L’ispettore capo Carmelo Spanò finí il caffè e mandò giú l’ultimo boccone di raviola. Si gustò fino in fondo il sapore della ricotta: dolce ma non troppo e profumata di cannella nella giusta misura. Afferrò il giornale e lo appoggiò su un tavolino d’alluminio segnato dalle strisce opache di un poco risolutivo colpo di spugna. Lo scorse da cima a fondo, spaginandolo tutto, per appurare che nemmeno una riga fosse uscita sul ritrovamento. Era troppo presto, in effetti, ma non si sa mai. Tra gli agenti della Scientifica presenti a villa Burrano la sera prima, aveva riconosciuto un noto dispensatore di notizie. E quel ritrovamento faceva troppa scena per non finire in mano a qualche cronista in cerca di disgrazie con cui poter sbarcare il lunario.
Si pulí la bocca con un tovagliolo di carta e lasciò sul tavolino un euro e settanta, la solita somma. Salutò con un cenno il padrone del bar, dove faceva colazione tutte le mattine da quando a casa sua non c’era piú nessuno a preparargliela.
Il tratto di strada a piedi verso l’ufficio era il momento che piú gli piaceva, in giornate come quella sarebbe stato anche l’unico tranquillo. Il vicequestore Guarrasi sembrava aver sposato la causa del cadavere antidiluviano, e ciò significava che non avrebbe mollato il caso prima di averlo risolto. Di base era il principio che aveva sempre sostenuto anche lui, lo stesso che l’aveva portato a dipanare matasse parecchio piú ingarbugliate di quella che intravedeva tra le mura di villa Burrano. Era il principio in difesa del quale ora si ritrovava a fare colazione ogni mattina solo come un cane, con un documento di separazione da firmare che lo aspettava nello studio di quello stronzo di avvocato con cui sua moglie conviveva ormai da piú di un anno.
Stavolta, però, qualche dubbio circa l’utilità delle indagini – peraltro fumose e complicate – che si accingeva a condurre gli era venuto. Anzi, a dirla tutta quei dubbi gli avevano tolto mezza nottata di sonno.
Il vicesovrintendente Fragapane gli venne incontro nel corridoio della questura agitando un bicchiere di plastica marroncina, nel quale turbinava una bevanda nera che emanava un vago odore di caffè. Un brodame inconfutabilmente erogato dal distributore automatico all’ingresso.
– Stamattina mi feci una scappata in archivio, e mi procurai un poco di carte sul caso Burrano.
Spanò guardò l’orologio: le otto spaccate.
– Stamattina quando, Fragapane? Le otto sono!
– Lo sai che non mi può sonno. Alle cinque e mezza mi suso e non ho che fare. Invece di furriare casa casa come uno scimunito e disturbare a Finuzza che deve pigliare servizio in ospedale, pensai che potevo impiegare meglio il tempo.
Salvatore Fragapane era l’altro «anziano» della Mobile. Insieme a Spanò, faceva parte di quella che i due chiamavano orgogliosamente «la vecchia guardia».
Carmelo aprí la porta dell’ufficio che divideva con il vicesovrintendente. Sulla scrivania di Fragapane, un faldone polveroso e dalle pagine ingiallite giaceva di fianco a una custodia di cartone usurata dal tempo e dalle tarme.
– E forza: vediamo che possiamo tirarci fuori, da ’ste carte.
Il passo del vicequestore Guarrasi risuonò nel corridoio alle 8.45.
Non c’era mattina che le riuscisse di arrivare in ufficio prima di quell’ora, a eccezione di quelle volte, in realtà non infrequenti, in cui vi trascorreva l’intera nottata.
Non era questione di pigrizia, ovviamente: dalle dieci del mattino in poi, Vanina avrebbe potuto tirare avanti senza mai stancarsi fino a notte inoltrata. Anzi, piú tardi si faceva e piú la sua attività cerebrale marciava alla perfezione. Insonnia, interpretava erroneamente chi non la conosceva bene, ma non era esatto: quando dormiva, Vanina riposava benissimo e senza interruzioni. Neppure quella della sveglia. Era proprio il suo ciclo sonno-veglia che non andava. Per assecondare la sua natura e recuperare almeno parte del gigantesco debito di sonno che andava accumulando durante la settimana, avrebbe dovuto dormire dalle due di notte alle dieci del mattino. Cosa che giusto la domenica, e in tempi di pace.
