La facciata della villa, protetta da una cancellata sprangata con due lucchetti e da un giardino buio, non lasciava intravedere forme di vita all’interno dell’edificio.
In piazza nessuna traccia delle auto di servizio.
Il vicequestore Guarrasi afferrò l’iPhone spazientita proprio mentre il numero dell’ispettore Bonazzoli compariva sul display.
– Marta, ma che ca…ppero d’indirizzo m’avete dato? – sbraitò.
– Abbiamo sbagliato anche noi, prima. Devi girare attorno alla villa fino all’ingresso secondario. A quanto pare aprire il cancello principale è troppo complicato.
– Ah, è complicato! Con un cadavere in casa, questi dicono che è complicato, e voi li lasciate parlare? – replicò, sbattendo la portiera dell’auto e avviandosi su una stradina laterale. Cinquanta metri piú avanti, ritto in piedi di fianco alla volante, vide l’agente Lo Faro che la salutava con la solita aria da bulletto.
– Buonasera, dottoressa.
Vanina gli spense il sorriso con uno sguardo glaciale.
– Sei venuto fino a qui per startene al palo accanto alla macchina di servizio? Dov’è Spanò?
– Veramente io… la stavo aspettando.
– Dal lato sbagliato, visto che sono arrivata in piazza e non c’era nessuno.
L’ispettore Bonazzoli spuntò dal cancello con una torcia in mano.
– Eccomi, capo, – la salutò.
Vanina la raggiunse. Con la coda dell’occhio vide Lo Faro muoversi subito appresso a loro.
– Lo Faro, che fai? Resta qui e aspetta la Scientifica e il medico legale. E mandaci Fragapane, che potrebbe giovarci il suo aiuto –. Indifferente all’espressione delusa dell’agente, varcò il cancello al seguito di Marta. – Se arriva in tempo, – aggiunse sottovoce.
La Bonazzoli sorrise. Le performance di Fragapane alla guida erano note a tutta la squadra Mobile, con estensione alla questura centrale.
Percorsero il perimetro della villa, fino a raggiungere una terrazza buia da cui si accedeva all’interno. Superarono un ingresso con al centro una scala di marmo, piena zeppa di statue e altorilievi di cui la penombra rendeva oscuro il soggetto. Passando attraverso due stanze arredate in modo bizzarro, illuminate da lampadari avvolti nelle ragnatele e dotati di una lampadina funzionante su tre, raggiunsero un corridoio stretto e buio, maleodorante.
– Il cadavere deve essere vicino, – considerò il vicequestore, storcendo il naso.
– No, questo è solo il risultato del suo ritrovamento, –rispose Marta, illuminando un angolo in cui qualcuno aveva sfogato il proprio spavento.
La scena in cucina era quasi surreale. Due persone, un uomo e una donna, sedute attorno a un tavolo col ripiano di marmo, ricoperto da piú o meno un centimetro di grigiore polveroso. L’uomo si reggeva la testa tra le mani, mentre la donna stringeva spasmodicamente i manici di un sacchetto bianco che teneva sulle ginocchia.
Un faro di quelli da giardino, appoggiato su uno scaffale, emanava una luce bianca che rendeva il contesto ancora piú tetro.
L’ispettore Spanò era chino dentro una porticina seminascosta in un angolo, vicino a una credenza messa di traverso. Dietro di lui, un ragazzo dall’aspetto magrebino reggeva una torcia illuminando l’anfratto.
L’uomo che era seduto al tavolo si alzò e le venne incontro.
– Sono Alfio Burrano, – si presentò.
Sui quarantacinque, alta statura, capello biondo con qualche filo grigio, giacca stazzonata. Aria sconvolta che non toglieva punti a un viso interessante. La versione sicula di Simon Baker.
Gli strinse la mano. – Vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi.
Senza muoversi dalla sua postazione, Spanò le fece cenno di avvicinarsi.
– Capo, venga a vedere.
Vanina lo raggiunse.
– Deduco che il cadavere sia là dentro.
