di un anno?! si disse. Avrebbe chiesto consiglio a Tranquillo, che le aveva assicurato di poter contare su di lui per qualsiasi cosa perché riteneva di essere uno dei pochi a credere nell’amicizia sincera tra uomo e donna, e volentieri le aveva offerto la sua. Sapendo che era mattiniero, gli telefonò all’alba, ma una voce metallica rispose che il cellulare era spento o non raggiungibile. Poco male. Sarebbe passata in Comune a parlargli di persona, lui le aveva detto di presentarsi pure in qualunque momento, aveva accesso libero. Scese dal letto, andò alla finestra e aprì tenda, vetri e persiana, regalando un sonoro sbadiglio alla verde vallata che si stava risvegliando. Con occhio critico guardò le nuove costruzioni giù in pianura. Non le piacevano, le considerava uno scempio edilizio, eppure da lì quelle palazzine rosa cipria, mandarino smorto, i balconcini in tinta, adesso le sembravano casette di plastica, per le bambole. Avrebbe potuto allungare una mano e afferrarle, e giocarci come una bambina. La bambina che non era mai stata, pensò con tristezza alzando gli occhi verso l’azzurro del cielo, da cui forse sua madre stava vegliando su di lei.

Marietta sentì un frullo di ali. Alle sue spalle, dal campanile della chiesa, uno stormo di rondini si era levato in volo nel tiepido sole di fine aprile.