La sera prima era tornata a casa con la sensazione di trovarsi di fronte a un caso di quelli che non si dimenticano. Una di quelle vicende suggestive che la gente poi continua a raccontarsi per anni. Burrano si sarebbe dovuto rassegnare: difficilmente i giornali si lasciavano scappare storie del genere.
Dopo essersi spazzolata le scacce di Bettina, aveva tentato di impiegare le ultime ore di veglia cercando in rete qualche informazione sulla villa incriminata. Un modo come un altro di tirare tardi nella speranza di arrivare dritta al sonno senza passare per la fase che lo precedeva, quella in cui i pensieri piú molesti iniziano ad affiorare. Ma era stato inutile. La ricerca era durata cinque minuti – i fatti di villa Burrano risalivano a un’epoca in cui internet non era neppure nella mente di Dio – e lei si era ritrovata di nuovo a dibattersi nella mestizia di quel 18 settembre appena trascorso. La televisione accesa, lo sguardo puntato sull’unica fotografia che troneggiava incorniciata sulla mensola. Il suo umore era colato di nuovo a picco nei ricordi. E si era sentita orfana. Per la venticinquesima volta.
Spegnere la terza sveglia, strategicamente piazzata lontano dal letto, aveva comportato una fatica smisurata. Le gambe come due macigni, una lieve vertigine, la sensazione di non riuscire a tenere gli occhi aperti. Aveva iniziato a connettere solo dopo due caffè, una doccia e una sigaretta fumata all’aria fresca.
Era in netto ritardo.
La colazione del bar Santo Stefano, come già altre volte, se l’era dovuta portare appresso.
Prima di raggiungere il suo ufficio si diresse verso la stanza che l’ispettore Bonazzoli divideva con il sovrintendente Nunnari, l’unico che non era intervenuto la sera precedente, e con l’agente Lo Faro. Era lí che la squadra si riuniva all’inizio di ogni nuovo caso, per scambiarsi le prime impressioni in attesa del suo arrivo.
Marta era seduta alla scrivania, con una tazza fumante in una mano e un biscotto, rigorosamente integrale e privo di qualunque proteina animale, nell’altra. In silenzio, sorseggiando la tisana in modo da finirla prima che il vicequestore storcesse il naso sentendone l’odore, ascoltava le descrizioni che Spanò e Fragapane stavano fornendo a Nunnari, curioso di conoscere qualche dettaglio sul caso.
Il vicequestore irruppe nell’ufficio battendo un paio di volte le nocche sulla porta socchiusa.
– Buongiorno, squadra, – salutò, bloccando con un cenno della mano Spanò che per primo stava balzando in piedi, e dirigendosi verso la postazione dell’ispettore Bonazzoli.
– Ciao capo, – l’accolse Marta, liberando la porzione di scrivania su cui sapeva che lei si sarebbe accomodata. In quanto donna, per di piú forestiera, e avendo goduto del privilegio di condividere con lei parte del suo poco tempo libero, era l’unica di tutta la squadra a darle del tu.
Un caso fresco fresco e un’indagine tutta da ponderare, ancora priva di qualsiasi contaminazione esterna: una vera panacea sarebbe stata, per il vicequestore Guarrasi, il cui umore variava in misura direttamente proporzionale alla sua creatività investigativa.
– Perciò, picciotti, – esordí Vanina, sedendosi con una sola gamba sull’angolo della scrivania dell’ispettore, e poggiandovi sopra un vassoietto incartato odoroso di caffè. – Facciamo un po’ il punto della situazione. Quello che ci troviamo per le mani da ieri sera non è un caso per cosí dire… ordinario. Sappiamo già che l’autopsia servirà a ben poco. E pure i rilievi della Scientifica, informazioni utili non ce ne daranno. Ci forniranno solo indizi vaghi, che ci permetteranno di farci giusto un’idea dell’epoca in cui ci stiamo muovendo.
L’ispettore capo Spanò sghignazzò, guadagnandosi la sua occhiata storta.
– Significa, – seguitò, marcando il timbro della voce per zittire il mormorio divertito, – che stavolta dovremo procedere a tentoni. Niente impronte digitali, niente indizi sull’arma del delitto, niente dati ambientali significativi. Qualunque pista scoveremo, ci porterà indietro come minimo di qualche decennio. E non è detto che conduca a qualcosa.
Nunnari alzò la mano.
– Scusi, capo, ma se le cose stanno cosí… che fretta abbiamo?
– Sempre il solito lavativo! – criticò Spanò.