– Se cosí possiamo chiamarlo… – mugugnò l’ispettore facendosi di lato. – Stia attenta, che c’è un piccolo dislivello, – la avvertí.
Di scenari raccapriccianti, nella sua carriera, il vicequestore Giovanna Guarrasi ne aveva visti assai: uomini incaprettati e bruciati vivi, cadaveri cementati dentro un pilastro, gente sparata, accoltellata, strangolata e via dicendo. Ma l’immagine che le apparve quella sera si poteva descrivere solo con un termine, da lei vilipeso e definito «da romanzo gotico». Macabra. Abbandonato di sghimbescio sul pavimento di un montavivande di un metro e mezzo per un metro e mezzo, giaceva il corpo mummificato di una donna. Il capo, con ancora i resti di un foulard di seta, era piegato a novanta gradi su un cappotto di pelliccia che copriva un tailleur dal colore indistinguibile; appese al collo, tre collane di lunghezza diversa. Sparsi attorno al cadavere, una borsetta, un beauty case di quelli rigidi che si usavano una volta, una bottiglietta di colonia senza tappo e una scatola metallica che aveva tutte le sembianze di una cassetta di sicurezza.
– Chi l’ha trovata?
– Alfio Burrano, insieme al tunisino.
Vanina chiuse la porta e la fermò col paletto che fungeva da serratura. Dall’interno non si poteva aprire di certo.
La riaprí e infilò la testa nel cubicolo per analizzare gli oggetti piú da vicino. L’aria era irrespirabile, il tanfo pestilenziale. Vincendo l’istinto immediato di ritrarsi, e un vago senso di nausea che in tanti anni non era ancora riuscita a superare del tutto, si spinse un po’ piú all’interno attenta a non pestare nulla.
– Ci vive qualcuno, in questa casa? – domandò, tirandosi fuori di nuovo.
– Solo Alfio, a quanto ho capito. Ma non in queste stanze.
– Perciò è probabile che qui non sia entrato nessuno da molto tempo.
– Alfio dice di non esserci stato mai per piú di qualche minuto.
Spanò si voltò a guardare Burrano, che era tornato a sedersi accanto alla sua amica. Poi riprese:
– Capo, che dice, apriamo le due borse prima che quelli della Scientifica ce le freghino? Cosí intanto ci facciamo un’idea.
Il vicequestore annuí.
Mentre l’ispettore tirava fuori dalle tasche un paio di guanti, la voce gracchiante di Cesare Manenti, il vice dirigente della Scientifica, risuonò nel corridoio.
– Troppo tardi, – commentò Vanina.
Ogni informazione sarebbe giunta nei tempi e con le procedure di Manenti, che purtroppo celeri non si potevano dire.
– Ciao Guarrasi, – la salutò il collega, guardandosi intorno con aria seccata. Un uomo di poche parole, il piú delle volte intrattabile.
– Ciao Manenti.
– Allora? Dov’è ’sto cadavere per cui ho dovuto abbandonare una piacevolissima cena a casa di amici?
Perché: uno cosí ha anche degli amici?, pensò Vanina.
– Eccolo là, – indicò. – Ma ti avverto: non avrai molto spazio per muoverti.
Manenti infilò la testa nel montacarichi e poi con un cenno cedette il posto a un agente in tuta bianca, equipaggiato di calzari, guanti e mascherina.
– Avete spostato qualche cosa? – chiese, con l’aria di chi si aspetta una risposta positiva.
Spanò si fece avanti, impermalito. – Per quello che serve, non abbiamo messo dentro manco un piede.
Per tutta risposta si beccò un’occhiata della serie «stai parlando con un tuo superiore».
Il vicequestore tagliò corto. – Manenti, vedi di non perdere tempo e dammi qualche informazione utile. Cerchiamo di capire dal contesto a che epoca risale ’sto cadavere, perché non credo che ricaveremo un granché dall’autopsia.
– Alla preistoria, risale, – commentò il videofotosegnalatore scafandrato.
