Belinda decise che si sarebbe comprata una sveglia elettronica. La sua – antica, per così dire, di metallo cromato, una mucchetta dietro il vetro graffiato che oscillava la testa per accarezzare il vitellino pezzato –, acquistata sulla bancarella di un rigattiere in seguito a un colpo di fulmine (per l’oggetto, non per l’uomo), era meglio che fungesse solo da silente soprammobile. Il suo trillo rivaleggiava con il clangore delle campane della chiesa e, più di tutto, il ticchettio martellante le ossessionava i timpani nel silenzio delle notti addormentate in cui lei, purtroppo, da un po’ di tempo si svegliava prestissimo. Stanca della giornata in negozio, andava a letto con le galline, anzi ben prima delle pennute, e crollava, subito trascinata da un sopore quasi oppiaceo. Ovviamente, verso le tre o le quattro era bell’e desta, due fanali antinebbia al posto degli occhi.
Quella mattina, alle cinque meno un quarto, aveva dormito più di sette ore. È andata di lusso, si disse valutando che le possibilità di riaddormentarsi erano pari a zero. Prese il cellulare dal comodino per controllare se era arrivata qualche chiamata, sebbene non ne aspettasse (infatti non ce n’erano). Poi mandò un messaggio a Mariolina per sapere com’era andato il concorso, anche se stava dormendo da chissà quanto tempo, pensò, ignara che l’amica si fosse appena addormentata tra le braccia del marito. Poco male, le avrebbe risposto al risveglio, domani. Cioè oggi, cioè tra qualche ora.
Si sentiva ancora troppo calda di sonno per fare la doccia e così, bevuto un bicchierone di latte vanigliato, si mise a stirare le tovaglie della latteria e quel po’ po’ di capi suoi che aveva accumulato. C’è un tempo per tutte le cose, diceva spesso zia Letizia, citando Paulo Coelho. Il tempo di Belinda per certe faccende domestiche era l’alba.
Stirò per due ore e ancora risultava essere presto. Oggi sarebbe iniziato il corso di Latte Art. Ma cominciava alle dieci, e quindi c’era un sacco di tempo. Gli occhi le caddero sui libri che le aveva prestato Ornella, rimasti abbandonati nel portariviste. Ne prese uno a caso e lo sfogliò pigramente, poi lesse la prima pagina.
Un uomo senza onore è come un albero senza linfa, pensava Vince Vasino nella sera ottobrina. Stava tornando a casa, ma con l’animo di un viandante senza fissa dimora, alla ricerca di un porto che lo accogliesse nel proprio ventre. Il vento piegava i rami ormai spogli e le sue orecchie infreddolite. Lui non vi badava: ascoltava invece la coscienza, piegata sotto il peso dei ricordi. Nel cuore, la sorda eco di una promessa, la sua. Il vapore sarebbe partito fra due giorni. Istintivamente si portò una mano in tasca e il biglietto gli bruciò sotto le dita. Così come bruciavano le labbra di suo padre quando, la disperazione dipinta sul volto, lo aveva supplicato di scoprire la verità. Mentre la mano della morte si era già tesa ad afferrare membra e spirito dell’uomo che gli aveva dato la vita, l’uomo che per lui rappresentava il principio di tutte le cose.
«Sì, papà. Parola mia».
Parola d’onore.
La bestiola, appisolata sul suo braccio, si mosse, si allungò e lo leccò. La lacrima che tremolava nell’occhio di Vince venne inghiottita da un mesto sorriso.
«Albino» sospirò, «mia consolazione».
Se non avesse avuto il furetto, sua spalla, ombra, interfaccia, anima e mente, Vince Vasino, lo stimatissimo commissario della questura di New York, sarebbe stato solo un granello di sabbia su una spiaggia sconfinata. Perso.
Poi lesse la seconda pagina, e la terza e la quarta e...
Immersa nella lettura, Belinda si riscosse solo quando udì la rumorosa saracinesca alzarsi. Zia Letizia stava già aprendo la latteria. Caspita, si erano fatte le nove! Tardissimo! La lettura l’aveva catturata a tal punto che non si era accorta del tempo che passava. Balzò in piedi e poi nella vasca per una doccia super rapida. Pantaloni, camicia, un giubbotto infilato da una sola manica, e si precipitò giù.
Letizia stava pulendo il guano dei piccioni sul vaso vicino alla vetrina, dove avevano collocato una pianta di gelsomino che, nel pieno della fioritura, ora accoglieva i clienti con il suo profumo. Non solo i clienti, evidentemente.
«Zia, devo scappare!»
Belinda le porse le tovaglie, le diede un bacio e s’infilò in macchina.
Soppresso l’impulso di avvelenare i recidivi uccellacci con del riso all’arsenico, Letizia distese le tovaglie sopra i tavolini, canticchiando sulle note che uscivano dal jukebox.
«Occhi di ragazza, quanti cieli, quanti mari che m’aspettano...»