Vanina fissò il sovrintendente, senza contrarietà.
– Probabilmente nessuna. Però vedi, Nunnari, perdere tempo non conviene a nessuno. Appena questa notizia trapela, e a occhio e croce sono sicura che succederà a breve, si solleverà un polverone di curtigghi. I Burrano sono una famiglia conosciuta, e per giunta con un morto ammazzato nel pedigree. E Catania è un paesone. Una storia cosí succosa scatenerà l’inferno. Perciò è meglio cercare di raccogliere quante piú informazioni possibile per non farci cogliere impreparati.
– Capo, – intervenne Fragapane, facendosi avanti con un fascicolo in mano, – le carte dell’omicidio Burrano già le abbiamo. Allora ce ne occupammo noi… cioè la Mobile. Me le procurai io stamattina, nell’archivio della questura. Per fortuna si trovavano in uno scaffale ordinato, se no ancora là ero.
Vanina allungò la mano soddisfatta, agguantando l’incartamento che il vicesovrintendente le porgeva. Esaminò la prima pagina, datata 1959.
– Bravo Fragapane. Ora lei e Spanò cercate di recuperare un poco d’informazioni sull’omicidio. Come avvenne, dove, se fu trovato il colpevole e chi era. E occhio soprattutto se tra i vari nomi che leggete – testimoni, indiziati e gente coinvolta – risulta qualche donna.
Vanina colse un certo scetticismo negli sguardi che accompagnavano i cenni d’assenso.
– Sentite, può anche essere che le notizie contenute dentro ’sto faldone vecchio di cinquant’anni non ci conducano a niente, ma da qualche parte dobbiamo cominciare. A villa Burrano era, il cadavere di questa tizia, e fresco non era di certo. L’omicidio di Gaetano Burrano finora pare l’unico fatto rilevante nella storia di quella famiglia, e guarda caso è avvenuto parecchio tempo fa. Perciò intanto vediamo un poco di capire come fu e come non fu. Va bene?
– Ci mettiamo al lavoro subito, – garantí Spanò.
Vanina scese dalla scrivania dell’ispettore Bonazzoli.
– Io e Bonazzoli, invece, appena possibile ce ne andiamo a casa della signora Burrano, prima che qualcuno si metta di traverso e pianti qualche paletto. Convocarla qui mi pare inutile, almeno per il momento. Anzi, Marta, procurami il numero di telefono, che la chiamo personalmente. Ora me ne vado nel mio ufficio a consumare questa colazione, prima che si raffreddi del tutto.
Riprese il pacchetto che aveva poggiato sul tavolo, facendo attenzione a tenerlo dritto, e si avviò verso la porta.
– Ah, dimenticavo: Nunnari, parla con quelli della Scientifica e chiedi quando potremo avere il contenuto delle borse che abbiamo trovato vicino alla mummia. Sicuramente ci aiuteranno a capire qualcosa, almeno per determinare l’epoca.
Il sovrintendente portò due dita alla fronte, sull’attenti.
– Riposo, riposo, – rispose Vanina sorridendo.
Nunnari era un divoratore di film americani, di quelli pieni di «sissignore» urlati a uno spietato sergente maggiore. Gliel’aveva confidato durante l’unico appostamento che avevano fatto insieme, guadagnandosi cosí le sue simpatie di cinefila. Peccato solo che piú che al guardiamarina Mayo di Ufficiale e gentiluomo il sovrintendente somigliava a «palla di lardo» di Full Metal Jacket.
Entrò nel suo ufficio e raggiunse la scrivania, che lei stessa aveva sistemato sotto una vetrata orientata a levante e già infuocata di luce manco fosse estate piena. Abbassò la serranda quanto bastava per potersi sedere sulla sua poltrona senza dover tirare fuori gli immutabili Persol dalla tasca laterale della borsa, ma avendo cura che una striscia di sole rimanesse proiettata sul pavimento. Le ricordava di essere tornata in Sicilia e solo lei sapeva quanto l’aveva desiderato.
Scartò il pacchetto e tirò fuori un bicchiere di plastica col caffellatte. Tolse il coperchio e versò mezza bustina di zucchero, di canna, cosí per ridere, mentre addentava un dolce di pastafrolla ripieno di crema che a Catania chiamavano panzerotto.
La colazione era ancora a metà, quando Marta comparve bussando due volte alla porta.
– Capo… oh, scusa. Credevo avessi già finito.
Le fece segno di accomodarsi.
