Marietta fu la prima a varcare la soglia del Municipio non appena l’usciere ebbe aperto il portone d’ingresso, alle otto e trenta. Tuttavia, mentre le altre persone in attesa sui gradini si diressero sicure chi all’anagrafe, chi ai tributi e chi altrove, lei dovette fermarsi e farsi indirizzare dall’uomo in livrea. Gli uffici degli assessori erano al piano superiore, ma ci voleva l’appuntamento. Che lei finse di avere alle otto e quarantacinque con il professor Tranquillo Conforti.
Il quale però era in ferie, le comunicò l’impiegata dell’ufficio cultura, sbugiardandola non senza una punta di malignità.
Marietta curvò le spalle sotto il peso della sua inclemente solitudine. Il destino non si smentiva mai, neanche per un incontro innocente, per un misero consiglio.
O forse sì, stavolta si smentiva.
«Posso esserle utile, signora?»
Apparso alle spalle, le aveva girato intorno pronunciando la parola «signora» con la erre alla francese, come faceva da bambino. Oddio, se l’era scordata! Si era scordata di quando la chiamava Mavietta nel cortile dell’oratorio. E lui, lo aveva dimenticato lui?
«Buongiorno, signor sindaco».
L’impiegata salutò Felice con deferenza.
Preda di una forte, improvvisa emozione, Marietta non riuscì a pronunciare nemmeno una sillaba e si limitò ad annuire. Lui le fece strada verso la sua stanza, aprì la porta e si mise di lato cedendole il passo; lei entrò e lui la seguì. Quindi spostò una delle poltroncine che aveva davanti alla scrivania e lei si accomodò. Poi girò intorno alla scrivania e, a sua volta, sedette: su una poltrona dallo schienale alto, color cuoio un po’ logoro. Le sorrise amabile, mentre si scusava e rispondeva al telefono. Marietta osservò l’ambiente, che era ampio e luminoso; la grande vetrata affacciava sulla piazza. Si vedeva lo zampillio brioso della fontana all’ombra del centenario gelso resistito a tutte le furie; di fronte c’erano la latteria di Belinda e l’edicola di Dora, la fioraia, il parrucchiere parigino e l’ortolano; all’angolo faceva capolino l’insegna della bottega di sapone artigianale; nell’appartamento che una volta era di proprietà del deceduto medico condotto, un imbianchino stava dando una mano di pittura. Il pavé della piazza era pulito, lucido che sembrava quasi tirato a cera. Dalla ringhiera del balcone partivano le aste delle bandiere, perennemente sventolanti. L’abbagliante mole del Castelluccio svettava contro il terso cielo primaverile.
La scrivania del sindaco era di mogano, massiccia, lunga, anch’essa lucida, ordinatissima, due telefoni grigi, una pulsantiera, un computer portatile, una lampada alogena insolitamente moderna per l’ambiente, un set in pelle nera e un vaso di cristallo intagliato pieno di fiori gialli, freschi e odorosi; laterale, campeggiava un gonfalone identico all’altro che si trovava vicino alla porta del Municipio, fiero come il suo gemello, e alle spalle di Felice faceva bella mostra di sé un enorme arazzo del borgo che fu, un manipolo di cavalieri corazzati in primo piano, una figuretta femminile alla finestra di una delle quattro torrette. Sopra la mensola marmorea di quello che una volta era stato un camino scoppiettante, Marietta contò otto anfore di terracotta, di certo antiche, sistemate in perfetto ordine d’altezza, mentre, da una cornice dorata sul muro più in alto, il presidente della repubblica, serio e bonario, guardava fisso la parete opposta.
Felice mise giù la cornetta e schiacciò un tasto; immediatamente la sua segretaria si materializzò sulla soglia.
«Posso offrirle un caffè?» chiese lui a Marietta che accennò un «non si disturbi», ma l’impiegata stava già infilando una cialda nella macchina per l’espresso che era appoggiata su un tavolino laterale.
Dopo la sfilza di grazie prego grazie prego quanto zucchero uno va bene a me due grazie prego grazie prego, il sindaco si predispose all’ascolto. Cogliendo al volo un’occasione irripetibile, Marietta giocò la carta del negozio di filati che le sarebbe piaciuto aprire in pieno centro storico, ripetendogli le parole che si era preparata e aveva imparato a memoria: una filiale di Fili Fatati Dal 1888 che, come lui sicuramente sapeva, era molto conosciuto nel capoluogo, ma aggiungendovi un assortimento di articoli innovativi, ovvero degli abiti prodotti con una speciale fibra a base di soia; oppure, in alternativa, una boutique completamente nuova che si svincolasse da qualsiasi nome noto e fosse esclusiva del borgo.
«Mi sembra un’ottima idea e la ringrazio per avermene informato. Purtroppo gli incentivi stanziati per il commercio sono terminati» disse il primo cittadino assumendo un’espressione dolente.
