– Eccola qua: Cutò Rita, nata a Catania il 26 novembre del… Minchia! Del 1956, – esclamò l’ispettore Spanò.
La Bonazzoli avvicinò il foglio che Fragapane si era fatto stampare, e lo rilesse. Non c’erano dubbi: quando Maria Cutò era scomparsa, quella Rita aveva sí e no tre anni. Non ci voleva un intuito particolarmente raffinato per capire chi potesse essere.
– Qua la cosa diventa sempre piú nebulosa. Non è che per dare troppo conto al commissario Patanè ci stiamo imbrogliando in una storia che con la nostra morta non ci trase proprio per niente? – disse Fragapane, con aria allarmata. Al vecchio commissario lui era affezionatissimo, e mai avrebbe messo in dubbio una sua intuizione. Ma era pure vero che Patanè aveva ottantatre anni suonati, e la sua memoria poteva non essere piú tanto attendibile.
Spanò rimase serio e pensoso. Lui invece non la vedeva cosí, ed era sicuro che la Guarrasi la pensava allo stesso modo. Quella novità complicava le cose, sí, ma aggiungeva alla storia un tassello che, non sapeva nemmeno lui perché, focalizzava ancora di piú la sua attenzione su Maria Cutò.
– Non potremmo telefonare al commissario e chiedergli se ha mai sentito questo nome? – suggerí la Bonazzoli.
Spanò e Fragapane controllarono simultaneamente l’orologio. Le tre e mezzo. Si guardarono scuotendo la testa. Di sicuro i Patanè a quell’ora erano in pieno riposo postprandiale. Alla Bonazzoli il fatto che in Sicilia, con estensione a tutto il Meridione d’Italia, non fosse buona creanza telefonare in casa della gente nel primo pomeriggio, ancora non le era entrato in testa.
Il vicequestore Guarrasi aprí la porta e si affacciò nell’ufficio.
– Venite da me, – ordinò.
I tre presenti raccolsero il materiale e le andarono dietro.
Guardinga, si accomodò sulla sua poltrona oscillante, e si stupí di sentirla piú stabile.
– E che fu? Non mi dite che già è venuto qualcuno ad aggiustarla!
– No, dottoressa, ci pensai io. Bastava attrantare meglio la levetta che c’è là sotto, – rispose Spanò.
La Bonazzoli lo guardò interrogativa.
– Attrantare: tirare, fissare… non c’è un sinonimo italiano preciso, – spiegò l’ispettore.
– Ricapitoliamo, – sollecitò Vanina.
Spanò riferí quello che avevano trovato.
Il particolare dell’età che la misteriosa Cutò numero due doveva avere al momento in cui si erano perse le tracce della numero uno fece aggrottare la fronte del vicequestore. Qualcosa non le tornava nelle dichiarazioni sibilline di Alfonsina.
– Andate dai Fiscella. Fate quello che avevamo deciso, ma mettete sotto il naso di Alfonsina per prima cosa questo foglio. Voglio vedere come reagisce. Poi proseguite con le fotografie e tutto il resto.
Il sovrintendente Nunnari bussò sulla porta semiaperta ed entrò, pieno di cenere vulcanica appiccicata sul viso.
– Ma che ricominciò a piovere cenere? – chiese Vanina.
– A Catania no, capo. Il vento girò.
– E perché, tu da dove vieni?
– Da Zafferana Etnea. Cenere là sopra ne continua a cadere a tinchitè. Pare che ieri, a un certo momento, sia caduto addirittura qualche pezzo piú grosso.
– Che ci sei andato a fare, a Zafferana Etnea?
– Là abita, Masino Di Stefano. In una straduzza che per trovarla mi dovetti girare il paese tre volte. Poi alla fine parcheggiai e ci andai a piedi. Davanti all’indirizzo che mi risultava dalla ricerca che avevo fatto stamattina c’è un bar. Entrai, mi pigliai una cioccolata calda e un paio di sciatori e mi misi a conversare col barista.
– E a noi non ne hai portati? – chiese il vicequestore, confidando che il sovrintendente avesse approfittato per fare scorta di quei biscotti morbidi, ricoperti di cioccolato fondente, che in origine dovevano servire a rianimare, per l’appunto, gli sciatori discesi dalle nevi dell’Etna.
– Ca certo, – rispose il sovrintendente, battendo la mano sullo zainetto Invicta, che doveva risalire ai tempi del liceo e di cui andava particolarmente fiero. Vintage, diceva lui.
Gli fece cenno di proseguire.
– Piano piano, una parola tira l’altra, arrivai a sapere vita morte e miracoli di tutti i vicini di porta, ma a qualcosa serví. A quanto pare Masino Di Stefano non solo è vivo, ma è pure in ottima salute, tant’è vero che ogni mattina si fa una passeggiata di cinque chilometri col cane. È vedovo, abita lí da dieci anni e tutti sanno che è stato in carcere, ma non sanno il perché. Dicono che è una persona tranquilla, ma che si fa i fatti suoi e non dà troppa confidenza a nessuno.
Vanina meditò.
– Convochiamolo.