– Che c’è? – chiese, intercettando lo sguardo dell’ispettore puntato sul suo bicchiere. – Ah, vero. Per voialtri il latte è veleno. Quasi quasi è meglio fumare una sigaretta.
Marta era abituata a quel «voialtri» sardonico, che il vicequestore riservava a chiunque avesse abitudini alimentari diverse da quelle canoniche. In particolar modo a loro: i vegani.
– Io non ti stavo dicendo nulla, – replicò. Tanto, ormai lo sapeva, tentare l’ennesima difesa delle colazioni a base di semi di lino e yogurt di soia sarebbe stato tempo perso.
– Hai recuperato il numero della Burrano?
Marta annuí. Tirò fuori il Samsung e le mostrò il display.
– Vedo che annotasti anche il cellulare del nipote. Hai fatto bene, sembra un tipo interessante, – la stuzzicò, afferrando la cornetta e componendo il numero.
– Sai invece cosa mi ha detto lui, nel darmelo? «Le sarei grato se potesse girarlo al vicequestore Guarrasi».
Vanina aggrottò la fronte, con un gesto che indicava l’assurdità di quell’allusione.
La signora Burrano arrivò all’apparecchio dopo cinque minuti buoni, che il vicequestore trascorse prima conversando con una ragazza straniera di nome Mioara, la badante con ogni probabilità, e poi in paziente attesa.
– Dottoressa Guarrasi, qualcosa mi diceva che l’avrei conosciuta molto presto, – esordí la signora.
– Buongiorno, signora Burrano. Chiedo scusa per il fastidio, purtroppo inevitabile date le circostanze. Avrei bisogno di chiederle alcune informazioni. Una chiacchierata del tutto informale. Di persona.
Fece cenno a Marta di aprire la porta a Spanò, che aveva già bussato due volte e che non si sarebbe mai permesso di entrare nel suo ufficio senza invito.
– Sí. Lo immaginavo, – rispose la signora Burrano.
– Se non le è di disturbo, passerei lí da lei oggi stesso in tarda mattinata.
– Lei è una che non perde tempo, lo so. Nessun disturbo, naturalmente. Purché non sia dalle due alle quattro, per piacere. Sa com’è, alla mia età si fa fatica a cambiare le proprie abitudini, specie se riguardano il riposo.
– Sarò da lei tra un paio d’ore.
Quando chiuse la comunicazione, Spanò e Marta continuarono a confabulare come stavano facendo.
– Perciò? Posso sapere anch’io, o si tratta di un segreto tra voi due?
– Mi scusi, dottoressa. Lei stava parlando al telefono…
– Vabbe’. Allora? Che avete trovato nelle carte che portò Fragapane?
Spanò si accomodò meglio sulla poltroncina.
– Per ora abbiamo dato una scorsa veloce. C’è solo il fascicolo M1, quello relativo all’omicidio. Fragapane se lo sta spulciando per bene, e sappiamo tutti che ha bisogno dei suoi tempi. A quanto pare Gaetano Burrano fu ammazzato il 5 febbraio del ’59, con un colpo di pistola sparato in testa. Alla nuca, per essere precisi. L’arma era una Beretta calibro 7,65, che non è mai stata trovata. Il corpo fu rinvenuto alla scrivania del suo studio, – fece una piccola pausa durante la quale fissò il vicequestore, – nella villa di Sciara.
Vanina si protese in avanti poggiandosi sui gomiti, in attesa del prosieguo.
– Dell’omicidio fu accusato Masino Di Stefano, l’uomo che amministrava tutte le sue terre e le sue attività.
– Chi fu a seguire l’indagine?
– Il commissario Agatino Torrisi, che allora dirigeva la Mobile.
– Movente?
– Burrano si era rifiutato di permettere che nelle sue terre si costruisse un acquedotto. Un progetto grosso, che interessava assai la famiglia mafiosa degli Zinna, con cui Di Stefano aveva molti contatti, e macari qualche legame di parentela da parte della moglie –. Il solo udire il nome di certe famiglie, di cui in altri tempi aveva tenuto stampati in mente tutti gli alberi genealogici, riusciva a provocarle un senso di nausea.
– E tutte ’ste cose le ha desunte sfogliando le carte in dieci minuti?
– No. Sulle carte ho letto solo che per l’omicidio di Burrano fu condannato Masino Di Stefano e chi se ne occupò. Non mi pare che si faccia cenno alla mafia, anche perché nel ’59 la parola mafia, cosí come la intendiamo noi, manco esisteva. Gaspare Zinna, il cognato di Di Stefano, fu indagato per complicità, ma prove a suo carico non se ne trovarono.
