2.

Stravaccata su un’amaca, sotto una tenda tesa a ripararla dalla pioggia di sabbia vulcanica, il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi si godeva lo spettacolo pirotecnico naturale che andava avanti ormai da ore. Ogni tanto allungava il braccio all’indietro, sul tronco di una delle due Canariensis che reggevano l’amaca e si dava una spinta lasciandosi annacare un po’.

Non aveva mai visto nulla di simile.

La sommità dell’Etna assomigliava a un braciere che vomitava fuoco, sovrastato da una colonna di cenere e lapilli. La colata pareva aver preso anche quella volta la via della Valle del Bove, una depressione non edificata sul versante orientale che, fungendo da bacino di raccolta, era la salvezza di tutti i paesi alle pendici del vulcano.

Si abbottonò il giubbotto e allungò la mano verso la sedia da giardino su cui aveva depositato i suoi generi di prima necessità: l’iPhone, un cartoccio di caldarroste, un pacchetto di Gauloises blu, un posacenere e lo spray antizanzare. Tirò fuori una sigaretta e l’accese, aspirando forte la prima boccata.

Trentanove anni, palermitana. Dodici anni di carriera in polizia, dei quali i primi sei consacrati all’antimafia, e un curriculum costellato di casi brillantemente risolti. Dopo tre anni passati a Milano da commissario capo alla Mobile di via Fatebenefratelli, da undici mesi il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi, per gli amici Vanina, guidava la sezione Reati contro la persona della squadra Mobile di Catania.

Era rientrata da Palermo appena un’ora prima, stanca e abbattuta come ogni volta che ricorreva quella data. Il 18 settembre era il giorno del ricordo. Un ricordo doloroso, di quelli che non passano mai e che tediano l’anima con una tristezza ormai rassegnata.

Tre anni aveva resistito, lontano dalla Sicilia. Tre lunghi inverni meteoropatici in cui aveva persino imparato a sciare, e tre estati passate a sciropparsi ore e ore di code in autostrada in ogni – raro – momento libero, per raggiungere il tratto di costa piú vicino.

D’altra parte nessuno l’aveva costretta. La decisione era stata sua. Anzi, a voler essere onesti, tutti erano stati concordi nel ritenere che Milano non era cosa per lei. Ma per risultare davvero efficace, una rivoluzione doveva essere radicale, e in quel periodo cosí critico, dopo quanto era accaduto, era di questo che lei aveva sentito il bisogno.

Il nome Vanina era opera di sua madre, che gliel’aveva affibbiato dal primo momento, millantando di averlo tratto dal Vanina Vanini di Stendhal, di cui però non conosceva neppure la trama. Un diminutivo insolito, che la maggior parte della gente storpiava in un meno poetico ma assai piú siciliano «Vannina».

Il paese di Santo Stefano, Vanina l’aveva scoperto per caso un paio di settimane dopo il suo arrivo a Catania. Un’oasi felice alle pendici dell’Etna dove l’ordine sembrava regnare sovrano. Sbalordita da tanta virtuosità, e verificata l’esistenza di una strada diretta che portava al mare in meno di un quarto d’ora, aveva deciso di adottarlo come residenza, rinunciando senza rammarico alla vicinanza con l’ufficio in cambio di un po’ di pace.

Era stata una scelta azzeccata.

Un ex rustico appena ristrutturato annesso a una casa padronale nel centro del paese, fornita di giardino interno con tanto di agrumeto. Una sistemazione simile al centro di Catania sarebbe stata introvabile, e comunque non alla sua portata.

Quelle poche ore di ozio sull’amaca erano bastate a scaraventare addosso al vicequestore Guarrasi la mole di stanchezza accumulata negli ultimi undici mesi. Nonostante l’incipiente umidità della sera, stentava a trovare la forza di rientrare in casa.

Anche il suo umore, già demolito da quella giornata dolorosa, non accennava a recuperare terreno, e la serata solitaria che le si prospettava davanti non avrebbe contribuito a risollevarlo. Forse avrebbe dovuto accettare l’invito che la sua amica Giuli – al secolo Maria Giulia De Rosa – le aveva scritto in uno dei vari messaggi che le aveva mandato quel giorno – dopo altrettante telefonate cui lei non aveva risposto – per cenare in un nuovo locale del centro, specializzato in cucina del territorio, pizze a lenta lievitazione e birre artigianali. Uno di quei posti che di solito a Vanina piaceva frequentare. Ma Giuli non usciva mai con meno di sei o sette persone al seguito, e quella sera lei non aveva voglia di vedere gente.

Rifletté che una bella maratona cinematografica in bianco e nero sul divano non ci sarebbe stata male in quella serata cosí storta. Se non altro l’avrebbe distratta dai pensieri malinconici.