Vanina mise di piantone la Bonazzoli, al cospetto della quale Cesare Manenti perdeva di colpo la sua spocchia per assumere un tono quasi mellifluo. Si allontanò, lasciandolo perso negli occhioni verdi dell’ispettore, che quanto a grazia non aveva nulla da invidiare a Heidi Klum, e andò a cercare Burrano in mezzo alla piccola folla che si era creata in pochi minuti. Lo vide in piedi davanti al tavolo su cui un altro scafandrato stava montando un faro da puntare nell’anfratto. Mano in tasca e sigaro acceso tra le dita dell’altra, ronzava preoccupato intorno a un agente che armeggiava con una presa antidiluviana.
Osservò con la coda dell’occhio la donna, ancora seduta con il sacchetto sulle ginocchia. Livida in viso, rispondeva distrattamente alle domande dell’ispettore Spanò. Era giovane, poco piú che una ragazza, e l’insistenza con cui fissava il Burrano non lasciava dubbi sulla natura della loro amicizia.
– Signor Burrano, dovrei rivolgerle qualche domanda, – disse Vanina, avvicinandosi a lui.
– Certamente. Solo, se fosse possibile, preferirei che ci spostassimo in un’altra stanza. Non mi va di vedere di nuovo quel… quel… sí, insomma, quel cadavere.
Si trasferirono in una sala da pranzo e si sedettero da un lato di un tavolo lungo in stile liberty-orientale, sotto uno di quei lampadari dalle lampadine decimate. La donna col sacchetto bianco spostò la sedia fino a toccare quella di Burrano, e si piazzò vicino a lui sistemandosi il fardello in grembo con attenzione. Vanina iniziava a chiedersi che diamine contenesse di tanto prezioso.
Burrano la presentò: Valentina Vozza, di mestiere enologa. Non piú di ventotto anni, fisico perfetto inguainato in un jeans che si possono permettere in poche, e un carré di capelli lisci e scuri che la faceva assomigliare alla sua omonima del fumetto di Crepax.
– Signor Burrano, da quanto tempo abita in questa casa? – attaccò Vanina, accomodandosi di fronte a loro dall’altro lato del tavolo e tirando fuori dalla borsa il pacchetto delle sigarette.
– Veramente non ci vengo quasi mai. Ogni tanto ci passo il fine settimana, certe volte senza neppure dormirci. Le mie stanze sono dall’altro lato, nell’unica zona ristrutturata.
– È sua la villa?
– No, è di mia zia.
– Anche lei non abita qui?
– Non ci ha mai abitato.
Vanina si guardò intorno. Decorazioni, bassorilievi che rappresentavano palmizi e vegetazione varia. Dulcis in fundo le zineffe, che reggevano tendaggi in stile berbero, erano delle vere e proprie lance di legno. Il tanfo di morte vecchia che l’aveva investita nel montacarichi, e la polvere che tutta quella gente stava smuovendo nell’aria, le avevano già irritato la gola facendole rifiutare l’accendino che Burrano le aveva offerto slanciandosi sul tavolo appena l’aveva vista aprire il pacchetto. All’occhio attento del vicequestore non era sfuggito il lampo che quel gesto aveva provocato negli occhi di Valentina Vozza. Se due piú due faceva quattro, il loro rapporto doveva essere simile a quello del cacciatore con la lepre. Si accettavano scommesse su chi fosse il fuggiasco.
– Chi è stato l’ultimo inquilino di queste stanze? – chiese, rigirando tra le dita la sigaretta spenta.
– Fumi pure senza problemi, dottoressa, – disse Burrano.
– Grazie. Per il momento preferisco di no. Dunque?
– Per quanto ne so, fu mio zio Gaetano. Ma stiamo parlando di molti anni fa.
– E non c’è piú?
– Chi?
– Suo zio.
Burrano rimase perplesso per un attimo. – No, – rispose, come se fosse un fatto ovvio.
Il vicequestore gli puntò addosso gli occhi grigio ferro, intimidendolo. C’era qualcosa d’inespresso in quella risposta telegrafica.