Quella del rilancio commerciale del territorio era stata un’iniziativa di cui si era fatto paladino in prima persona – continuò –, resa possibile grazie ai contributi governativi che però erano finiti e non ne sarebbero arrivati altri. Non nel breve o medio termine, almeno. La nuova finanziaria li aveva eliminati. Lo sapevano tutti, non si parlava d’altro: sacrifici, sacrifici, sacrifici. Questa era la parola d’ordine al giorno d’oggi.
«È allo studio la fattibilità di una shopping card che offra facilitazioni come sconti, accrediti, punti e quant’altro, per dare maggiore impulso agli acquisti qui al borgo. Ma è ancora da realizzarsi».
Però – aggiunse – era sicurissimo che la banca locale avrebbe potuto garantirle uno di quei mutui a tasso agevolato previsti per il rilancio del territorio e che il negozio sarebbe stato un enorme successo. Una titolare così affabile e simpatica avrebbe presto fidelizzato un’ampia clientela; se avesse aggiunto il reparto maschile, lui sarebbe stato il primo acquirente. Anzi, si prenotava fin da ora.
Marietta ebbe il sospetto, o meglio la speranza, che ci stesse provando. Era così galante! Vuoi vedere che ricambiava l’attrazione che lei aveva per lui? si domandò. Quella pettegola di Dora stavolta l’aveva detta proprio gigantesca, la fesseria. Scoprì le altre carte: rispolverando il passato sarebbe stato più facile.
E infatti.
«Certo che mi ricordo! Marietta! La mia cara, carissima Marietta!» esclamò Felice facendo entusiasticamente rimbalzare la erre moscia tra le parole. «L’oratorio... Frate Rinaldo, suor Carolina, il sagrestano... come si chiamava?»
«Michelangelo».
«Già, Michelangelo... Michelò!»
«Michelò» confermò lei, ricordando l’omone tanto grosso quanto buono che in chiesa distribuiva caramelle all’orzo ai bambini che non avevano ancora fatto la prima comunione e non potevano prendere l’ostia, per non farli rimanere a bocca vuota.
«E sua moglie Clotilde, che ci portava le treccine di pasta dolce... con l’uvetta...»
«Treccine? Erano treccione! Io ne andavo matta. E la cotognata...»
«Quella a me non piaceva. E la perpetua stortignaccola... Ermanna?»
«Mmm... no, Ermene... Ermengarda! Aveva un caratteraccio...»
«E pure la barba! Una volta la beccammo con il rasoio in...»
E così via.
Furono interrotti dalla segretaria: era arrivata la persona con cui il sindaco aveva appuntamento alle undici.
«Già le undici?!»
Felice non poteva crederci. Aveva trascorso quasi due ore e mezzo con Marietta e, tra i piacevolissimi ricordi della fanciullezza, non si era accorto che fossero volate. Per quale motivo non era andata a trovarlo prima? la rimproverò quando lei si fu già alzata per uscire. Era sindaco da tre anni. Averlo saputo, l’avrebbe cercata lui. L’aveva sempre ricordata come la specialissima compagna delle sue meravigliose estati dai nonni. Pensava che fosse andata via dal borgo e non gli era passato per la testa di controllare. Non c’era nemmeno stato il tempo, in verità, mille impegni e mille problemi. Ma che bello averla ritrovata! Avevano tantissime cose da raccontarsi: perché non cenavano insieme? Poteva permettersi d’invitarla in qualità di vecchio amico o c’era un marito geloso a impedirlo?
«Sono single» lo tranquillizzò lei e istintivamente gli mostrò la mano sinistra disadorna, ignara di accendere una lampadina nella mente di Felice.
Uscita dal Municipio, Marietta percorse la strada fino a casa danzando sulle punte, le note di un adagio le risuonavano nelle orecchie. Respirò l’aria a pieni polmoni, inebriandosi. Benedetta primavera! Non vedeva l’ora che arrivassero le otto di sera dell’indomani; per l’avida gioia di tutte le pettegole dietro le finestre, l’appuntamento era davanti al suo portoncino d’ingresso. Aveva proposto d’incontrarsi a fondovalle o almeno fuori le mura, ma Felice si era categoricamente opposto.
«Ti vergogni di farti vedere con me?» aveva chiesto, e lei si era sentita una sciocca.
No, aveva farfugliato, lo diceva per lui, era la personalità più in vista del borgo, mentre lei solo una comune cittadina!
«A parte il fatto che siamo amici d’infanzia, io sarò orgoglioso di farmi vedere al fianco di una bella donna».
Oh!
Finalmente la vita aveva fatto una giravolta in suo favore. Marietta era... Felice! Una fortuna l’incontro di quella mattina. E lei una vera stupida a non averlo cercato prima. Lo aveva trovato meglio di come se lo immaginasse: brioso, alla mano, pronto alla battuta. Ovvio che i propiziesi lo amassero. Avrebbe governato a lungo, ne era certa. E lei gli sarebbe stata amica.
Amica, intanto; forse un domani qualcosa di più.
Peccato per i contributi, però alla banca ci sarebbe andata davvero, in settimana, a sentire quali tipi di mutuo potevano offrirle.
Ora, con la spalla forte di Felice, era tutta un’altra musica. Nelle sue orecchie l’adagio era diventato un rondò vivace.