E ti pareva.
– E il fatto dell’acquedotto, dove l’ha letto?
– Da nessuna parte, dottoressa. Mi bastò fare una telefonata. Mio padre ha ottantotto anni, ma il cervello ancora gli cammina perfettamente. In cinque minuti mi cuntò piú cose di dieci fascicoli.
Vanina sorrise. Gli Spanò erano sempre una grande risorsa.
– E con l’acquedotto, come finí?
– A casa sua, a Santo Stefano, quando apre il rubinetto l’acqua arriva?
– Certo.
L’ispettore si strinse nelle spalle e allargò le mani. – E allora!
– Ah, ecco, – fece eco il vicequestore, mentre Marta spostava lo sguardo da lei a Spanò per cercare di afferrare il significato di quello scambio di battute.
L’ispettore Bonazzoli era di Brescia. In Sicilia era arrivata da poco piú di un anno. Si era abituata a molte cose: agli orari vaghi, ai servizi che non funzionavano; aveva imparato a uscire con gli occhiali da sole anche in pieno inverno, a mostrarsi socievole con i vicini di casa, e a non rifiutare mai quello che le veniva offerto – naturalmente a meno che non si trattasse di carne o derivati animali –, pena una mortale offesa. Quello che però ancora non le riusciva era decifrare certi messaggi subliminali fatti di poche parole, a volte addirittura cenni, che spesso i suoi colleghi si scambiavano. E tutti sembravano capire al volo. Tutti, tranne lei.
– Bonazzoli, lascia perdere. Poi te lo spiego, – la provocò Spanò, divertito.
La ragazza lo guardò storto. – Dunque Burrano è stato ucciso proprio nella stessa casa in cui il nipote ieri ha scoperto il cadavere, – sintetizzò, riportando la conversazione sui binari.
– Esatto, – confermò il vicequestore. – Spanò, quanto tempo è che non pranza con suo padre?
Spanò sorrise. – Assai, perché?
– Oggi si prenda tutto il tempo che vuole e se ne vada a pranzo dai suoi. Mi piacerebbe sapere qualcosa di piú su Gaetano Burrano. Che personaggio era, e com’era considerato. Anche i pettegolezzi. Non credo che troveremo molta gente in grado di ricordare.
L’ispettore annuí.
– Marta, tu invece contatta il dottor Burrano, e digli di raggiungerci a Sciara oggi pomeriggio presto.
– Ok, capo.
Convocò il sovrintendente Nunnari, che entrò scuotendo la testa.
– Nessuna notizia dalla Scientifica? – indovinò Vanina.
– Ancora niente, capo. Forse è presto.
Oppure era quel grandissimo fituso di Manenti, che non si sentiva abbastanza considerato se non riceveva la telefonata diretta del vicequestore Guarrasi.
Vanina si protese verso il telefono e compose il numero.
– Guarrasi. Mi passi il dottor Manenti.
– Ciao Guarrasi, – udí, dopo pochi minuti.
– Buongiorno, Manenti. Come procede il lavoro?
– I miei uomini stanno catalogando tutto quello che c’era nelle due borse, che tu di sicuro sarai ansiosa di avere per le mani. O sbaglio?
– Ti mando qualcuno tra… quanto? Un paio d’ore?
Dall’altro lato si sentí sbuffare rumorosamente.
– Se hai deciso che devono bastare due ore… Comunque si tratta solo di fissariate. Cose da fimmine. Pettini, rossetti, specchietti, un fazzoletto di seta. E poi gioielli, tanti gioielli. Un pacchetto di sigarette. Solo una cosa può essere utile: un’agendina.
– Di che anno?
– Nessuno. È telefonica.
– E degli altri reperti che mi dici?
– Che reperti? – si fermò, poi: – Ah, giusto! La cassetta di sicurezza. Con tutta la fretta che mi fai, mi stavi facendo scordare l’unica cosa importante. Era piena piena di banconote, tutte da diecimila lire.
– L’anno di tiratura?
– Ma prima non lo vuoi sapere quante erano?
– Non mi sembra il dato piú rilevante. Mi interessa di piú sapere l’epoca.
L’uomo parve riflettere. – Guarrasi, ma lo sai che pari sperta veramente? – osservò poi, con una nota di scherno che la infastidí.
– Grazie, Manenti. Allora?