– Signor Burrano, lei sapeva dell’esistenza del montacarichi?
L’uomo riprese tono. – Assolutamente no, dottoressa! Ma non me ne stupisco. Questa casa ha un sacco di aspetti, diciamo cosí, particolari. Oddio, trovarci dentro un cadavere non è stata un’esperienza piacevole.
– Per aspetti particolari cosa intende?
– Come fu progettata, l’arredamento assurdo, la torre, e tutte le diavolerie che mio nonno aveva fatto installare.
– L’ispettore Spanò mi ha detto che la scoperta dell’apertura nel muro della cucina è stata conseguente a quella di una porta simile al piano di sopra. Vorrei che me la mostrasse.
Alfio Burrano si alzò. – Certo, – annuí.
Valentina si issò all’istante sul suo tacco dodici, pronta a seguirli. Il sacchetto bianco si capovolse e due scatole, marchiate col logo del ristorante giapponese piú frequentato di Catania, rovinarono sul pavimento. Una decina di pezzi di sushi rotolarono via in un impasto di polvere secolare e salsa di soia, circonfusi di fettine di zenzero e di alcuni baccelli verdi che Vanina, con la sua scarsa cultura in materia, non seppe identificare.
– Eccheccazzo, Vale! – sbottò Burrano, infastidito.
La ragazza lo incendiò con un’occhiata di cui lui, troppo impegnato a profondersi in scuse col vicequestore, non si accorse neppure.
Di nuovo garbatissimo, si rivolse a Vanina.
– Venga, dottoressa, le mostro la stanza di sopra.
Valentina si mosse per andargli dietro.
– Non c’è motivo che salga anche tu. Rimettiti pure comoda, – la bloccò lui, con un cenno perentorio. – Anzi, fai una cosa: vai a cercare Chadi e digli di ripulire ’sto casino.
Vanina pensò che se un uomo si fosse permesso quel tono con lei, si sarebbe beccato un «vaffanculo» entro dieci secondi. Invece la Vozza si risedette e abbozzò. Con il fuoco negli occhi, ma abbozzò.
Burrano fece strada lungo la scala di marmo ed entrò in una stanza che quanto a bizzarria non aveva nulla da invidiare né alla sala da pranzo né al resto del mobilio. Le mostrò l’apertura camuffata dalle decorazioni sulla parete, e le fece notare la statua che la nascondeva.
– Pare una stampa e una figura col mezzobusto di Giuseppe Verdi nel giardino del Teatro Massimo di Palermo, – disse Vanina.
Burrano sorrise. Il soggetto, spiegò, era il capostipite: il grande ideatore di quel maniero.
– Perciò anche quest’apertura era nascosta, – constatò il vicequestore.
– Esatto. Ed è stata questa stranezza ad attirarmi. Quando in cucina trovai la credenza proprio in quel punto mi venne la bella pensata di spostarla per vedere se ci avevo azzeccato con i calcoli. Mannaggia a me e alla mia curiosità.
– Pensa che ce ne sia un’altra? Al piano di sopra, per esempio?
– Può essere. Anche se ne dubito. Queste, a quanto ne so, erano stanze vissute, perciò aveva un senso che ci arrivasse un montavivande, ma là sopra siamo già nella torre.
Vanina richiuse la porta e la bloccò con il paletto. Anche quella si apriva solo dall’esterno. Ma che senso aveva una chiusura di sicurezza in un montavivande? Si piegò sulle ginocchia e puntò la luce dell’iPhone sulla fessura tra il pavimento e la porta. Era millimetrica, pressoché invisibile.
Si tirò su spolverandosi le mani. Girò gli occhi sul resto della stanza, vide il muro mezzo crollato, i mobili che denotavano un ambiente limitrofo alla zona notte, fino a ritornare su Burrano, che se ne stava a braccia conserte di fianco alla statua dell’avo e la osservava. Sembrava già molto piú a suo agio di prima. Di sicuro meno in soggezione.
