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Le parole per dirlo

Felice non riusciva a trovare le parole per dirlo. E, dopo avere raccontato a Marietta dell’infanzia, degli studi, del lavoro d’ingegnere, ora si stava dilungando sui problemi della carriera di sindaco in cui profondeva tutto il suo amore per il borgo. La piazza del Municipio, poi, la considerava un salottino e guai se c’era una carta a terra. Attirandosi le ennesime critiche dell’opposizione con relativo seguito di picari, aveva disposto che un netturbino fosse dedicato esclusivamente a tenerla pulita. In quest’ottica aveva spostato l’antico mercato settimanale a fondovalle, nel parcheggio davanti alle nuove costruzioni (neanche a lui piacevano granché, ma aveva dovuto mediare per il bene della zona antica). Non era decoroso ritrovarsi ogni mercoledì con una miriade di bancarelle che insozzavano e degradavano quel prezioso scrigno di eventi e civiltà che era il centro storico. E non era nemmeno turisticamente vantaggioso, giacché a causa loro quell’intero giorno i pullman non potevano parcheggiare fuori le mura per via dei loro camioncini. All’inizio, appena uscita l’ordinanza, c’era stato un presidio di protesta da parte dei commercianti, Marietta forse lo ricordava. Anche se quelli erano di fuori paese, Felice aveva temuto di vedersela brutta con i propiziesi più tradizionalisti, ancorati alle abitudini. Così gli era venuta l’idea d’istituire una navetta gratuita che fortunatamente aveva messo d’accordo tutti. E poco tempo dopo quegli stessi commercianti lo avevano ringraziato per l’area più ampia e agevole che ora avevano a disposizione e per tutti i nuovi clienti che, con le loro invitanti mercanzie, i colori sgargianti, le grida allegre, riuscivano a carpire al supermercato locale. La navetta era gratuita per gli utenti, certo, ma per il Comune no. Il costo andava in qualche modo coperto, e così Felice era stato costretto a ritoccare lievemente, quasi impercettibilmente, l’addizionale comunale. Sperava che lei non lo biasimasse. Si trovava in una posizione talmente delicata...

Marietta lo interruppe rassicurandolo: lo comprendeva e condivideva.

«Un colpo al cerchio e uno alla botte» sintetizzò, e lui capì che quello era il momento.

Un sorso di cherry-brandy gli instillò il coraggio necessario e le parole si fecero limpida acqua di sorgente e affluirono lente, naturali, sincere ai cinque sensi di Marietta.

Che non scappò a gambe levate come Felice aveva temuto, ma ascoltò il respiro sconosciuto di quel fiume di frasi che l’altro sussurrava con pudore, ma anche orgoglio e responsabilità.

«Gli amici si vedono nel momento del bisogno» gli disse.

E lui le sorrise, grato.

Tornata a casa, Marietta si tolse l’abito che sperava avesse dato una svolta alla sua vita e lo mise sul letto, poggiandolo con cura. Come immaginò si facesse con un bambino, che il destino non aveva voluto darle. E neanche un uomo, per come stavano i fatti. Lo stirò con la mano, in realtà lo accarezzò; con l’indice ne appiattì una piega che si era formata sulla scollatura. Forse anche più corto di un paio di centimetri non le sarebbe stato male, pensò, cioè a metà ginocchio. Solo un paio. E un paio di centimetri in più di tacco. Due in meno lì e due in più là l’avrebbero slanciata, il gonfiore sull’addome l’aveva già perso e stava meglio. Stava bene, anzi. Insomma era una donna piacente: non bella, per carità, ma piacente sì. Senza falsa modestia poteva confessarselo.

A che serviva?

Gli amici si vedono nel momento del bisogno.

Sì, lo aveva detto, e con convinzione. Non stava solo citando un proverbio. Però, se non la meraviglia (brava, Dora, le azzeccava tutte!), un certo turbamento lo aveva provato, anche se lui fortunatamente non se n’era accorto. E la delusione, oh, la delusione...

Che stupida! Avere temuto che Felice fosse irruente e si dichiarasse subito, che addirittura potesse farle una proposta sconcia. Avere anelato una passeggiata a piedi dopo cena, forse sottobraccio o mano nella mano, o che addirittura le passasse il braccio attorno alla spalla... alla vita...

Invece.

Invece la notizia – folgorante, inaspettata – in fondo l’aveva sempre saputa. Anche questo poteva confessarselo. Perciò ora le sembrò di navigarlo su una zattera fatta di canne di bambù, il fiume di frasi di Felice, con una leggerezza che non aveva mai conosciuto nella sua vita. E, sollevata per non aver dovuto fronteggiare il paventato cervo nella stagione della monta, decise che non avrebbe permesso al vento di portarle via il suo compagno di giochi dell’infanzia. No, non avrebbe lasciato che il fiume lo smarrisse dentro il mare tempestoso della cattiveria umana e della rivalità politica (lo avevano persino accusato di essere irrispettoso nei confronti del suo stesso ruolo una volta che si era presentato in jeans).

Perché il sorriso di gratitudine di stasera era lo stesso che le riservava il bambino dagli occhi lucidi all’oratorio, quello che si sforzava di non piangere e che lei difendeva quando i compagni maligni lo prendevano in giro per il suo ridicolo nome e cognome, e forse non solo per quello. Era lo stesso sorriso del bambino buono, dolce, serio, educato e disponibile che l’aiutava a vestire la Barbie.

