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La stanza da pranzo era piccola, e occupata per la maggior parte da un tavolo immenso. Alle pareti c’erano stampe con scene bibliche e testi miniati.

«I missionari hanno sempre tavoli da pranzo molto grandi» spiegò Waddington. «Prendono un tanto all’anno in più per ogni figlio, e quando si sposano comprano tavoli dove ci sia posto in abbondanza per i piccoli sconosciuti».

Dal soffitto pendeva una grossa lampada a paraffina, e Kitty poté veder meglio la fisionomia di Waddington. La sua calvizie l’aveva ingannata, facendole pensare che fosse non più giovane; ora vide che doveva avere meno di quarant’anni. La faccia, piccola sotto un’alta fronte tondeggiante, era liscia e colorita; brutta come quella di una scimmia, ma di una bruttezza non priva di fascino; una faccia divertente. I lineamenti, naso e bocca, erano appena più grandi di quelli di un bambino, e gli occhi, piccoli, erano di un vivo azzurro. Le sopracciglia erano bionde e rade. Sembrava un buffo ragazzino invecchiato. Attingeva di continuo alla bottiglia, e col procedere della cena fu chiaro che era tutt’altro che sobrio. Ma se era ubriaco lo era in modo non fastidioso, gaiamente, come un satiro che avesse rubato un otre di vino a un pastore dormiente.

Parlò di Hong Kong; vi aveva molti amici e ne voleva notizie. Era stato là l’anno passato, per le corse, e parlò di cavalli e dei loro proprietari.

«A proposito,» domandò a un tratto «che ne è di Townsend? Lo faranno segretario della colonia?».

Kitty si sentì arrossire, ma il marito non la guardò e rispose:

«Non mi meraviglierebbe».

«È di quelli che fanno strada».

«Lo conosce?» chiese Walter.

«Sì, abbastanza. Una volta abbiamo viaggiato insieme dall’Inghilterra».

Udivano dall’altra parte del fiume un battere di gong e un crepitio di petardi. Là, poco lontano, la grande città era immersa nel terrore; e la morte, subitanea e spietata, correva per le vie tortuose. Ma Waddington si mise a parlare di Londra e dei suoi teatri. Sapeva tutto quello che era in scena al momento e raccontò dei lavori visti durante l’ultima licenza in patria. Rise ricordando l’umorismo del tale attor comico e sospirò ripensando alla bellezza della tal diva del musical. Era lieto di poter dire che un suo cugino ne aveva sposata una, delle più celebri. Aveva pranzato con lei, che gli aveva dato una sua fotografia; gliela avrebbe mostrata quando venivano a cena da lui alla dogana.

Walter guardava l’ospite con occhio freddo e ironico, ma ne era visibilmente non poco divertito, e si sforzava di manifestare un educato interesse per cose di cui Kitty lo sapeva affatto ignaro. Un tenue sorriso indugiava sulle sue labbra. Ma lei, senza spiegarsi perché, era piena di sgomento. Nella casa di quel missionario morto, al cospetto della città dolente, loro sembravano smisuratamente separati da tutto il mondo. Tre creature solitarie ed estranee una all’altra.

La cena era finita e Kitty si alzò da tavola.

«Vi spiace se vi do la buonanotte? Vado a letto».

«Io scappo, penso che il dottore vorrà andare a letto anche lui» disse Waddington. «Domattina dobbiamo muoverci presto».

Strinse la mano a Kitty. Era ben saldo sui piedi, ma gli occhi luccicavano più che mai.

«Passerò a prenderla,» disse rivolto a Walter «la porto dal magistrato e dal colonnello Yü, e poi andremo al convento. Lavoro ne avrà a bizzeffe, glielo garantisco».