– Mi pare che qui, per il momento, non ci sia piú niente da vedere. Possiamo tornare giú, – sentenziò, invitandolo a farle strada. – Devo avvertirla che in tutta questa zona della casa, compresa la torre, saranno apposti dei sigilli. Dunque né lei né chiunque altro potrete entrarci se non in presenza di qualcuno di noi, – gli comunicò, mentre scendevano le scale.
– Non si preoccupi, dottoressa. Io non entravo in quella cucina da un sacco di tempo, e non ci ho mai passato piú di tre minuti.
– Per quale motivo?
Burrano la fissò, incerto.
– Queste erano le stanze di mio zio Gaetano.
Vanina rimase in attesa di ulteriori spiegazioni.
– È morto piú di cinquant’anni fa. Io non l’ho mai conosciuto.
– E dato che non viene mai qui, come ha fatto ad accorgersi del crollo?
– Chadi è stato. Ha sentito un tonfo che proveniva da questo lato e si è addentrato nelle stanze disabitate per capire cos’era successo. Il resto credo che lei lo sappia già. Dottoressa, mi scusi se glielo dico ma… si potrebbe evitare che i giornalisti lo vengano a sapere? Non si sa mai quello che scrivono e a mia zia non piacerebbe finire in prima pagina sulla «Gazzetta Siciliana».
– Per quanto possibile cercheremo di evitarlo.
Erano sull’ultimo gradino quando Adriano Calí, il medico legale, comparve dalla porta d’ingresso scortato dal vicesovrintendente Fragapane.
Il vicequestore mollò Burrano alla sua ragazza, che lo aspettava al varco, e andò incontro ai due uomini. Spedí Fragapane nella cucina degli orrori, in supporto a Spanò, e accolse il medico con un sorriso ironico.
– Chissà com’è che ero sicura di vederti spuntare da un momento all’altro.
Calí fece una smorfia, mentre si liberava di una giacca color carta da zucchero modello slim che portava su dei jeans stretti e risvoltati alla caviglia.
– Vassalli mi vuole bene assai. I casi piú particolari li appioppa sempre a me, – disse, guardandosi intorno mentre raggiungevano la cucina.
Estrasse un paio di guanti in lattice da una borsa di cuoio, che posò per terra.
– A quanto ho capito il mio paziente di stasera è un poco passato di cottura.
– Passata, casomai. Femmina è, – precisò Vanina.
– Una mummia, mi accennava Vassalli, – riepilogò il medico infilandosi i guanti, mentre Manenti e la sua squadra si facevano da parte per lasciargli spazio. – Ah, a proposito: ha ritenuto la sua presenza necessaria stasera stessa, perciò sarà qui a momenti.
A Catania il sistema di chiamata del medico legale funzionava in modo diverso dalla maggior parte delle altre città. Invece di passare attraverso l’Istituto di medicina legale, il magistrato reclutava direttamente il medico, scegliendolo da una lista. Pertanto il prescelto, che una volta ricevuta la chiamata non poteva rifiutarsi di intervenire se non per gravi e attestabili motivi di salute o personali, era sempre il piú informato sui tempi e sulle intenzioni del pm di turno.
Calí s’infilò nel montacarichi.
– Senti, Adriano… – attaccò Vanina.
– Scommetto che vuoi sapere a che ora è morta, – ghignò.
– Sfotti di meno e lavora, va’. Pensi sia possibile risalire quantomeno all’epoca del decesso?
– Vuoi dire se è avvenuto dieci, venti o magari quarant’anni fa?
– Ho capito. Non è possibile.
– A essere sincero, non credo che stavolta potrò esserti molto d’aiuto. Dopo un certo numero di anni non è piú determinabile l’epoca esatta. E qui posso dirti già da subito che anni devono esserne passati parecchi, – dichiarò, esaminando con attenzione i resti umani che giacevano davanti a lui. Prese in mano una delle collane. Osservò le scarpe: delle décolleté con tacco alto. Sollevò un po’ la gonna, fino a scoprire un indumento di pizzo, logoro e afflosciato sul bacino avvizzito, che aveva tutta l’aria di una guêpière.
