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Il grande Rocco Rubino

Borgo Propizio era un tripudio di suoni, colori, divertimento, arte e cultura. Felice Rondinella e Tranquillo Conforti erano tanto galvanizzati da rischiare entrambi un infarto.

Certo, così non sembrava il borgo di sempre e, per più di tre giorni traboccante di gente a quel modo, il paese era inimmaginabile.

Ma era giunto il sabato, si era già quasi alla fine del tanto atteso e preparato evento.

La sera precedente la sala conferenze della biblioteca aveva registrato il pienone con la presentazione del libro di Bartolomeo Saltalamacchia e un regista presente tra il pubblico aveva perfino espresso l’ipotesi di opzionarne i diritti per una trasposizione cinematografica. Altrettanto bene erano andate, a seguire, le presentazioni di Pincardini e della Rosae.

Sì, tutto procedeva benissimo, oltre ogni previsione.

Nell’attesa che arrivasse il grande Rocco Rubino, due squadre di operai erano al lavoro per montare i maxischermi, uno nella piazza del Municipio e uno nell’Area Fiera a fondovalle, affinché tutti potessero seguire, in ogni istante non privato della sua permanenza al borgo, l’insigne giallista.

Che:

– aveva annunciato di voler costituire una onlus a favore degli scrittori giunti alla vecchiaia i quali versavano in miseria ed erano dimenticati dallo Stato, e, per questo, era apparso su tutti i giornali cattolici;

– era arrivato a bordo di una decappottabile color zabaione e Ornella lo aveva raggiunto all’Hotel Rimembranze dove si era rifocillato;

– veniva dalla costa, si capiva da com’era vestito, e aveva rabbrividito attraversando l’Arcus Propitius: sicuramente l’abito era troppo leggero per la brezza di pendio.

Un bagno di folla accolse il grande Rocco Rubino fin dalla strada in uno scroscio di applausi. Lui dispensò sorrisi e simpatia e battute e strette di mano e autografi (una ragazza se lo fece fare sulla spalla) nemmeno fosse una rockstar, una popstar o il G.M. Ornella non si spiegava questo fenomeno: chi poteva averne montato a tal modo il personaggio? In un’Italia dove la gente non leggeva, i libri non si vendevano, l’editoria era in una crisi stagnante, le sembrava straordinario. Anzi, parecchio strano.

A lei, quell’uomo, continuava a non convincerla. Tuttavia si predispose all’intervista.

Il programma prevedeva dapprima la presentazione dei libri di Rocco Rubino, poi la premiazione del libro vincitore (chiaramente di Rocco Rubino) scelto dalla giuria popolare tra i quattro partecipanti e infine la cena con delitto (lettore del prologo: Rocco Rubino).

Dopo il benvenuto del sindaco e il lusinghiero intervento dell’assessore alla Cultura e ai Grandi Eventi, già professore di lettere il quale, in virtù di ciò, affermò che il giallo non poteva e non doveva essere considerato figlio di un dio minore, Ornella fece le sue domande. Non tutte e a fatica, però, perché Rubino, uomo di magnanima loquacità, quasi non le dava adito a parlare, non faceva una pausa, un respiro, un sospiro, un colpetto di tosse... niente. E spesso ripeteva il medesimo concetto, girandoselo e rigirandoselo oziosamente. Tuttavia, quando parlava rivolgendosi a lei e la guardava con intensità, Ornella faticava a stare a galla in nell’oceano sconfinato e pericoloso che erano i suoi straordinari occhi verdi. Suoi, sì, aveva controllato: non portava le lenti a contatto.

A differenza di lei che, quella sera, non le sopportava proprio. Doveva essere per via dell’aria condizionata troppo forte che nessuno aveva pensato di spegnere, ancorché non servisse.

Quando fu il momento di dare la parola al pubblico, un imbarazzante silenzio riempì la sala. Ornella lo sapeva e pure Conforti gliel’aveva detto: la gente era restia a fare domande. Perciò l’assessore aveva fatto sedere in prima fila la professoressa Annovazzi che riteneva – e lo disse apertamente – di avere un contenzioso con l’autore. E che fu l’unica a intervenire chiedendo cose giuste e acute. Alle quali Rubino rispose ampiamente e vivacemente, ma non con particolare pertinenza, nascondendo a stento il fastidio quando la professoressa si meravigliò che lui non ricordasse di quando il detective Vasino aveva passato tre capitoli tra Teano e Vairano dopo la scoperta dell’omicidio al monastero. Quello di Como, si permise di correggerlo, non di Monza, mentre il Chiarissimo Direttore del Glorioso Istituto di Storica Rinascita, seduto sulla sedia accanto, basito, guardava ora la donna ora l’autore. Che sembrava stesse facendo confusione, continuò l’inclemente professoressa, scusasse la pedanteria, le era rimasta una spiccata deformazione professionale. O forse voleva proprio dire così e aveva ambientato il delitto nello stesso monastero della monaca di Monza, ma il fantasma del Manzoni, indispettito, gliel’aveva spostato a sua insaputa?

