6.

Vanina entrò nel suo ufficio e trovò Spanò, reduce dal pranzo, che la aspettava seduto sulla poltroncina davanti alla scrivania.

– Non può immaginare quello che riuscí a preparare mia madre in un’ora. Il ben di Dio c’era in tavola, – comunicò l’ispettore, balzando in piedi appena la vide entrare.

Vanina sorrise all’idea. Lo fece riaccomodare subito, ansiosa di sapere quello che era riuscito a cavare dalla memoria di suo padre. Piú notizie avevano e piú Fragapane e Lo Faro avrebbero potuto restringere il campo della loro ricerca. E qualcosa le diceva che, stavolta piú che mai, sarebbe stato assai piú utile all’indagine qualche pettegolezzo che centinaia di carte ufficiali.

Spanò si mise comodo sulla poltroncina, le mani intrecciate sotto la pancia moderatamente prominente, pronto a iniziare il resoconto. Ma il sorriso divertito del vicequestore, che fissava la sua camicia, lo distrasse.

– Che fu? – chiese, controllando che non ci fosse qualche macchia di sugo. Si accorse che un bottone si era slacciato lasciando intravedere il ventre villoso.

– Mi scusi, dottoressa, non me n’ero accorto! – farfugliò, paonazzo.

Vanina ci rise su, offrendogli una sigaretta per rimetterlo a suo agio.

In quel momento entrò la Bonazzoli, pronta per il sopralluogo a villa Burrano.

– Venga con noi, cosí in macchina mi ragguaglia sul suo pranzo luculliano, – disse il vicequestore, porgendo la mano a Spanò come per aiutarlo ad alzarsi dalla poltroncina. L’ispettore scattò in piedi, respingendo la provocazione.

Marta si mise alla guida di una Giulietta nera, da poco arrivata nel parco auto in seguito a uno dei sequestri piú recenti. Spanò, pur non amando fare il passeggero, non protestò. Nella classifica dei piloti prediletti dal vicequestore Guarrasi, Marta occupava il primo posto, sia su quattro ruote che su due.

– Che abbiamo saputo? – chiese Vanina.

– Capo, le dico solo che appena ci cuntai il fatto della donna ritrovata ieri sera a villa Burrano, mio padre rimase pensieroso mezzo minuto e poi sghignazzando mi fece gli auguri.

– In che senso gli auguri? – ripeté Marta, perplessa.

Il vicequestore piegò le labbra in un sorriso sardonico.

– Nel senso che quella donna può essere chiunque, Bonazzoli, – seguitò Spanò. – Gaetano Burrano era quello che allora si usava definire un uomo di mondo. Viaggiava, giocava, spendeva. Era un bell’uomo, uno dei piú ricchi possidenti di Catania, e femmine attorno ne aveva assai. Femmine… di ogni genere, non so se rendo l’idea. La sua villa di Sciara era vista dalla gente come un luogo di perdizione, in cui una donna perbene non doveva azzardarsi a mettere piede, se non si voleva giocare la reputazione.

Vanina ripensò alla risolutezza con cui la signora Burrano affermava di non aver mai abitato nella villa.

– Ma nomi suo padre non gliene ha fatti, vero? – domandò.

– No, dottoressa. Ci provò a ricordarsi qualche cosa, qualche cuttigghio sentito in famiglia. La zia di mio padre faceva la sarta, e cuciva vestiti a mezza Catania. La signora Teresa Burrano era una delle sue clienti piú affezionate. Lo sa come andavano queste cose, ai tempi: sarte, barbieri e pettinatrici erano sempre le persone meglio informate perché giravano di casa in casa. Mia zia aveva la fortuna di travagghiari per le signore della buona società. Diceva sempre che erano le piú esigenti, ma che erano macari le piú cuttigghiare. Ma chi fossero le donne che frequentava don Gaetano, quello non credo mio padre l’abbia saputo mai. O se l’ha saputo se lo scordò.

La pioggia di cenere si era interrotta di nuovo, lasciandosi dietro un paesaggio quasi lunare. I cumuli neri lungo i bordi sembravano restringere ulteriormente la strada che saliva su per le pendici della montagna, attraversando i paesi che si susseguivano uno dietro l’altro, senza soluzione di continuità. Casupole antiche, costruite con blocchi di pietra lavica, si alternavano a edifici in cemento di dubbio gusto e a qualche raro cancello monumentale che suggeriva l’ingresso di un parco. Sciara era uno degli ultimi centri abitati prima di arrivare alla strada che s’inerpicava in alto verso i crateri silvestri giungendo fino al rifugio Sapienza, il principale varco d’accesso dei catanesi alla loro Muntagna.

Alfio Burrano spostò la sedia di plastica bianca dal bordo della piscina. La posizionò in modo da trovarsi con il sole in faccia, e si sbottonò un po’ la camicia. Si sentiva a pezzi.

La sera prima, appena varcata la soglia del suo appartamento cittadino, si era avventato su un blister di Xanax ed era crollato in un sonno profondo, dal quale si era risvegliato all’alba.

La mattinata se n’era andata in un susseguirsi di camurríe, una peggio dell’altra. La prima in ordine di tempo e di fastidio, era stata la visita alla vecchia, per comunicarle di persona quanto avvenuto. Poi c’era stata la conversazione con il suo avvocato, che gli aveva sciorinato tutte le rotture di coglioni che sarebbero derivate da quel ritrovamento. Tre chiamate di Valentina rifiutate, che si erano concluse con un insulto telefonico. Poi altre due, di qualcuno che invece di insultarlo lo aveva sfinito con dieci minuti di pianto, e tanto aveva fatto che alla fine l’aveva convinto a un incontro, che l’aveva fatto stare pure peggio.