La mattina si annunciava tranquilla, non c’erano i poeti e non si attendevano pullman di turisti. Letizia si sentiva bene, come sempre a maggio, il mese in cui aveva sposato il suo caro marito e anche quello in cui lui l’aveva lasciata, ma – ne era certa – solo per andare a preparare altrove un nuovo nido. Il loro era stato un grande amore, durato un tempo tanto breve quanto un verso poetico che ci vuole un attimo a leggere e una vita a declamare.
«Occhi di ragazza, io vi parlo coi silenzi dell’amore e riesco a dire tante cose che la bocca non dirà...»
Ma lui non l’aveva mai lasciata sola e, più di una volta dopo la dipartita (Letizia odiava usare la parola morte), si era addirittura palesato sotto svariate forme in cui lei lo riconosceva subito. Come quando, ad esempio, la mattina del loro primo anniversario dopo il funerale le aveva fatto trovare un fiore sul...
Una coppia interruppe il romantico ricordo.
«Buonjornó».
Erano chiaramente francesi e Letizia ne fu felice perché poteva mettere in pratica la lingua recentemente ristudiata all’Unitre.
«Bonjour» rispose. «Asseyez-vous, s’il vous plaît».
«Merci, madame. Votre magasin est très joli».
«Merci à vous. Qu’est-ce-que vous desirez?»
«Posso parlare italianó?» chiese la turista. «Per fare pratìca».
«Bien sûr, et moi français. Pour pratiquer aussi».
E così si produssero in un minuetto bilingue.
«Voi l’avete studiato dové?»
«A l’université du troisième âge».
«Oh, ma voi non siete della terza età! E voi parlate molto bene franscesé».
«Merci». A Letizia s’imporporarono le guance. «Vous aussi l’italien. Donc, vous desirez quoi?»
«Due cappuscinì».
«Quelque bonne chose à manger aussi?»
«Due croiss... no, quei biscottì là».
«Cappuscinì et biscottì. Très bien».
Mentre i due turisti consumavano la loro accentata colazione, la porta della latteria si aprì e apparve un giovanotto, che a Letizia non risultò del tutto sconosciuto.
«Buongiorno» salutò il nuovo venuto. «Cerco... non mi ricordo il nome...»
«Io mi chiamo Letizia e non credo che cerchi me».
Lo aveva messo a fuoco: era quello che aveva definito Belinda acida come una zitella.
«Be’, no».
«Cerchi la ragazza con gli occhi che sembrano due nocciole».
«...!»
L’aveva precisato apposta, ricordandosi che alla nipote era scappato di dirglielo, e finse di non notare lo stupore sul viso del ragazzo.
«È mia nipote. Belinda».
«Belinda» ripeté lui, atono.
«Mi dispiace, ma non c’è. Avevi un appuntamento con lei?»
«No, no, per carità!»
Letizia si era quasi offesa a quell’esclamazione e stava per mettersi sul piede di guerra, ma cambiò subito idea sentendo le altre parole del ragazzo. E un pensiero le si fece largo nella mente.
«Doveva darmi una ricetta per Ornella, e si è raccomandata che venissi proprio oggi».
Già, Belinda aveva fatto l’ambasciata alla zia, infatti il foglio con la ricetta era lì, in bella mostra sulla cassa; un post-it arancione fluorescente lo rendeva inequivocabile: X AMICO DI ORNE. Quella furbona della nipotaccia si era raccomandata che venisse proprio oggi che era assente: evidentemente non voleva incontrarlo. Solo che non aveva avuto il coraggio di dirle che l’amico di Ornella era lui: il tipo, l’impostore. Presentatosi puntuale, come per non deluderla, almeno secondo l’interpretazione di Letizia.
I momenti della vita in cui si deve affrontare un dilemma (povero Amleto, quanto lo capiva!) sono sempre i più tormentosi, specie quando si dispone di pochi secondi per decidere. Lei ne impiegò uno.
«Non mi ha lasciato nulla» replicò con l’espressione più convincente possibile, mentre il suo mignolo faceva scivolare il foglio incriminato a terra, dietro il bancone. «Mi dispiace... Belinda si sarà dimenticata. In genere sta sempre chiusa qui dentro, ma oggi è andata a fare un corso. Sarà impegnata tutta la giornata e poi si fermerà a dormire dai suoi genitori».
«Allora sono venuto fin qui a perdere tempo... Che modo di...!»
«Dammi il tuo numero, ti faccio chiamare».
«Tre quattro otto cinque sette nove due...»
Letizia prese nota e: «Ti chiami?» domandò, il tono ignaro.
«Francesco».
«Oh, come il mio caro marito!» esclamò, e dalla ragnatela intorno agli occhi pieni di simulata meraviglia trasparì la storia di un dolore appena appena assopito, di una vedovanza troppo precoce, di un amore ancora palpitante. «Aspetta!» aggiunse. «Ti do il cellulare di Belinda, è meglio che la chiami tu stasera. Lei è di una tale distrazione...»
Una spintarella al destino non è peccato, pensò quando il ragazzo fu uscito. E, guardando il cielo limpido oltre la vetrina, strizzò l’occhio al suo, di Francesco.
«Quante primavere che verranno che felici ci faranno...»