– Doveva essere una donna elegante, – constatò. – E a una prima occhiata direi che non può essere vissuta in tempi recenti.
– Ma vero dici? – ironizzò il vicequestore, calcando apposta l’inflessione palermitana che Calí, catanese fino alle unghie dei piedi, non sopportava.
Manenti se ne stava in piedi di fianco al medico, sempre piú ingrugnito e con le mani ficcate nelle tasche di un soprabito grigio topo dall’aspetto antidiluviano. Faceva un curioso contrasto con Adriano, che piú modaiolo non avrebbe potuto essere, nonostante l’occasione.
– È stata questa griglia di ferro che fa da base a permettere che si mummificasse. Ha drenato velocemente i liquidi, e la temperatura non alta e qualche piccola presa d’aria hanno fatto il resto. Altrimenti avremmo trovato soltanto ossa, – spiegò il medico.
– Vedi che fortunati! – ironizzò il vicequestore.
Il pm Vassalli entrò con passo pesante, seguito dall’agente Lo Faro, prono ai suoi piedi. Dalla faccia scura traspariva il disturbo che quel sopralluogo serale gli aveva procurato.
– Buonasera, dottoressa. Carissimo Calí. Abbiamo idea di chi possa essere la vittima? – chiese, con un’aria scettica che archiviava la domanda prima ancora di porla.
– Le uniche evidenze che abbiamo sono che si tratta di una donna e che deve trovarsi lí dentro da parecchio tempo.
– Parecchio quanto, Calí?
– È difficile dirlo cosí su due piedi, e temo sia impossibile determinarlo con esattezza. Di certo da almeno un decennio, anche se i dati ambientali suggeriscono un’epoca parecchio antecedente.
– Abbiamo qualche speranza di capire se si è trattato di omicidio?
Il medico esitò un momento. – Dall’esame autoptico? Solo se l’arma del delitto ha lasciato reliquati riconoscibili. Altrimenti dovremo affidarci all’intuito del vicequestore Guarrasi –. Scambiò uno sguardo con Vanina.
– Dottoressa, lei che dice? – l’interpellò il giudice.
– Mah! Ancora non abbiamo granché di elementi su cui lavorare. Però una cosa è certa, dottore: la porta del montacarichi era serrata dall’esterno. Chiunque fosse la donna, e in qualunque modo sia morta, da sola non può essercisi rinchiusa. Perciò…
Vassalli meditò su quelle parole, annuendo. Si avvicinò al cadavere che nel frattempo Calí aveva trascinato con cautela fuori dall’anfratto, con l’aiuto di Spanò e di Lo Faro, la cui cooperazione era durata i pochi minuti in cui aveva resistito prima di andare ad accasciarsi di lato semisvenuto.
Cosí, adagiato in mezzo alla stanza ed esposto alla luce, il cadavere faceva un effetto ancora piú ripugnante.
Burrano impallidí e seguí la Vozza che scappava fuori di corsa.
– Poveraccio. Un colpo gli sarà preso quando ha trovato questa specie di sepolcro, – commentò il giudice, seguendoli brevemente con lo sguardo.
Non fosse stato per il fatto che quel mausoleo di villa apparteneva alla signora Teresa Burrano, con cui sua moglie condivideva spesso il tavolo di burraco al circolo, Vassalli avrebbe volentieri rimandato il sopralluogo all’indomani mattina. Senza contare che il caso aveva tutte le carte in regola per diventare uno di quei rompicapo in cui la Guarrasi amava sguazzare, e del quale non si sarebbe liberato facilmente.
Il pm non nascondeva di disapprovare i metodi spicci e il ritmo serrato con cui il vicequestore conduceva le indagini, e cui lui faticava a stare dietro.