All’immagine del cadavere mummificato, di cui la sua mente non riusciva a disfarsi, si stava già abituando. Passato lo shock iniziale e dopo averne parlato per una mattina intera, l’indagine sulla sconosciuta incartapecorita nel montavivande cominciava a intrigarlo. E il fatto di esserne parte in causa non gli pareva per niente la scocciatura che il suo avvocato gli aveva prospettato. Anzi, poteva perfino diventare un’esperienza nuova, che di sicuro gli avrebbe movimentato le giornate.

E poi c’era lei: il vicequestore Guarrasi. Lo sbirro piú interessante che avesse mai incontrato.

Però forse quella di chiamarla per farle comparire il numero sul telefono non era stata un’idea grandiosa…

Chadi se ne stava ritto in piedi accanto al cancello aperto. Appena vide arrivare la Giulietta con a bordo il vicequestore e i due ispettori, spalancò i battenti per farli entrare fin dentro il cortile.

Marta parcheggiò dietro una Range Rover bianca. Modello Vogue: il top di gamma, notò Vanina scendendo dall’auto. Non era difficile immaginare a chi appartenesse.

– Hai capito il Burrano, – commentò l’ispettore Bonazzoli, sottovoce.

Burrano coprí a lunghe falcate il breve tratto che divideva il suo giardino da quel cortile lastricato. Si diresse a mano tesa verso il vicequestore Guarrasi, salutando poi l’amico Carmelo con una breve stretta e Marta con un cenno.

Visto di giorno, il maniero dei Burrano perdeva la sua immagine spettrale per mostrare in modo piú evidente lo stato di degrado in cui versava. La facciata principale e la terrazza su cui si apriva la porta d’ingresso erano invase dai rampicanti, che ormai stavano perdendo le foglie. La torre, carica di simboli, pareva un minareto piazzato a guardia di un castello maledetto. La «torre Burrano», la chiamavano tutti.

Il giardino partiva dalla terrazza e scendeva con scale e scalette fino al cancello principale, sulla piazza del paese. Dire che era incolto sarebbe stato un eufemismo.

L’ispettore Bonazzoli staccò i sigilli del portone e cedette il passo al suo collega, che insieme a Burrano andò ad aprire tutte le persiane e le vetrate. Il marmo della scala che conduceva al piano superiore era piú chiaro; gli altorilievi alle pareti e sulle volte adesso erano distinguibili, e rappresentavano soggetti arabeggianti. Sulla parete sopra la porta, era riprodotta in dimensioni reali la testa di un uomo con un narghilè.

Vanina si diresse nella cucina del ritrovamento, dove entrò da sola fermandosi un passo dopo la porta. Cercò di esaminarla con altri occhi, sulla base delle poche informazioni che aveva acquisito fino a quel momento.

Accorgersi di quell’apertura quando c’era la credenza davanti era pressoché impossibile. Se poi la casa era stata chiusa subito dopo il fattaccio, a chi mai sarebbe venuto in mente di andare a spostare il mobile, aprire la porta e trovare lí un possibile nascondiglio? Vero era che nel corso del tempo la casa aveva subito vari furti, com’era pure vero, però, che nessun ladro avrebbe mai lasciato lí una cassetta di sicurezza e una borsetta piena di gioielli.

Chiese a Burrano di mostrarle le stanze private di suo zio. Una camera da letto che poteva sembrare vissuta fino al giorno prima, se non fosse stato per la polvere pluristratificata. Su uno dei due comodini c’era persino una tazza da tè, appoggiata sul suo piattino. Sull’altro, un posacenere. Vanina aprí le ante: entrambe contenevano un vaso da notte. Non sembrava un letto usato da una persona sola. Sulla toletta erano appoggiati, in modo disordinato, una spazzola e un pettine col manico d’osso. Il cassettino di sotto era mezzo vuoto, ma le due forcine e il rossetto consumato che albergavano lí dentro da mezzo secolo non potevano certo essere appartenuti a Gaetano Burrano.

Nel salottino accanto, un tavolo rotondo era apparecchiato per colazione. Due piatti, due tazzine da caffè, ma una sola tazza da tè. Vanina tornò indietro ed esaminò il decoro della tazza sul comodino, identico a quello del servizio sul tavolo.

Burrano la scosse dalla sua meditazione.

– Qualcosa non le quadra, dottoressa?

– Non lo so, – gli rispose. Si avviò verso la porta, passandogli davanti.

Piú si saliva in cima della torre, e piú gli ambienti diventavano spogli e malmessi.

Burrano raccontò minuziosamente la storia di un architetto che suo nonno, nel lontano 1916, aveva mandato in Africa in cerca d’ispirazione, per ristrutturare un vecchio rudere e trasformarlo in un castello. La torre doveva rappresentare davvero una sorta di minareto.

Quando raggiunsero la terrazza, indicò una struttura di tubi che si arrampicava lungo le pareti e terminava con degli ugelli, sparsi uno su ogni merlatura.

– Questo marchingegno dà un’idea della follia di mio nonno, – disse Burrano, compiaciuto. – Siccome aveva proprietà da tutte le parti, qua intorno e anche piú lontano, aveva preteso che questa torre fosse illuminata in modo tale che lui potesse scorgerla da tutte le sue campagne. Perciò aveva fatto costruire un impianto a ossiacetilene, che saliva lungo quelle tubature incendiando gli ugelli, e raggiungeva pure ogni singolo lampadario della casa. Se guardate bene, sui lampadari ci sono ancora le valvole. Mio zio deve averle conservate anche dopo aver convertito l’impianto con la luce elettrica.

La terrazza guardava l’orizzonte a 360 gradi: la città, il golfo di Catania fino ad Augusta, l’Etna fumante. Vanina rifletté che la proprietà dei Burrano lí a Sciara doveva estendersi per parecchi ettari, perché al capostipite venisse in mente un progetto cosí grandioso.

Alfio Burrano le si avvicinò, indicando il giardino pubblico del paese. – Vede il giardino comunale, dottoressa? Quello, ancora ai tempi di mio zio, faceva parte del parco della villa. E anche la piazzetta qui dietro. Qui intorno era tutta campagna.