– Non lo so. Però ti posso dire che sono grandi come fazzoletti.
Se l’aspettava.
– Perciò sono vecchie assai. Quanto tempo perderai per sapere a quando risalgono?
– E che minchia, Guarrasi! Manco dodici ore passarono, e macari la notte ci fu nel mezzo. Ti pare che babbiai fino a ora? Ci vuole il tempo che ci vuole.
Vanina allontanò la cornetta con una smorfia. Allargò le braccia e scosse la testa, imponendosi il silenzio.
Spanò accennò un sorriso sardonico. Marta sospirò.
– Il vicesovrintendente Fragapane sarà lí da te verso l’una. Non gli dare solo fotografie, mi raccomando, dàgli direttamente le borse e il loro contenuto, che tanto non hai che cosa fartene, – comunicò, sottolineando la cafonaggine del suo interlocutore con un tono neutro.
– Gli darò piú materiale possibile. Va bene? Ma me la togli una curiosità? Io capisco quando mi vieni a levare l’aria per un omicidio avvenuto il giorno prima, ma tutta ’sta prescia per un cadavere che manco si sa in che epoca è morto, e che è stato ritrovato per caso?
Non seppe rispondergli. Anche perché una risposta logica da dargli non ce l’aveva. Tagliò il discorso.
– Ah, Manenti? – lo richiamò, prima di mettere giú. – Una dritta: sotto la figura stampata nelle banconote ci sono sempre scritte delle date. Non dovrebbe essere difficile.
Non udí risposta, solo il clic di chiusura.
Alzò lo sguardo sui due ispettori, sempre piú divertiti.
– Non sono ammessi commenti, – avvertí.
Si alzò in piedi recuperando la giacca di pelle che aveva appeso alla spalliera e uscí, seguita dai due ispettori.
Entrò nell’ufficio accanto insieme a Spanò.
– Fragapane, – chiamò.
Il vicesovrintendente scattò verso di lei.
– All’una vada da quelli della Scientifica e si faccia consegnare il piú possibile. Veda se riesce a portarmi una delle banconote che hanno trovato nella cassetta di sicurezza o quantomeno la foto ingrandita. Occhio, che Manenti non le mollerà facilmente.
– Lassassi fare a mmia, dottoressa. Alla Scientifica ci lavora un amico mio.
– E allora perché ci mando sempre lei?
Le amicizie di Fragapane erano tentacolari: una in ogni reparto. E Vanina sospettava che la rete si estendesse anche al di fuori degli uffici della Polizia di Stato.
Il vicesovrintendente si guardò i piedi imbarazzato, ma in fondo orgoglioso.
Mentre Marta entrava nell’edificio di fronte a recuperare un’auto di servizio dal parcheggio, Vanina compose il numero del cellulare di Adriano Calí, che squillò a vuoto. Alzò lo sguardo a controllare il cielo, ancora grigiastro, e stese la mano col palmo in su per accertarsi che la cenere non avesse ripreso a venire giú. Si accese una sigaretta, ma ne fumò solo un paio di boccate spegnendola poi in un vaso pieno di terra e di cicche, prima di montare in macchina dal lato del passeggero. Marta non avrebbe di certo osato protestare, se avesse tenuto la sigaretta accesa. L’avrebbe tollerata in silenzio, ma con una visibile afflizione, che a Vanina smuoveva i nervi. D’altra parte, l’interno di quell’auto puzzava già di per sé, e per giunta di fumo freddo, quello stantio, il piú nauseabondo.
– Posso chiederti una cosa? Perché ti stai lanciando con tutto questo entusiasmo in un caso che probabilmente non avrà risoluzione? – domandò l’ispettore, spezzando il silenzio.
– Non lo so.
C’era qualcosa che rendeva quel ritrovamento piú interessante di qualunque omicidio comune di cui si fosse occupata negli ultimi tempi. Forse era lo scenario insolito, come aveva detto Adriano, da set cinematografico; o magari si trattava di pura e semplice curiosità per uno di quei casi singolari in cui era nota per sapersi barcamenare, ma che difficilmente le capitavano sotto mano. O forse era il bisogno costante di riempire le giornate e la mente a renderla incapace di abbandonare il suo ritmo serrato anche quando le circostanze non lo rendevano necessario.
Soprattutto in quei giorni, che per lei erano i peggiori dell’anno.
– Non lo so, – ripeté. – Ma se me lo richiedi tra qualche ora… forse una risposta te la saprò dare.