Giovanna Guarrasi era uno sbirro di quelli veri, di quelli che in questura sembrano esserci nati. Si circondava solo di gente fidata, che ricompensava con la sua fiducia. Uomini e donne di cui era stata capace di conquistare la devozione, e con la collaborazione dei quali andava avanti come un treno senza mai fermarsi se non dopo aver sbattuto il colpevole di turno dietro le sbarre, il piú a lungo possibile.
Vanina osservò il quadro d’insieme. Il primo esame della scena era il piú importante. Tra i dettagli che forniva ce n’erano sempre alcuni che lí per lí potevano sembrare insignificanti, ma che poi, nel rielaborarli o nel metterli in relazione con gli indizi che via via andava raccogliendo, si rivelavano fondamentali.
Stavolta, però, era quasi certa che non sarebbe andata cosí. Quel delitto si perdeva nell’abisso del tempo, ed era assai probabile che l’unico possibile testimone si fosse portato il segreto nella tomba.
Mentre Vassalli intratteneva Burrano, che nel frattempo era ricomparso pur tenendosi a debita distanza, il vicequestore si chinò sul cadavere, s’infilò un guanto e raccolse una scarpa che Calí aveva messo di lato. Emanava un odore nauseabondo, ma a quello era abituata. La forma del tacco però aiutava a circoscrivere un minimo l’epoca.
– Certo che ’sto posto mette un po’ la pelle d’oca. L’aspetto tetro, questa torre che pare abitata dagli spiriti. Guarda le stanze: sembrano abbandonate da un giorno all’altro cosí com’erano. Ecco, fossimo in un film, direi che non poteva esserci location piú azzeccata per il ritrovamento di un cadavere, per di piú mummificato, – commentò Adriano.
Il medico era forse l’unica persona capace di batterla in campo di conoscenze cinematografiche. E amava anche lui i film d’epoca, il che aveva influito non poco sulla loro neonata amicizia.
– Una scena alla Dario Argento?
– Non proprio. Direi piú da Giallo napoletano. L’avrai visto. Mastroianni, la Muti giovanissima… Sono sicuro che ce l’hai nella tua collezione.
– Lo sai che invece non ce l’ho? E non sono neppure sicura di averlo visto.
Era la seconda volta che Adriano Calí la fregava su un film. La prima era stata cosí clamorosa che non l’avrebbe dimenticata mai. La prima notte di quiete. Un dramma anni Settanta in cui un Alain Delon ineguagliabile conquistava a colpi di versi danteschi una ragazza di nome Vanina. Era stato illuminante per capire la vera fonte d’ispirazione materna del suo diminutivo.
– Documenti non ce ne sono, manco a dirlo, – li interruppe Manenti, lo sguardo puntato sulla calzatura che il vicequestore teneva in mano.
– Perché, Manenti, pensavi di trovarne?
– Mah, cumminata cosí pare pronta per il check-in all’aeroporto?
– Per una partenza, Manenti. Qualcosa mi dice che all’epoca in cui è morta viaggiare in aereo non era cosa di tutti i giorni.
L’ispettore Spanò, che si era avvicinato, si fece attento.
– Che vuole dire con questo, capo?
Vanina si chinò sul cadavere e scostò la gonna, scoprendo la sottogonna e la guêpière. Chiamò l’ispettore Bonazzoli, che da un’ora girava intorno alla mummia senza toccarla.
– Marta, tu hai mai incontrato in treno o in aereo una che viaggia vestita cosí?
L’ispettore si fece avanti ed esaminò il reperto che il capo le aveva messo sotto il naso.
– Che ha questa scarpa? – chiese.
– La forma: la punta corta, il tacco piú largo alla base e inclinato verso l’interno. Non si usa piú da decenni. E i vestiti: sono malmessi, ma s’intuisce che erano eleganti. Nessuna viaggia piú vestita cosí da un sacco di tempo, – disse Vanina.
Rimise a posto la gonna, come a proteggere gli ultimi residui di dignità di quella sconosciuta.
– Massimo primi anni Sessanta, – sentenziò infine, senza fornire ulteriori chiarimenti a Calí, che la guardava perplesso.