– E che successe? – chiese Vanina, indicando la distesa di tetti che attorniava la villa.

– Successe che il verde diventò terreno edificabile, e mia zia ci guadagnò un sacco di soldi –. Una risposta sprezzante, accompagnata da una smorfia contrariata.

Una volta ridiscesi al piano delle stanze private, Vanina rientrò nella camera da letto portandosi dietro Spanò e Marta.

– Spanò, recuperi spazzola e pettine e contenuto del cassetto. E li porti alla Scientifica. Se ci sono tracce, anche minime, di materiale analizzabile, compariamo il Dna con quello della mummia.

– Credi che la donna del montacarichi possa aver dormito in questa stanza? – chiese Marta, mentre l’ispettore capo tirava fuori due sacchetti di cellophane che teneva sempre pronti in tasca e s’infilava un guanto.

– Non lo so. È un’ipotesi. E siccome è sempre piú evidente che in questo caso ipotesi verificabili non ne abbiamo molte, cerchiamo di sfruttare al massimo tutto quello che troviamo.

– Non sarebbe meglio mandare qui di nuovo quelli della Scientifica e far fare il lavoro direttamente a loro? – propose Marta, sempre fautrice delle procedure piú corrette.

– Sí, cosí ci freghiamo come minimo altri due giorni! Lascia stare, qualunque cosa sia successa qui dentro è passato talmente tanto tempo che prove inquinabili non ce ne sono piú. Quella spazzola è l’unico oggetto utile, dài retta a me. Anzi, appena usciamo di qui, accompagni me e Spanò in ufficio e la porti subito agli uomini di Manenti.

Prima di andare via, il vicequestore chiese espressamente a Burrano di condurla nella stanza in cui era stato ucciso suo zio. L’uomo fece strada fino alla sala da pranzo in cui si erano seduti la sera prima. Da lí, attraverso una porta chiusa a chiave, si accedeva alla stanza incriminata.

– Lo sa, dottoressa, di solito quando porto qualcuno a visitare questa parte della villa evito di entrare qui. Perché, devo essere sincero, mi fa un poco impressione, – disse Burrano, dopo aver spalancato la finestra.

– Non si preoccupi, non c’è motivo che lei resti qui. Volevo solo dare un’occhiata.

Era una sorta di studio-biblioteca, con un camino monumentale, boiserie in legno e qualche libreria non del tutto piena. Qua e là qualche poltroncina di stoffa operata, e alle pareti il solito stile tra il florale e il moresco, con colori piú decisi. Un solo angolo sembrava spoglio, come se mancasse qualcosa.

Vanina si avvicinò allo scrittoio al centro della stanza, ancora occupato da libri e scartoffie varie. Un posacenere vuoto, un calamaio con tanto di penna. Una tazzina da caffè sul bordo laterale.

Non sapeva neppure cosa cercare. Il cavaliere Burrano era stato ammazzato proprio lí. Poche stanze piú in là, a cinquantasette anni di distanza, il cadavere di una delle sue amanti saltava fuori da quella sepoltura orrenda. Non poteva non esserci un nesso.

Prima di uscire, scattò qualche fotografia, da varie prospettive. Probabilmente non le avrebbe mai guardate, ma non si sa mai, si disse.

Alfio Burrano se ne stava discretamente in disparte, in attesa che il vicequestore terminasse quell’ultimo sopralluogo aggiuntivo.

– Posso chiederle una curiosità, dottoressa?

– Certo.

– In casi come questi da dove si comincia?

Bella domanda!

– Dall’inizio, dottor Burrano, – gli rispose, criptica. Ancora una volta aveva la sensazione che l’atteggiamento dell’uomo tendesse a virare verso il confidenziale, cosa che non intendeva permettere. Non mentre era in servizio, perlomeno.

Burrano le fece strada verso l’uscita, dove i due ispettori la aspettavano.

Mentre Marta combatteva con il portone tentando di chiudere i battenti per rimettere a posto i sigilli, Vanina provò a immaginare il percorso ipotetico che qualcuno avrebbe dovuto compiere nell’atto di trasportare un cadavere all’interno di quella casa. L’entrata principale era posta proprio nella zona piú aperta del terrazzamento che correva tutto intorno alla villa, visibile persino dalla piazza. Tra scalette esterne, portone monumentale e scala interna, l’ipotetico assassino non avrebbe potuto scegliere luogo piú impervio in cui decidere di occultare un cadavere.

– A quella poveretta l’ammazzarono direttamente dentro casa, – decretò.

I due ispettori girarono simultaneamente lo sguardo in direzione del giardino scosceso, poi verso la facciata della villa.

– Certo che è incredibile, dottoressa, – osservò Spanò, rigirando tra le mani i reperti, – al giorno d’oggi, in presenza di un omicidio, questi oggetti sarebbero stati analizzati dentro e fuori. Invece i colleghi di allora li lasciarono là.

– Era il 1959, Spanò. E il caso Burrano, a quanto ho capito, grandi supplementi d’indagine non ne richiese. Fu risolto in pochi giorni. Però sarebbe utile recuperare gli oggetti che all’epoca furono repertati sulla scena del delitto.

– Nel fascicolo che ha trovato Fragapane dovrebbero esserci le foto, – suggerí Marta.

Era noto a tutti che il vicequestore non amava lavorare sulle fotografie. Il motivo ufficiale era che non riusciva a concentrarsi sui dettagli, ma la verità, e questo Marta e Spanò erano gli unici a saperlo, era che la Guarrasi si fidava solo di sé stessa. Era convinta che ci fosse sempre qualcosa, un particolare in piú, che lei avrebbe notato e che al videofotosegnalatore invece era sfuggito. E in genere ci azzeccava.

Burrano uscí dalla villa insieme a loro.

– Dottoressa Guarrasi, se dovesse aver bisogno di me, io sono a sua completa disposizione, – dichiarò, con un piede già a bordo del suv multiaccessoriato.

