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La vendetta

Che cosa stava facendo Antonia? Non lo sapeva neppure lei, rifletté mentre sciacquava le fragole che aveva messo nell’acqua e bicarbonato insieme ai pomodori ciliegini, la sua cena. Trottolava, fisicamente e telefonicamente, fra le agenzie interinali che continuavano a chiamarla per colloqui, ma non per lavori decenti (si stava accontentando di fare la commessa part-time in un negozio di oggettistica per sei mesi, una sostituzione di maternità, e le era andata pure bene), e le case editrici che sembravano incuriosite quando menzionava di possedere un epistolario inedito di Rocco Rubino, ma poi non le dicevano più nulla. Tutto vacuo, tutto inconsistente.

Per fare qualcosa di concreto, si era tagliata i capelli. Aveva guardato con distacco i boccoli ramati sul pavimento, così belli che stentava a crederli suoi. Salvo poi pentirsene appena uscita dal parrucchiere. Però, specchiandosi con curiosità nelle vetrine, si era piaciuta; le sembrava che il caschetto la ringiovanisse, le arrotondasse l’ovale eccessivo del viso, le ingrandisse gli occhi e evidenziasse gli zigomi. Un postino, fermo al semaforo rosso sul motorino mentre lei attraversava, le aveva fischiato dietro, un fischio di ammirazione. O almeno lei aveva voluto interpretarlo tale. Il fischio le era rimasto impigliato nell’orecchio, come il rumore del mare dentro le conchiglie in vendita nei negozi di souvenir.

Souvenir. Ad Antonia non piacevano le parole straniere. Da ragazza avrebbe voluto studiare lettere classiche, ma fin dalla nascita era stata predestinata a lavorare nell’azienda di famiglia. Sebbene lo avesse poi apprezzato, era diventata architetto per obbligo.

Dunque, souvenir uguale ricordo.

A cosa serviva ricordare ancora?

Rocco conseguiva indisturbato nuovi successi e i suoi libri venivano insigniti di prestigiosi premi. Parola mia aveva superato le ennemila copie e in autunno sarebbe uscito l’attesissimo nuovo romanzo, di cui era stato anticipato il titolo alla stampa: Il passo dell’alligatore; il mese precedente aveva partecipato a Libroviaria, una rassegna cultural-ferroviaria, itinerante lungo tutta la penisola, per presentare la sua opera omnia, mentre Vince Vasino stava diventando protagonista di una bellissima fiction che avrebbe reso brutta e scialba persino Beautiful (non che lei l’avesse mai giudicata diversamente da così). Ciliegina sulla torta, Ornella aveva pubblicato sul sito del Comune di Borgo Propizio l’intervista che gli aveva fatto e che Antonia conosceva a memoria, per averla letta mille volte con un dolore cieco negli occhi. Specialmente l’ultima risposta.

D.: Nei suoi romanzi ci sono delle originali peculiarità anche faunistiche.

R.: Sì, grazie a mia moglie, che è il mio perno. Il furetto è stato artefice del nostro primo incontro e la scimmia... il primo pupazzo me lo fece lei, con le sue mani. Lo porto sempre appresso come portafortuna.

D.: Cosa rappresenta la sock monkey?

R.: È il simbolo della metamorfosi, perché nella vita tutto si può trasformare, come un calzino in una scimmia o una scimmia in un amuleto. E tutto si trasforma intorno a Vince Vasino. Solo lui non cambia.

D.: Resta invincibile?

R.: Già, e vincente. Ripara, annoda, incolla, salda: storie, situazioni, sentimenti; ricuce gli strappi, dà forma a ciò che è informe, allaccia passato e futuro. Ma non si sposta mai dalla sua dimensione. Né dal suo furetto.

D.: Albino?

R.: Sì, con la lettera maiuscola: Albino di nome e di fatto. Un furetto geniale.

D.: Il suo rapporto con il pubblico?

R.: Devo tutto ai miei affezionati lettori e alle incantevoli lettrici. Il mio successo è il loro successo. La più grande soddisfazione è quando un lettore mi scrive che con un mio libro l’ho ispirato nel prendere una decisione o che sono stato di consolazione a un dolore o che ho dato risposta a una domanda impossibile, quando addirittura non ho influito nelle svolte della sua vita.