La professoressa era stata pignola, un po’ troppo puntigliosa, e aveva appesantito l’atmosfera, ma l’assessore Conforti la riportò leggiadra con due frasi diplomatiche e scherzose che fecero sorridere il pubblico e gli valsero un applauso. Più di tutto, ringalluzzirono Rubino il quale, dopo avere firmato i libri che nonostante la precedente discussione andarono a ruba, si avvicinò alla professoressa, scusandosi della confusione dovuta alla stanchezza, al viaggio, all’aria fredda, e le baciò la mano. Ornella, la buste della votazione in mano, aveva seguito la scenetta e si chiese se non fosse il caso di lanciare all’anziana una ciambella salvagente: anche lei, sì, stava precipitando nell’oceano smeraldino.

E di lì a poco vi annaspò anche Bartolomeo Saltalamacchia (il fascino del grande autore superava le distinzioni di sesso e annullava la superiorità della divisa che il maresciallo, su suggerimento di Adelaide, aveva indossato anche per la cerimonia... una questione di prestigio, secondo l’autorevole consorte): quando Rubino gli fece le sue più affettuose, generose felicitazioni e l’abbracciò fraternamente perché la giuria popolare aveva dato il massimo dei voti alle Lancette dell’amicizia.

Giunta l’ora, stava per cominciare l’evento di chiusura di un festival la cui eco si sarebbe propagata a lungo. Felice Rondinella ne era certo e aveva già un nuovo progetto in mente, stavolta di espansione oltre confine: gemellarsi con un villaggio della Moldavia dal nome impronunciabile. Durante l’ultima vacanza a Gran Canaria aveva conosciuto un funzionario statale di Chisinau che gli aveva parlato di una località simile a Borgo Propizio. E allora, un po’ per scherzo, davanti a una birretta, era venuta fuori l’idea di un gemellaggio tra le due località. Ma Lele si era ingelosito, aveva messo il muso e lui era stato costretto a dire al nuovo amico che ne avrebbero parlato più avanti. E così, tornati a casa, avevano iniziato a farlo, parlarne al telefono cioè, non spesso, ogni tanto. Era però il caso che lui andasse a fare un sopralluogo in loco, aveva suggerito il moldavo.

Da solo, naturalmente.

Per la cena con delitto era stata imbandita, nel vasto cortile del Castelluccio, una tavola lunghissima, su cui le fiammelle delle candele si muovevano sinuose al ritmo di lievissimi aliti di vento. Per ogni coperto c’era una pergamena con il menu, che spaziava da piattello di quaglie e pollastrello a torta di carne con pomi in gelatina e fagiano al sapor d’erbe, da marzapane speziato a pere cotte zenzerate.

E come una pera cotta Ornella vedeva Belinda seguire con lo sguardo il suo Francesco, quanto mai affaccendato a impartire ordini e ad accertarsi che tutto fosse perfetto.

Dirimpetto alla tavola, l’assessore aveva fatto montare un palcoscenico dove, prima che s’iniziasse a mangiare, Rubino avrebbe letto il prologo appositamente scritto per l’occasione (a Ornella l’anteprima aveva fatto venire la pelle di cappone per quanto era raccapricciante) e dove gli attori avrebbero recitato durante la cena.

Fu quando il sindaco propose un brindisi benaugurante e la gente era ancora all’impiedi e i calici stavano per essere riempiti con un vino di buona uva borghigiana, paglierino, aromatico, che Ornella la vide.

Uno spettro, diafana, magrissima, la metà di se stessa; d’immutato aveva solo i boccoli ramati. Sempre inconfondibili, ma corti. Se li era tagliati, un peccato. Non fosse stato per quelli, non l’avrebbe riconosciuta. Aveva gli occhi spiritati e si muoveva a scatti, le fece un po’ paura.

«Antonia...» la chiamò, e lei si voltò avvicinandosi a Rubino, che era a un passo da entrambe e che smise di sorridere.

Ma Ornella, lì per lì, non ci fece caso.

Se ne accorse dopo, dopo che ebbe detto: «Rocco, ti presento Antonia, una tua lettrice affezionata» e la sua disinvoltura suonò fuori luogo.

Se ne accorse perché nessuno dei due disse «piacere».

Se ne accorse perché sentì un’energia strana che partiva da Antonia e arrivava a Rocco, che ripartiva da Rocco e ritornava ad Antonia. Un’energia che la inquietò.

E perché una folata di vento spense quasi tutte le candele sulla tavola e più di una voce nominò il fantasma del Castelluccio. E un bimbo scoppiò in lacrime.

E perché Antonia porse a Rocco un bicchiere per brindare, e lo fece con troppa confidenza per essere solo un’ammiratrice.

E perché le sembrò che Rubino volesse rifiutare, ma poi si era guardato intorno e il sindaco gli sorrideva e il Chiarissimo annuiva e padre Tobia indicava a Pasquale di accucciarsi e tutti gli altri commensali avevano alzato i calici, e allora lui, schivando gli sguardi, aveva bevuto. In un unico sorso. Con gesto brusco.

Se ne accorse, Ornella, perché sentì un odore che la fece rabbrividire.

Forse influenzata dal testo che il giallista stava per leggere, avrebbe detto che quello era l’odore della paura.

L’odore di un delitto.