– Grazie, dottor Burrano, ma temo che la sua età non rientri nel range delle persone informate sui fatti –. Lui annuí e sorrise, salutandola con un cenno della mano prima di partire in accelerata col tunisino seduto accanto.

L’agente Lo Faro ci aveva messo un po’ a focalizzare il tipo di ricerca di cui il vicequestore aveva bisogno, ma adesso che aveva ingranato andava come un treno. Aveva già tirato fuori dal database sette denunce di scomparsa i cui requisiti coincidevano con quello che serviva alla Guarrasi, e si accingeva a sottoporne altre due all’attenzione del collega piú anziano.

Fragapane era bravo a lavorare sulla carta stampata, ma coi computer non aveva un buon rapporto. Tutte le schede che Lo Faro trovava, lui se le faceva stampare e solo dopo iniziava ad analizzarne il contenuto. Questo naturalmente lo rallentava, ma era di vitale importanza per l’esattezza dell’indagine. Anche perché, di poliziotti dotati del suo acume nello scovare indizi nascosti tra le carte, a Catania ce n’erano pochi, e siccome valeva tanto oro quanto pesava, cosí era e cosí se lo tenevano.

Il vicequestore Guarrasi e l’ispettore Spanò ricomparvero quando di quelle prime sette segnalazioni Fragapane aveva già acquisito tutte le informazioni principali.

– Perciò, – cominciò il vicesovrintendente, leccandosi la punta dell’indice per sfogliare il quadernetto che si era fatto pinzettando i fogli che Lo Faro aveva stampato. – Per ora donne giovani scomparse a Catania in quegli anni ne trovammo solo sette, piú due che Lo Faro mi sta stampando.

Vanina e Spanò avrebbero accorciato volentieri i tempi scorrendo le informazioni sul monitor del computer, ma entrambi evitarono di farlo notare.

– Partiamo dalle denunce del ’59: sono quattro. Due sono datate nei giorni intorno alla festa di Sant’Agata –. L’omicidio di Burrano era avvenuto proprio il 5 febbraio, il giorno della patrona.

– Due su quattro? – chiese il vicequestore, incredula, sedendosi sulla scrivania con una gamba, a braccia conserte.

– Sí, capo. D’altra parte, la festa di Sant’Agata è il giorno in cui tutti i catanesi escono di casa e rientrano all’alba. Nella confusione di quella nottata qualche minchiata ci scappa sempre, e noi lo sappiamo bene.

Spanò prese i fogli dalle mani del vicesovrintendente, diede una rapida occhiata e glieli riconsegnò con un’espressione rassegnata che ne preannunciava la scarsa utilità.

Fragapane proseguí, diligente. – Nunziata Cimmino, ventitre anni, nubile. Scomparsa la sera del 4 febbraio e mai ritrovata. La denuncia la fece il padre. Indagarono macari i carabinieri. Faceva la panettiera in via Plebiscito –. Mostrò la fotografia. Una sempliciotta, dal viso paffuto. – Poi abbiamo Teresa Gugliotta, ventisette anni, maritata con un professore di musica al conservatorio. Fu lui a sporgere denuncia. Scomparsa il 5 febbraio. Qualcuno disse di averla vista salire su un treno, ma non si ebbe mai nessun riscontro. A quanto pare era una fimmina un poco chiacchierata.

– Troppo scialba, – decretò Spanò, esaminando la camicetta accollata e chiusa da un cammeo. A tutto faceva pensare tranne che all’eleganza vistosa della mummia.

Vanina ebbe la sensazione che la nebbia attorno a quel caso aumentasse di parola in parola, come quella tempesta di sabbia vulcanica che avvolgeva tutto e non accennava a smettere.

Dietro la porta socchiusa, intravide Macchia che salutava qualcuno con la mano già sulla maniglia, pronto a entrare. Un attimo dopo il capo della Mobile invase con la sua figura massiccia l’ufficio del vicequestore Guarrasi, informandosi sulle novità.

– E la Bonazzoli, dove l’avete persa?

– Alla Scientifica, a consegnare a Manenti gli oggetti trovati a villa Burrano.

Assicuratosi che Vanina non intendeva scendere dalla scrivania, Macchia si accomodò sulla poltrona del vicequestore e fece cenno a Fragapane di proseguire col rapporto.

Lo Faro portò le altre due schede stampate. Risalivano al ’60 e al ’61. Appena vide il primo dirigente seduto al posto della Guarrasi non si schiodò piú dall’ufficio, pronto a mettersi in mostra alla prima occasione.

Tra tutte e nove le donne scomparse, solo una si avvicinava un minimo all’idea che l’abbigliamento e gli oggetti del ritrovamento avevano dato di quel cadavere mummificato. Vera Di Bella, nata Vinciguerra, trent’anni, sposata con un avvocato che Spanò ricordava molto in vista. Denuncia sporta dal marito nell’aprile del ’59. Da una nota si evinceva che fosse una donna chiacchierata.

Vanina osservò il foglio e la fotografia con attenzione, come se quel documento vetusto e quella foto sbiadita potessero fornirle un dettaglio qualunque da associare alla donna mummificata.

– Ecco, questa secondo me potrebbe essere, – commentò Macchia, dondolandosi sulla poltrona che sotto il suo peso cigolava a ogni movimento.

Il vicequestore annuí, scendendo dal tavolo.

– Spanò, cerchiamo di capire qualcosa di questa Vinciguerra. Rintracciamo qualcuno della famiglia, possibilmente qualcuno che possa ricordare quel periodo. Il marito che denunciò la scomparsa, per esempio. Se è ancora vivo, domani mattina convocatelo.

– Io te l’ho detto, Guarra’: ogni testimone che cercherai in questa storia, dovrai prima augurarti che sia ancora vivo, e in grado di fornirti qualche notizia, – chiosò il capo della Mobile, cedendole il posto. – Come ti muoverai?