D.: La prossima creatura?

R.: Mia moglie partorirà in autunno.

Antonia aveva fatto un sogno strano di recente. Intentava una causa legale contro Rocco per non averla sposata, scegliendo come avvocato un uomo azzimato, di bassa statura, gli occhiali cerchiati di un terribile ocra shocking sul naso camuso: il signor Muro, che era andata a conoscere di persona alla prima edizione della mostra del libro S-book-iamoci, dopo aver peregrinato tra gli stand di quegli editori che non era riuscita a raggiungere via telefono. La voglia di vendicarsi era massiccia, ma non aveva combinato nulla, né dentro il sogno, né alla fiera il cui nome era stato pensato – come recitava il sottotitolo – con lo scopo di dare nuovi sbocchi ai libri.

E non aveva concluso niente nemmeno con il signor Muro, che le aveva detto di essere un uomo pratico e di saper riconoscere un buon affare dall’odore dei fogli che leggeva. Perciò, spassionatamente, le consigliava di desistere dal suo proposito: nessuno avrebbe mai pubblicato quelle lettere così teatrali, stucchevoli, quasi fasulle; senza offesa, spesso sembravano addirittura una presa in giro, come quando ad esempio la definiva sirena del mio incantesimo, latrice del mio mesto cantico, mia consolazione, mio viatico o quando lui si dipingeva viandante senza fissa dimora, alla ricerca di un porto che lo accogliesse nel proprio ventre.

«Quale uomo si sarebbe veramente espresso così con una donna? Neanche Leopardi, suvvia! Questa è la parodia della letteratura».

A ogni modo, era assolutamente inverosimile nel caso di Rocco Rubino, conosciuto e apprezzato per lo straordinario personaggio dei suoi gialli in cui la sottesa, ma diffusa, vena poetica accentuava una prosa lucida e realistica di rara forza, di rara coerenza. Poco sarebbe importato, perfino ai lettori più morbosi, che si fosse dedicato a pratiche onaniste pensando a un’amante irraggiungibile; non ci avrebbero neanche creduto. A parte il fatto che Rocco era legato a una donna molto autorevole in tanti campi, incluso l’ambiente culturale, la quale avrebbe stroncato chiunque l’avesse messa in ridicolo, fosse anche l’agente letterario più influente o la maggiore casa editrice internazionale.

Piuttosto, il motivo per cui aveva voluto incontrare Antonia era che, in quel carteggio, nelle risposte di lei, aveva intravisto una voce. Una voce su cui sarebbe stato disposto a scommettere. Se e quando avesse avuto qualcosa di pronto o l’idea di un romanzo da sottoporgli, li avrebbe valutati molto volentieri. Ed era certo di non rimanere deluso.

Per un attimo lei immaginò di scrivere, come Rocco e contro di Rocco, giacché non poteva farlo per e con lui; si vide a correre per lo Strega e il Campiello, con uno scarto minimo, solo uno o due voti; fantasticò che le si avvicinasse, un baciamano, un complimento sincero, lui per una volta tale, con dentro gli occhi quell’antica luce che l’aveva fatta innamorare.

A casa, Antonia ci aveva pensato, seriamente e a lungo; aveva anche abbozzato una trama, messo giù diversi incipit e l’embrione di qualche capitolo. Aveva perfino azzardato i nomi dei personaggi. Ma, gira e rigira, che si chiamassero Anna e Marco, Teresa e Michele, o paradossalmente Tristano e Isotta, Orfeo e Euridice, sempre di lei e Rocco si trattava. Anzi, sempre di lei senza Rocco.