Mise un piede a terra cercando di non sbilanciare l’amaca, che invece come al solito s’inclinò buttandola giú. Vanina si raddrizzò al volo santiando. Prima o poi sarebbe finita col sedere sul prato, questione di tempo. La schiena dolorante le ricordò che all’età sua non era normale anchilosarsi cosí per un viaggetto in macchina e un paio d’ore di umidità serale. Ma la colpa era sua, e del boicottaggio sistematico che da anni riservava a palestre, piscine, centri sportivi e qualunque altro luogo deputato all’attività fisica.

Attraversò il tratto di prato che divideva il suo rustico dall’edificio principale, salí tre gradini di pietra lavica e spinse la porta di casa, lasciata semichiusa. Depositò giacca e accessori vari nell’ingresso minuscolo, dov’era riuscita a infilare un vecchio cassettone proveniente dalla casa di Castelbuono che sua madre aveva venduto molti anni prima. Lei non l’avrebbe mai fatto. Ma aveva quattordici anni, allora, e il suo parere non contava granché.

Entrò nel soggiorno, diviso dalla cucina da una porta scorrevole. Un tavolo tondo – all’occorrenza allungabile, ma era raro che avesse occasione di farlo –, una libreria in cui due file di libri dividevano lo spazio con gli oggetti piú svariati, e in cui regnava il caos, e una piú grande, piena zeppa di vhs e dvd disposti in un ordine quasi maniacale, che faceva da cornice a un televisore a schermo piatto da 42 pollici. Una parete era interamente occupata da locandine di vecchi film, tutti italiani e tutti ambientati in Sicilia. In un angolo, una poltrona di pelle con pouf poggiapiedi davanti e tavolino al lato.

Il vecchio cinema italiano, meglio se d’autore, era la passione del vicequestore Guarrasi. Ma i film girati in Sicilia erano quasi una mania. Li collezionava da anni, possibilmente nelle loro versioni integrali, anche i piú rari e difficili da trovare, anche quelli che di siciliano non avevano che una singola scena. Ne aveva già messi insieme centoventisette, e non era stato semplice, specie in epoca pre-digitale: dalle pellicole con Angelo Musco degli anni Trenta a quelli di Germi, fino ai piú recenti.

Vanina tirò fuori da un cassetto il catalogo dei titoli, che qualcuno aveva creato per lei tempo prima e che lei andava aggiornando volta per volta. Si buttò su un divano moderno, grigio chiaro, che in quella casa stonava come un baldacchino barocco in un loft newyorkese, ma da cui non si sarebbe separata neppure sotto tortura, per quanti momenti nodali ci aveva trascorso sopra. Nel bene come nel male.

Un film allegro, ci voleva, leggero, che non scatenasse cattivi pensieri. Aveva appena fermato lo sguardo su Mimí metallurgico ferito nell’onore quando la faccia sorridente dell’ispettore capo Carmelo Spanò comparve vibrando sul display del telefono. Ogni volta che le capitava davanti quella foto, il che accadeva in media dalle dieci alle venti volte al giorno, Vanina si ritrovava a considerare come quell’espressione ilare sul volto del valido collaboratore fosse del tutto inadeguata al tenore delle notizie che le sue telefonate veicolavano.

– Mi dica, Spanò.

– Capo, mi deve scusare per l’orario, ma non potevo evitare. Dovrebbe raggiungermi.

– Che fu?

– Un cadavere trovarono. In una villa, a Sciara.

– Ammazzato?

– Può essere.

– Che vuol dire «può essere», Spanò? – si spazientí.

– Che non è facile capirlo… Credo che debba vederlo pure lei.

Rimase in silenzio, in contemplazione della parete coperta di locandine, occhi negli occhi con Giancarlo Giannini che pareva guardarla rassegnato. Sarà per un’altra volta.

Si aggiustò l’auricolare e si alzò dal divano.

Entrò in camera da letto.

– Capo? – fece Spanò, rompendo il silenzio.

– Ma come mai non chiamarono l’Arma? – gli chiese, dando voce alla domanda che si era appena posta. Di solito tutto quello che accadeva alle pendici dell’Etna diveniva ipso facto appannaggio dei carabinieri, le cui stazioni erano dislocate qua e là nei vari paesini.

– Il proprietario della villa è un mio conoscente, perciò pensò di telefonare direttamente a me, che poi giusto giusto ero pure di reperibilità. Ma questa è cosa che deve…

– Che devo vedere io, ho capito, Spanò, – ripeté, mentre s’infilava i pantaloni e recuperava da sotto il letto un paio di stringate inglesi beige, estive, che ormai camminavano da sole per quante indagini si erano fatte.

– Chi c’è lí con lei?

– Bonazzoli e Lo Faro.

– Fragapane?

– Sta per arrivare: gli dico di passare a prenderla?

– No, grazie. Fragapane guida alla velocità di mia nonna con la Cinquecento sulla Palermo-Mondello.

L’ispettore soffocò una risata.

– Come preferisce.