– Questa Vinciguerra sembrerebbe la piú papabile, sebbene sia scomparsa piú di due mesi dopo la morte di Burrano. Le altre denunce ce le teniamo di lato. Nel frattempo rintracceremo Masino Di Stefano, l’amministratore assassino. Sempre che sia ancora in buona salute, pure lui. Se quelli della Scientifica riescono ad analizzare le tracce che gli abbiamo dato e a compararle con il cadavere, e se viene fuori che coincidono, lo convochiamo.

– Tu sei proprio convinta che ’sta storia c’entri con l’omicidio di Burrano.

– Mi pare come minimo una coincidenza. E siccome le coincidenze puzzano sempre…

– Ci hai pensato che potrebbe averla ammazzata lui?

– Certo che ci ho pensato.

– E che se fosse cosí sarebbe praticamente impossibile da provare?

– Sí.

– L’importante è che ne sei consapevole, – concluse, con un buffetto sulla mano, prima di rivolgere un saluto generico a tutti. Nell’uscire dall’ufficio, si ritrovò tra le braccia l’ispettore Bonazzoli che stava entrando a passo spedito, gli occhi su un foglio di carta.

Il colorito di Marta virò verso il paonazzo.

– Tutto bene, ispettore?

– Sí, grazie, dottore.

Macchia la guardò con un sorriso indulgente che raddoppiò il suo imbarazzo.

– Allora? Hai dato tutto a Manenti? – chiese Vanina, venendole in aiuto.

Il Grande Capo batté in ritirata, con Lo Faro sbavante alle calcagna.

– Sí, – rispose l’ispettore, accomodandosi sulla sedia che Spanò le cedette.

– Che ha detto?

– Ha detto che solo dei pazzi possono prendere tanto sul serio un caso simile.

– E?

– E che i pazzi vanno assecondati. Dunque ci lavorerà. Il tempo che ci vuole, ha precisato, perché le tracce sono vecchie e deteriorate. E poi dirà se ha trovato qualcosa da analizzare.

– Qualcosa da analizzare lo troverà, lo stronzo. Nella spazzola c’erano dei capelli. Fragapane, per cortesia, mi chiami Nunnari. E già che c’è vada a ripescare Lo Faro, prima che Macchia lo butti fuori a calci dal suo ufficio.

Il vicesovrintendente si fece una risata e uscí dalla stanza. Spanò sghignazzò sotto i baffi.

– Perché? Secondo te è nell’ufficio di Macchia? – chiese Marta.

– Sicuro come la morte, a leccare tutto il leccabile.

Fragapane ricomparve seguito dal sovrintendente e da Lo Faro, che pareva affannato. Vanina sorrise tra sé e sé immaginando la veemenza con cui il vicesovrintendente doveva averlo richiamato.

– Lo Faro, dovevi andare in bagno? – gli chiese.

– No, io credevo…

– Cosa di preciso?

– Che avessimo finito…

– Ma finito cosa? – alzò la voce. – Allora, meglio che ti chiarisca un paio di punti. Primo: quando c’è di mezzo un cadavere, che sia nuovo o vecchio, l’unico momento in cui puoi dire di aver finito è quando hai trovato l’assassino e l’hai sbattuto dentro, sempre che nel frattempo non succeda altro, perché in quel caso la parola fine te la puoi congelare per chissà quanto. Secondo: se sei nel mio ufficio, ad ascoltare i miei uomini che discutono con me di un’indagine in cui io ti ho coinvolto, fosse anche solo per riordinare le carte, tu non esci dalla porta finché io non ti dico che puoi farlo. Terzo: sappi che conosco una sola persona che odia i lecchini piú di me, ed è Tito Macchia. Perciò ti consiglio di tirare le somme, se non vuoi rischiare di rimanere in un ufficio a impilare fascicoli.

L’agente rimase imbambolato al centro della stanza, atterrito da quella minaccia. Cercò l’appoggio dei colleghi, ma incrociò solo lo sguardo pietoso dell’ispettore Bonazzoli.

Vanina abbassò il tono.

– E questo è quanto. Ora te ne puoi andare.

– Non… mi coinvolgerà piú? – chiese il ragazzo, con un’aria costernata che strappò un sorriso a Spanò e rabboní il vicequestore.

– Tu stai al posto tuo, fai il tuo lavoro e fallo bene. E vedrai che ti coinvolgerò.

Sulla porta Lo Faro si voltò impacciato.

– Scusi, dottoressa, per quanto riguarda l’agendina telefonica…

Vanina cadde dalle nuvole. Aveva completamente dimenticato il compito che aveva dato all’agente. Forse perché immaginava già di non poterci cavare granché.

– Ah, certo, l’agendina. E allora?

– Ecco, sto cercando di contattare qualcuno dell’archivio storico della Telecom, perché probabilmente i numeri che hanno loro archiviati partono da anni successivi. Nel ’59 in Sicilia i telefoni erano gestiti dalla… – controllò un foglietto: – Set.

Aveva studiato. Ma era improbabile che si potesse recuperare qualche informazione.

– Bravo. Vedi se riesci a ottenere qualcosa.

Se ne andò rinfrancato.

– Nunnari, fai una cosa –. Il sovrintendente si mise in atteggiamento da «signorsí, signore». – Cerca di capire che fine ha fatto Tommaso Di Stefano, l’uomo che ammazzò Gaetano Burrano. Scopri se è ancora vivo, se è capace di intendere e di volere, dove abita e che fa. Se il cadavere risulta quello di qualcuno che viveva con Burrano, Di Stefano potrebbe avere parecchie cose da dirci.

– Agli ordini, capo.

Congedò tutti e si lasciò andare sulla poltrona cigolante.

– Un pomeriggio persi col tuo cadavere mummificato. Ora ora ho finito, – rispose Adriano Calí.

– E che aspettavi a chiamarmi?

– Di levarmi il camice lurdo e di uscire da quel frigorifero di sala settoria. Per evitare che il cadavere si liquefacesse abbiamo lavorato a temperature polari.