Si allontanò facendo cenno all’ispettore Spanò di seguirla.
– Chi ha messo lí il cadavere della donna, o sapeva che dietro la credenza c’era un possibile nascondiglio oppure l’ha creato, spostandola e occultando il montacarichi. In entrambi i casi doveva essere qualcuno che frequentava la villa, e che la conosceva bene, – osservò Spanò.
– Io propenderei per la seconda, ispettore, visto e considerato che anche l’apertura al piano di sopra era nascosta. Da una statua, pensi un po’.
Spanò assunse l’espressione assorta di quando aveva qualcosa da raccontare.
– Dottoressa, questa villa è disabitata da anni. Che dico anni: decenni. Le uniche stanze che Alfio utilizza, da poco tempo oltretutto, sono isolate dall’altro lato. La vecchia Burrano non ci mette mai piede. Però c’è un particolare che probabilmente Alfio non le disse: Gaetano Burrano non morí di malattia. Lo ammazzarono –. Il vicequestore trasecolò.
– Voleva aspettare ancora un paio d’ore prima di dirmelo, Spanò?
Calí li interruppe. – Vanina, io per stasera ho finito. Domani ci lavoro e ti faccio sapere qualcosa. Ma, ripeto, non ti aspettare niente di eclatante perché non penso di poterci ricavare granché.
– Ci sentiamo domani, – gli rispose distratta.
– Tarda mattinata, non prima, – precisò il medico.
Gli fece segno di aver afferrato il messaggio. Vide che anche Manenti stava per levare le tende.
– Mi faccia capire meglio, ispettore. Gaetano Burrano fu ucciso. Da chi? – riprese.
L’ispettore oscillò il capo, dubbioso. – Picciriddo ero all’epoca, dottoressa. Qualche cosa me la ricordo, perché la famiglia mia fu sempre vicina ai Burrano. Ma per essere piú preciso debbo fare qualche ricerca. Per quanto…
Vanina lo bloccò con un cenno della mano. – Voglio saperne il piú possibile.
Si voltò a guardare Burrano, che parlava con Vassalli. Il giudice scuoteva la testa con aria di cordoglio. Vanina ormai lo conosceva. Era uno coscienzioso, ma non si poteva dire che avesse una vocazione per il suo lavoro, che svolgeva con una flemma irritante. Questo li aveva portati spesso a entrare in contrasto.
– Domani voglio interrogare la signora Burrano e sentire di nuovo il nipote. E voglio tornare qui, con calma, – concluse Vanina.
Spanò annuí, poco convinto. – Capo, mi deve scusare, ma pensa per davvero di scoprire qualche cosa? Piú di cinquant’anni passarono, dall’omicidio di Burrano. Capace che oramai l’assassino morí. E in tutto questo tempo, la casa è stata incustodita, tant’è vero che Alfio dice che si rubarono un sacco di cose. Chiunque potrebbe aver scoperto quel montacarichi e pensato di usarlo per occultare un cadavere.
– Spanò, voglio sapere chi ammazzò Burrano, quando successe il fatto, dove e perché. E cerchiamo di scoprire quante persone bazzicavano questa casa quando era in vita. Servitú, amministratori, persone di fiducia e soprattutto capiamo chi di loro poteva essere a conoscenza del montavivande.
– Domani recupero tutte le informazioni, – ubbidí l’ispettore.
Vanina lo lasciò per avvicinarsi a Vassalli.
– Cercheremo di disturbare la signora Teresa il meno possibile, – stava garantendo il giudice ad Alfio Burrano, che annuiva meccanicamente con la ragazza appesa al braccio.
Il vicequestore sogghignò tra sé e sé: meglio non comunicare al magistrato che la vecchia signora sarebbe stata la prima persona che lei aveva deciso di «disturbare» l’indomani mattina. E piú lo sentiva parlarne con deferenza, piú la sua decisione diventava irrevocabile.
Da qualche parte doveva cominciare, e non poteva essere che quella.