A scrivere di lui non ce la faceva, e di scrivere altro non si sentiva capace. Né le interessava. Comunque fosse andata all’università, quali che fossero state le sue aspirazioni da ragazza, adesso era un architetto. E le sarebbe piaciuto continuare a fare il suo lavoro. Anzi, le sarebbe piaciuto qualcosa di più che misurare pareti e disegnare cucine. Ma sapeva che prima di tutto c’erano altri tagli, oltre i capelli, che doveva assolutamente dare alla sua vita. Per esempio, quello con la città in cui ancora abitava, dove – cercando cosa non lo sapeva – passava come una ladra davanti alla sua vecchia casa e a quella dei genitori, o davanti alla filiale della banca dove un tempo Rocco lavorava e alla mansarda in cui aveva abitato; la città dove lei aveva vissuto i momenti più tristi e svilenti del suo onorabile matrimonio, e i più esaltanti, peccaminosi e disperati della sua relazione clandestina. Per un certo periodo aveva cullato l’illusione di potersi rifugiare a Borgo Propizio, le sarebbe tanto piaciuta una tana all’ombra dell’imponente rocca medievale con le sue romantiche torrette, perché lì si era sentita accolta dalle pietre antiche che sapevano d’infinito, dalla dolcezza della collina inghirlandata di vigne e frutteti, da un’intrigante leggenda che quasi nessuno raccontava più; lì aveva sentito di potersi nutrire dell’aria che vi si respirava, un’aria che sapeva di buono, di antico, di storie di dame e cavalieri, di biancheria inamidata, di pani croccanti fatti in casa; aveva sentito che forse potevano farle compagnia i contorni di antiche figure muliebri vestite di nero, che indisturbate procedevano con grosse giare in equilibrio sulla testa lungo sentieri ciottolosi ed eterni.

Purtroppo il destino non aveva voluto che fosse quella l’alternativa per lei. Anche lì il grande scrittore stava imprimendo la sua orma e la stava scacciando.

Con il suo ingombrante carico di bagagli e di bisogni, per Antonia la soluzione era partirsene per un luogo lontano. L’idea si era presentata da sola, mentre consultava i siti degli annunci di lavoro.

L’Unione Europea aveva indetto un bando per alcune opere di architettura moderna e, fortunatamente per lei, il limite d’età non erano i soliti, limitati trentacinque anni; i vincitori avrebbero ricevuto una discreta somma in danaro e si sarebbero dovuti trasferire per realizzare il lavoro proposto – ognuno il proprio – nel più adeguato contesto urbanistico o paesaggistico tra quelli prescelti dagli stati membri comunitari. Le era sembrata un’ottima occasione e aveva partecipato con un progetto d’ispirazione fitomorfica che aveva in mente fin dall’università. Attendeva con ansia di conoscere l’esito, come se fosse ancora una studentessa. Un’anacronistica studentessa. Be’? Non c’era forse un libro intitolato La vita comincia a quarant’anni? O può darsi che non fosse un libro, ma un film, o un modo di dire. In ogni caso, a lei mancava ancora qualche mese per il quarantesimo compleanno. Il tempo giusto per – sperava – organizzarsi un nuovo inizio. Che pieghe curiose può assumere la vita, rifletté, chi l’avrebbe mai detto il giorno in cui aveva attraversato la navata della chiesa per pronunciare un già fiacco sì. Ripercorse i silenzi, la stanchezza, la noia quotidiana, l’insofferenza, lo scoprirsi estranei nello stesso letto... e poi il colpo di fulmine, la vita che si rivelava, l’amore, le promesse, i sogni... e poi ancora il tradimento, i tradimenti, quello fatto e quello ricevuto, la vigliaccheria, la fuga, le domande senza risposta... Basta!

Adesso desiderava vivamente ricominciare e, più di tutto, tagliare Rocco, il suo intero ricordo, da sé: poco importava che fosse un ramo secco o uno ancora verde di linfa, una linfa però per lei mortale; poco importava che il dolore che le aveva lasciato non urlasse più come un lupo mannaro, ma si fosse trasformato nel sordo latrare di un cane, bastardo. Voleva liberarsene e basta, e se ne sarebbe andata se appena appena avesse potuto, giacché restare non aveva aiutato. Si parlava tanto di fuga dei cervelli, lei avrebbe aperto la strada alla fuga dei cuori.

Anche se le dispiaceva moltissimo dover rinunciare a vendicarsi.

Nella sera frizzantina, guardò il cielo: fiocchi di nuvole rosse facevano da corona a un immenso lago blu illuminato da una sola luce, la stella polare. La stessa che si vede da qualsiasi punto cardinale, pensò Antonia, mettendo in bocca un’albicocca.

Forse smettere di amarlo era l’unica, vera vendetta.