– Che mi dici?

– Senti, Luca è tornato oggi e mi sta aspettando in piazza Europa con qualche amico. C’è pure Giuli. Facciamo una cosa: tu mi vieni a prendere, mi accompagni lí, cosí lungo la strada io ti conto tutto. E poi resti a pigliarti un aperitivo con noi, e ti svaghi un poco i pensieri.

– Tu sei un paraculo. Chi te l’ha imbeccata quest’idea? Giuli?

– Ma quale imbeccata! Che sono tipo da farsi imbeccare io? Allora? Ti aspetto qua o mi faccio dare uno strappo dal tecnico di sala?

– E aspettami là. Ma scordati che mi fermo per l’aperitivo.

Adriano se ne stava già pronto di vedetta all’uscita posteriore dell’ospedale Garibaldi. Impermeabile blu attillato, borsa a tracolla, auricolare bluetooth all’orecchio destro. A vederlo cosí, con quel sorriso a trentadue denti, tutto pareva tranne che venisse da un pomeriggio di esami necroscopici.

– Eccomi qui, cara, alla tua mercé.

Si accesero una sigaretta e abbassarono i finestrini.

– Perciò, – sollecitò Vanina.

– E che ti devo dire. Questa secondo me è morta veramente da cinquant’anni. Quando l’ho spogliata ho guardato le etichette dei vestiti e della pelliccia, per quello che si riusciva a leggere. Ho intravisto nomi di sartorie che non esistono piú da… che ne so? Quarant’anni, o anche di piú. Non ho trovato ferite né da taglio né d’arma da fuoco. E non ho trovato proiettili. Se è morta strangolata o avvelenata purtroppo ormai non è piú possibile determinarlo, ma alla fine non penso che ti interessi granché.

– Qualche segno particolare? Fratture, denti d’oro, cose del genere?

– Niente. Aveva una dentatura perfetta.

Vanina aspirò una boccata di fumo e lo buttò fuori dal finestrino. Tamburellò con le dita sul volante, taciturna.

– Te l’avevo detto che stavolta non ti sarei stato d’aiuto.

– Senti, Adri, te li ricordi i nomi delle sartorie che hai letto sulle etichette?

– Quella della pelliccia sí: Tramontana. Le altre non si leggevano bene. Comunque ce le ha tutte la Scientifica. Capace che con qualche magheggio riescono a renderle leggibili.

– Che tu sappia era una pellicceria famosa? Elegante?

– La migliore di Catania, a quell’epoca. Ma ha chiuso che ancora tu e io manco eravamo nati.

– E allora come fai a saperlo?

– Gioia, non ti scordare che sono cresciuto con una squadra di donne da fare paura: mamma, nonna e tre zie. Tutte impellicciate –. Sghignazzò, aspirando l’ultimo pezzetto di sigaretta. – Che dici, sarà per questo che sono gay?

Vanina gli rispose con una risata. Le persone capaci di rallegrarla si potevano contare sulla punta delle dita. Adriano Calí era una di quelle.

I negozi di corso Italia erano ancora aperti, e in piazza Europa non c’era un posto manco a pagarlo oro. Vanina afferrò al volo la scusa per non fermarsi. Anzi, con un po’ di fortuna sarebbe persino riuscita a uscire dalla città prima delle otto, evitando la fila allo svincolo per i paesi etnei.

Giuli ci sarebbe rimasta male, ma a lei di passare mezza serata ad apprendere tutte le novità della società catanese e curtigghi connessi non andava proprio per niente.

Vanina oltrepassò il paese e proseguí fino a Viagrande. Con un po’ di fortuna avrebbe trovato la sua gastronomia preferita ancora aperta. Parcheggiò davanti al giardino pubblico e scese in fretta dalla macchina, fiondandosi nella bottega. Ceste straripanti di confezioni, scansie piene di bottiglie di vino e generi alimentari accuratamente selezionati e presentati da cartelli con scritte folcloristiche. Al centro della stanza, enorme, il bancone circolare che conteneva salumeria, macelleria, chili di pane e una distesa di frutta secca di ogni genere.

Sebastiano l’accolse con un accenno di scappellamento che gli fece oscillare il berretto da cuoco in testa. La bottega apparteneva alla sua famiglia da quasi un secolo, nel corso del quale, anche grazie alla sua abilità, era diventata il punto di riferimento di ogni intenditore.

– Buonasera, Sebi –. Fece in tempo a salutare, prima che quello le allungasse da dietro il bancone un grissino al sesamo con avvolta una fetta di prosciutto crudo.

– Assaggiassi ’stu gambuccio di Parma, che si scioglie in bocca.

Con un vago senso di colpa, Vanina accettò in due minuti tre assaggi diversi, tutti da standing ovation. Il prosciutto, poi un salame di maialino nero dei Nebrodi e per finire un pezzetto di caciocavallo ragusano stagionato nel Nero d’Avola.

Era inutile prendersi in giro: la dieta non era cosa sua.

Si portò a casa un etto di crudo, una mozzarella di bufala proveniente dagli allevamenti ragusani, che arrivava solo due volte alla settimana, e mezza forma di «cucciddato di San Giovanni», un pane casereccio a forma di ciambella cotto nel forno a pietra, arrivato con l’ultima sfornata della sera e ancora tiepido.

Passando davanti alla portafinestra di Bettina vide la luce accesa nel salotto buono, segno che era serata di burraco. Fece per tirare dritto ma la luce che si accese automaticamente al suo passaggio attirò l’attenzione della vicina che si affacciò da una finestra, a un metro da terra.

– Vannina! E che fa, non si bussa piú?

– Buonasera, Bettina. Ho visto che c’era gente e non volevo disturbare.