Infilò la Beretta 92FS d’ordinanza nella fondina ascellare, che coprí con una giacca di pelle marrone. L’insegnamento che aveva tratto dalle peggiori esperienze della sua vita era di non uscire mai disarmata.

Mentre afferrava le chiavi della Mini da un portaoggetti ingombro di ciarpame, scorse sul ripiano della cucina una teglia da forno dall’aspetto familiare. Alzò il canovaccio di cotone che la copriva e scorse con rammarico due scacce preparate alla ragusana, ancora calde.

Spanò non la chiamava mai a fesseria, soprattutto di domenica. Se l’aveva fatto, significava che la faccenda era grave, o quantomeno delicata. E la simultanea presenza dell’ispettore Bonazzoli ne era la conferma. Quindi, a occhio e croce, per almeno tre o quattro ore la possibilità di toccare cibo sarebbe stata remota, e di certo non in cima alle sue priorità. Senza pensarci troppo, tagliò un pezzo di ognuna e lo addentò. Se le sarebbe spazzolate volentieri entrambe, magari davanti al famoso film che stava scegliendo, se quel cadavere serale non l’avesse ricondotta al dovere. Per aiutarsi, tracannò un paio di sorsi di Coca da una bottiglietta che aveva aperto quel pomeriggio.

Bussò sul vetro della portafinestra di Bettina, la proprietaria, che abitava al piano inferiore della casa padronale.

La donna comparve subito, tra gli effluvi della sua cucina in perenne attività, asciugandosi le mani sul grembiule. Vedova, un metro e sessanta di altezza per novanta chili di peso e una settantina d’anni portati con allegria. Un incrocio tra Tina Pica e la sora Lella.

– Vannina! Bentornata –. La doppia n era immodificabile, per lei come per una discreta quantità di corregionali.

– Ma che è? Macari di domenica sera ci debbono disturbare, ora? – constatò contrariata, adocchiando la fondina nel mezzo secondo in cui il vicequestore si aggiustò la giacca.

Vanina sorrise all’uso partecipe del plurale, che la donna adoperava spesso.

– E che ci possiamo fare, Bettina: ancora agli assassini non gliel’hanno spiegato che non è buona creanza ammazzare i cristiani di domenica.

– Le trovò le scaccitedde?

– Certo! Già assaggiato un pezzo di ognuna. Lei mi sta abituando male, però.

Bettina era originaria di Ragusa, e le sue scacce erano fatte a regola d’arte.

– Non è che una può lavorare morta di fame! ’Sa quando la faranno spicciare, stasera, – commentò annuendo, soddisfatta di aver fornito un contributo al suo sostentamento.

Vanina la salutò con un gesto, infilando le scale. Salendo in macchina si sbottonò i pantaloni sotto la maglia, abbastanza lunga da coprire quello che in teoria avrebbe dovuto impegnarsi per migliorare. Bettina, con le sue sorprese serali, non era certo d’aiuto. Prima o dopo doveva trovare il modo di dirglielo, seppur a malincuore. Già non era facile per lei, con il carico di stress che si portava addosso, con il suo umore sempre borderline, riuscire a imporsi un regime alimentare che escludesse proprio quei cibi che nei momenti critici la aiutavano a tenersi su. Se poi si aggiungevano pure i doni della vicina, la partita era persa in partenza.

Recuperò l’indirizzo che aveva segnato nelle note dell’iPhone e lo impostò su Google Maps. Benedisse per la milionesima volta il genio supremo che aveva inventato il navigatore satellitare. Approfittando del primo tratto, che contemplava ancora strade a lei note, richiamò Spanò.

– Senta, Spanò, mi faccia la cortesia: avverta lei la Scientifica e il pm. Chi è il magistrato di turno?

– Vassalli.

Vanina storse il naso. Magniloquente, controllato fino a rasentare la pignoleria. Però, quando era lui di turno, il medico legale incaricato era quasi sempre Adriano Calí: il migliore, oltre che un amico. Sapere che l’avrebbe incontrato la risollevò dallo stato catatonico in cui era crollata quella sera. Persino la telefonata di Spanò, contrariamente al solito, le stava parendo un fastidio. D’altronde, non era neppure giusto addossare la colpa al suo collaboratore. Certo, era pure vero che se Spanò non fosse stato cosí conosciuto e ben inserito nella società catanese, a quest’ora quella rogna sarebbe finita dritta dritta in mano alla benemerita, la cui stazione di Sciara era proprio a un passo della villa in questione. Com’era anche vero che, se poi il caso si fosse rivelato interessante, lei si sarebbe mangiata le mani per esserselo lasciato sfuggire. Perché al vicequestore Guarrasi, in realtà, le rogne piacevano. Assai. E piú la impegnavano, piú le toglievano il sonno, piú le divoravano giorni di ferie e domeniche, piú lei ci si buttava dentro. Anima e corpo.