Se era un sentimento che Marietta cercava, questo era un sentimento; vero, di un’amicizia antica e profonda che il tempo non aveva alterato.

Per questo sentimento aveva accettato la proposta di Felice. E ora, facendo chiarezza in se stessa, ne era contenta.

E poi chissà, nella vita non si può mai sapere... Perciò Marietta iniziò a sperare che la zattera risalisse la corrente e che lui un giorno cambiasse direzione.

E perciò decise anche di non partecipare a Incontro in Giardino.

«Pronto, Bartolo!» esclamò Cesare, rispondendo al cellulare dopo avere letto sul display il nome dell’amico, e lo pregò di aspettare un attimo, il tempo che attaccava l’auricolare. «Ecco qua. Meglio non rischiare di perdere i punti della patente. Sono un bene prezioso».

L’altro si dichiarò d’accordo e: «Ti disturbo?» domandò.

«No, affatto» rispose Cesare. «Sto tornando a casa adesso, ho avuto una giornata pesante». E la serata sarebbe stata anche peggio, erano quasi le nove e Claudia avrebbe dato la stura alle solite lamentele, o messo il muso. Oppure tutte e due le cose. Ma non lo disse: l’amicizia con il maresciallo non era così intima. «E tu che fai di bello?»

«Sono in caserma, faccio il turno di notte».

Forse non aveva da lavorare e voleva chiacchierare un po’? chiese Cesare a se stesso. Ma non a Bartolo, per il motivo di cui sopra.

«Come sta tua moglie?»

«Bene, grazie. Il viaggio in Romania l’ha rinfrancata. Prima era un po’ giù di corda. Sai che le donne, se non si distraggono, si fissano con i loro pensieri...»

«Lo so, io ne ho cinque. Anzi sei, con mia suocera, che abita sopra di me».

«Non t’invidio...»

Cesare non sapeva che neanche Bartolo invidiava lui: per ciò che gli avrebbe detto.

«Ti ho chiamato perché... avrei... ho una notizia che... temo non vi farà piacere...»

«È successo qualche guaio?» domandò l’avvocato, la tensione nella voce al pensiero che il marito di una delle donne che si rivolgevano al centro antiviolenza avesse denunciato Claudia. O che, per aiutare quelle sventurate, si fosse cacciata in un brutto pasticcio.

Le aveva detto che non era d’accordo che andasse lì, poteva fare la volontaria con i bambini all’ospedale o come centralinista alla Croce Rossa. Forse non glielo aveva ancora detto, se n’era dimenticato, ma lo avrebbe fatto stasera stessa.

«Nessun guaio» lo tranquillizzò Bartolo. «È che stasera mi ha telefonato il giudice minorile. Sai, l’amico del sindaco di Borgo Propizio a cui mi ero rivolto per...»

«Sì, io e Claudia l’abbiamo conosciuto».

«...ecco, lui. Voleva dirmi...»

«...»

«...a proposito della...»

«...»

«...appunto, della vostra richiesta di adozione...»

«...»

«...ci sarebbe... c’è una novità...»

Con quelle parole smozzicate, Cesare si sentiva sui carboni ardenti: «E allora?» incitò.

«Il ragazzo non è solo al mondo. Ha una zia che lo vuole prendere con sé».

Sollecitato, il maresciallo era riuscito a spiegarsi in un fiato.

«Cioè adottarlo?»

«Già».

Irene aveva una sorella, o meglio una sorellastra, che se n’era andata dalla casa parentale molto giovane, trasferendosi da certi parenti emigrati in Germania perché non sopportava la convivenza con il secondo marito della madre, delinquente e ubriacone, che poi era il padre di Irene. Aveva sposato il figlio di una coppia d’immigrati italiani e abitava nel Nord del paese dove entrambi lavoravano alla fabbrica della Volkswagen. Avevano due figli, un maschio e una femmina già maggiorenni, e potevano occuparsi del nipote.

«Lui lo sa?»

«Il ragazzo sì».

«È d’accordo?»

«Il giudice gli ha parlato e lui ha detto che, sì, vuole andare via dall’Italia, dove gli hanno ammazzato entrambi i genitori. Come sai, una volta ha tentato di scappare dall’istituto che lo ospita».

«Capisco».

«Mi dispiace».

«Anche a me, ma il più sarà per Claudia. Non so come la prenderà».

«Non avrei voluto essere io a darti questa notizia. Sarò vigliacco, ma preferivo che il giudice avesse telefonato a te».

«Appunto. Mi stupisco...»

Cesare ignorava che il magistrato aveva chiesto al maresciallo d’incontrarsi di persona con curiosa urgenza, la sera stessa, e solo l’impegno lavorativo di quest’ultimo (in realtà non faceva un semplice turno di notte, stava seguendo una pista molto delicata) l’aveva convinto a parlare al telefono, strappandogli la promessa che sarebbe passato in tribunale alla prima occasione perché gli potesse illustrare meglio il tutto.

«Me ne sono meravigliato anch’io, d’altronde ho solo fatto da tramite. Però mi è parso maleducato dire che non c’entravo nulla e insistere perché chiamasse direttamente te. Immagino che lo farà o ti arriverà una comunicazione ufficiale» concluse Bartolo.

E si salutarono con un reciproco: «Ci vediamo presto».

Si dice sempre così e poi non ci si vede mai, pensò Cesare.

Che adesso doveva trovare le parole per dirlo a Claudia.