– Ma quale disturbare! Trasisse, che finalmente le presento le amiche mie. Ora ora se ne stavano andando –. Richiuse la vetrata ritirandosi prima ancora che Vanina potesse declinare l’invito. Comparve alla portafinestra seguita dalle tre vedove incipriate con cui si spartiva il sonno, e di cui il vicequestore ormai conosceva vita, morte e miracoli per interposta persona. Una di loro, Luisa, aveva vissuto a Palermo per molti anni, insieme al marito ormai defunto.

Mentre schivava l’assalto delle donne le venne in mente che, vista l’età, potevano esserle d’aiuto per acquisire qualche notizia utile all’indagine.

– Posso chiedervi un’informazione, signore?

Le quattro smisero di parlare e si fecero attente. Vedi tu che con un colpo di fortuna stavano diventando nientedimeno che confidenti di un vicequestore?

– Qualcuna di voi ha mai comprato una pelliccia da Tramontana?

Bettina e un’altra, Ida, alzarono la mano simultaneamente, come a scuola.

– Mio marito, bonarma, una passione aveva per le pellicce! – spiegò la vicina, nostalgica.

– Ed era un posto caro?

Le donne si guardarono tra loro.

– Caro, certo, una pellicceria era. Una pellicceria buona. Ai tempi nostri o avevi i soldi oppure in certi negozi manco ti veniva per testa di entrarci.

La curiosità si leggeva in faccia alle quattro donne, che ora avrebbero voluto sapere il perché di quella domanda, ma Vanina non chiese altro.

Prima di infilare la porta, Luisa si soffermò un momento, allungando una mano per stringere la sua, senza piú lasciarla.

– Un vero onore è stato conoscerla, dottoressa Guarrasi. Figlia di suo padre è, non c’è che dire. Mio marito lo conosceva bene. Sa… commercianti eravamo. Me lo ricordo come se fosse ieri quando… Un eroe era, l’ispettore. Fare quello che faceva, a Palermo, in quegli anni disgraziati… – Girò gli occhi sulle amiche, come per spiegare. Due sguardi perplessi e costernati, e uno preoccupato, quello di Bettina, si posarono sul vicequestore Guarrasi.

Vanina annuí lentamente, spiazzata. Avvertí un urto al petto, come ogni volta che qualcuno nominava suo padre. Ricomparve il dolore sordo del giorno prima. La data fatidica che ogni anno segnava il tempo trascorso da quella mattina infame.

Il monitor si accese, rimandando a Bettina l’immagine di due ragazzini sorridenti davanti ai faraglioni di Aci Trezza. Mandò un bacio immaginario a quei due diavoli, che non vedeva da piú di un mese. Meno male che avevano inventato i computer, e Skype, e Facebook, e tutte quelle diavolerie che una della sua età, a rigor di logica, non doveva essere in grado di utilizzare. Ma il sangue è sangue, e prevale su tutto, anche sulla naturale incompatibilità tra la testa di un’ultrasettantenne e la tecnologia moderna.

Cliccò sull’icona Mozilla Firefox, perché suo nipote Piero le aveva spiegato che era «la connessione piú sicura» e si prendevano meno virus. Che poi come poteva essere mai che una macchina si pigliasse un virus ancora Bettina non l’aveva capito. Quando comparve la scritta colorata con la striscia sotto, digitò lettera per lettera, con il dito indice e sbagliando un paio di volte: «ispettore Guarrasi Palermo». Aprí la prima voce correlata. Incollata allo schermo, gli occhiali premuti sul naso, lesse d’un fiato la pagina dedicata a quell’uomo di cui quella sera aveva sentito parlare per la prima volta. Si tirò indietro lentamente e si appoggiò allo schienale, maledicendo la curiosità che l’aveva spinta a scoprire quello che la sua inquilina prediletta non si era mai sentita di raccontarle. Ora aveva capito. Tutte cose.

Vanina si voltò verso il citofono, come se quel marchingegno dotato di videocamera, che si era fatta installare appena preso possesso dell’appartamento, potesse rispondere a distanza alla domanda che il suo sguardo perplesso gli stava ponendo. Fermò il film e si alzò faticosamente dal divano, quello grigio che si era portata appresso anche a Milano.

Maria Giulia De Rosa guardava il videocitofono con aria irrequieta.

– Mi apri o devo restare qui a fissare la luce della telecamera?

– Già finito l’aperitivo? – la accolse, sulla porta.

– Le dieci sono.

– In tua compagnia ho partecipato ad aperitivi eterni. Altro che le dieci!

Giuli le consegnò una vaschetta di gelato incartata. Nocciola e cioccolato, dichiarò. Aveva la faccia scura delle serate storte.

– Che fu? – s’informò Vanina.

– Niente, fu. A parte il fatto che mi hai lasciata da sola con Adriano e Luca.

– Ma non c’erano anche altre persone?

– Ininfluenti. Le conoscevo appena.

Vanina tirò fuori bicchieri e cucchiaini.

– Non me la sentivo, scusami. È stata una giornata pesante.

– Se sei a casa significa che morti ammazzati freschi non ce ne sono. Ti ho trascinata in giro in serate molto piú incasinate di questa, perciò non mi prendere per fessa.

Giuli si sedette sul divano, davanti allo schermo da 42 pollici bloccato su un fotogramma in bianco e nero.

– Vedo che ti stavi divertendo con una delle tue pellicole fossili. Chi è questo belloccio con la sigaretta in bocca?

– È Gabriele Ferzetti: uno degli attori piú affascinanti del cinema italiano. La pellicola fossile è L’avventura, sai Michelangelo Antonioni? – ironizzò Vanina.

Era una delle scene ambientate a Taormina, all’hotel San Domenico, dove il film si conclude. Lei e Adriano non passavano mai da lí senza farsi un giro dentro l’albergo e fermarsi a bere qualcosa nell’antico refettorio, dove proprio quel fotogramma era stato girato.

Si sedette accanto a Giuli, porgendole il bicchiere col gelato.

– Hai lasciato la movida catanese solo per venire a mangiare un poco di gelato con me e criticare i miei gusti cinematografici, o c’è cosa? – la spronò.

– E tu? Ti sei rintanata in casa solo per ripassare le battute dei tuoi film preferiti, o c’è cosa?

Vanina si spazientí.

– Giuli, finiscila. Sono contenta che tu sia venuta a trovarmi, però ’sta faccia lagnusa non è da te. Perciò, visto che sei qui, approfitta e parla.

Maria Giulia De Rosa era una pragmatica, che non si piangeva addosso. Un avvocato matrimonialista, rotale per giunta; in mezzo alle tragedie familiari e ai drammi di coppia ci pasceva, e pertanto se ne dichiarava immune. Talmente immune che finora nessun uomo, diceva lei, aveva mai soddisfatto i parametri essenziali per una pacifica convivenza. Vanina Guarrasi, vai a capire perché, era l’unica persona con cui l’avvocato, di tanto in tanto, abbassava la maschera.

– Stasera Luca era piú figo del solito.

Luca Zammataro, giornalista impegnato, inviato di guerra, corrispondente dall’estero per una testata nazionale. L’uomo piú attraente e imperscrutabile di Catania, nonché, per la disperazione di Giuli e di molte altre, dichiaratamente gay e accasato da piú di dieci anni con Adriano Calí. L’unico uomo per cui l’avvocato De Rosa avrebbe azzerato i parametri e commesso qualunque follia.

Quella della serata passata a soffrire al cospetto di quella coppia, che piú affiatata non poteva essere, era una solfa che Vanina si sentiva scodellare a fasi alterne da circa undici mesi.

Affondò il cucchiaino nel gelato, ignorando la voce ammonitrice della sua coscienza. Dopo quei due giorni, dopo Palermo, dopo le parole della signora Luisa, un carico di zuccheri era l’unica alternativa a un assai piú dannoso pacchetto di sigarette.

– Mangia, e non ci pensare, che è meglio, – suggerí.

– È arrivato con i capelli ancora bagnati, la barba che odorava di quel profumo…

– Giuli, cerca di finirla.

– Hai ragione. Comunque non sono venuta per questo. E non è neppure il motivo per cui stasera avevo cercato di stanarti. Sono tre giorni che non rispondi a nessuno. Ieri sei stata a Palermo senza dire niente. Non me la conti giusta.

Il fatto era che, vai a capire perché anche in questo caso, la confidenza che si era instaurata tra Maria Giulia De Rosa e Vanina Guarrasi era reciproca. L’avvocato era una dei pochissimi eletti cui il vicequestore aveva raccontato la ristretta porzione di fatti suoi di cui riusciva a tollerare il ricordo.

– C’era la commemorazione.

Maria Giulia si liberò del bicchiere e avvicinò la mano congelata al suo viso. Si girò verso la mensola sopra il televisore, guardando di sfuggita la fotografia incorniciata che troneggiava sola, nell’unico spazio non occupato da videocassette o dvd.

– Venticinque anni, vero?

Vanina annuí, alzandosi in piedi, lo sguardo fisso sulla foto. Si avvicinò lentamente, occhi negli occhi con l’ispettore Giovanni Guarrasi che pareva ammiccare da sotto il cappello d’ordinanza. Che fu, nica di papà? Dimmelo a me che ci penso io.

Sigaretta in bocca, sorriso storto. Gli occhi grigi che non si abbassavano mai davanti a niente e a nessuno. Che bello che sei, papà.

E lui avrebbe riso.

Gliel’aveva detto anche quel giorno, che era bello. E lui aveva riso.

Avrebbe dovuto essere quella risata, l’ultimo ricordo di suo padre. Il suo abbraccio stretto davanti all’entrata del liceo Garibaldi. Ora vai, prima che i tuoi compagni ci vedono e ti prendono in giro per i prossimi cinque anni.

Avrebbe dovuto obbedire e salutarlo lí. Oltrepassare la cancellata, salire i gradini, raggiungere la nuova classe e restarci. Se l’avesse fatto, l’ultimo ricordo che avrebbe conservato di suo padre sarebbe stato quello giusto.

Ma non era andata cosí. Forse perché sapeva che era stata un’occasione eccezionale, il suo primo giorno nella scuola che lui riteneva la piú importante della vita, e che difficilmente sarebbe ricapitato di vederlo lí davanti alla cancellata; forse perché di quello che pensavano gli altri a lei non importava nulla e ci teneva a dirglielo; o forse trascinata da un’inconscia premonizione, Vanina era tornata indietro. Aveva attraversato il portone controcorrente, schivando il bidello che l’avvertiva del suono della campanella, e s’era fermata sul gradino piú alto, girando gli occhi sulla strada. Suo padre era ancora lí che si accendeva una sigaretta sul marciapiede opposto alla scuola, la portiera della Uno già aperta.

Le bastavano due minuti. Sette gradini, un altro bacio, un altro abbraccio e poi via, a compiere il suo dovere, come lui le aveva insegnato.

Due minuti. Ma non li aveva avuti.

Erano arrivate contromano dal Giardino Inglese. Due moto, quattro caschi che puntavano dritti verso l’auto dell’ispettore Guarrasi. Poi gli spari. Tanti. Che parevano non finire mai. Un insulto urlato e una manciata di banconote buttate per terra, vicino al volto insanguinato, in segno di sfregio nei confronti di un uomo che da solo credeva di poter sfidare il loro mondo. «Te’ cca, piezz’i mieirda, accussí ’a finisci».

Il rombo dei motori che fuggivano indisturbati. Impuniti.

Se solo non fosse stata cosí indifesa, se solo avesse potuto, se solo avesse avuto un’arma in mano… li avrebbe ammazzati lei. Tutti, senza pietà. L’aveva giurato a sé stessa, che mai piú si sarebbe fatta trovare impreparata, mai piú avrebbe assistito impotente. Sotto di lei dovevano passare, quei bastardi fitusi. Uno per uno.

L’aveva giurato, e l’aveva fatto.