– Scusi, dottoressa, ma non aspettiamo i risultati della Scientifica? – si fece avanti Spanò.
– I risultati la Scientifica ce li potrebbe dare pure tra dieci giorni. Quell’uomo è l’unico che può dirci qualcosa di utile. Ed è anche un possibile indiziato. Perciò basta aspettare: domani lo voglio qui. Se riesce a venire per conto suo bene, altrimenti, Nunnari, vai a prenderlo tu, e ti porti Lo Faro.
– Signorsí, capo, – rispose Nunnari.
La faccia dubbiosa di Spanò le chiedeva il perché dell’improvviso cambio di programma, ma Vanina non accennò a rispondergli. Non lo sapeva neppure lei, il perché. Era come se il vento di sud che aveva liberato la città dalla pioggia vulcanica avesse iniziato a dissolvere anche la caligine nera che avvolgeva quell’indagine.
Osservò il fascicolo dell’omicidio Burrano, che giaceva sul suo tavolo dal giorno prima, nell’attesa che lei si decidesse a dargli una sbirciata. Aveva ascoltato il resoconto di Fragapane, preso per buoni i ricordi del padre di Spanò, ma il momento giusto per affondare il naso in quelle carte e ricavarne una sua opinione ancora non era arrivato. E non era questione di mancanza di tempo. L’impulso di aprire l’incartamento e magari passarci sopra una nottata intera, lei ne era certa, l’avrebbe assalita da un momento all’altro, probabilmente dettato da un particolare all’apparenza insignificante ma che poteva rivelarsi decisivo. Quel caso chiuso da piú di cinquant’anni non la convinceva, e non solo per il possibile collegamento con il cadavere della donna. Qualcosa non quadrava, e la testimonianza del commissario Patanè aveva suffragato ulteriormente i suoi sospetti.
Da Vassalli aveva ricevuto solo una breve telefonata in mattinata, appena prima che apparisse il commissario. Dalle poche opinioni che si erano scambiati le era parso evidente che il pm non avrebbe ritenuto l’indagine degna di alcuna nota se non vi fosse stata coinvolta la famiglia Burrano. Di conseguenza, tentava di spegnere qualunque attenzione nei confronti del vecchio fascicolo, che in mano a una come il vicequestore Guarrasi poteva trasformarsi in una bomba a orologeria.
Prima o dopo, pur con la sua flemma, il pm avrebbe iniziato a chiederle qualche risultato e non sarebbe stato da lei presentarsi senza nulla di concreto in mano. Soprattutto adesso che la faccenda era diventata di pubblico dominio.
Il sovrintendente Nunnari tirò fuori dallo zaino una guantiera di sciatori e la depose sul tavolo del vicequestore. Attinsero tutti, tranne la Bonazzoli.
– Ma io non arrivo a capire perché uno si deve infelicitare la vita, – considerò Spanò, mentre avvolgeva in un tovagliolo un paio di biscotti da offrire al Grande Capo.
Marta scrollò le spalle, punta sul vivo come sempre. – Io non mi infelicito nulla! Sto benissimo cosí. Tutti starebbero meglio, se lo capissero.
Vanina richiamò l’attenzione dell’ispettore capo, sottraendolo a un dibattito assolutamente improduttivo con la Bonazzoli.
– Basta, picciotti, la ricreazione è finita. Appena l’orario si fa consono, Spanò e Fragapane si prendono tutto il materiale che serve e se ne vanno a casa dei Fiscella. Ispettore, lei per caso sa dove abita il commissario Patanè?
– Certo, dottoressa. All’inizio di via Umberto. Perché?
Non gli rispose.
Il fascicolo dell’omicidio Burrano avrebbe richiesto ore e ore di approfondimenti, cui nessuno fino ad allora aveva avuto modo di dedicarsi.
Vanina estrapolò dal faldone le fotografie scattate sulla scena del delitto. Attraverso l’ombra opaca del tempo, s’intravedeva qualche immagine: un uomo riverso su una scrivania, il buco insanguinato sulla nuca, una decina di fogli sparpagliati sul pavimento. Cercò un’immagine d’insieme, che mostrava lo studio di Burrano in condizioni un po’ migliori di come l’avevano trovato loro a distanza di cinquant’anni, durante il secondo sopralluogo. Osservò un ingrandimento dello scrittoio. Ebbe la sensazione di ritrovare le stesse identiche suppellettili e gli stessi libri che aveva visto lei. Possibile che nessuno li avesse prelevati, studiati, catalogati? Vero era che sembravano libri del tutto comuni, che poco avrebbero potuto giovare alle indagini, però si chiese se lí in mezzo non potesse esserci qualcosa che magari allora era sfuggito e che riconducesse in qualche modo a Maria Cutò. O a Vera Vinciguerra, si ricordò di aggiungere al suo monologo mentale. Anche se lei a quell’ipotesi, in realtà, credeva sempre meno.
Notò che sullo scrittoio, davanti al capo reclinato di Gaetano Burrano, c’era qualcosa che somigliava al posacenere che aveva visto lei, ma a guardarlo con la lente d’ingrandimento era pieno di cicche. Annotò mentalmente quel dettaglio, di certo oggetto d’esame da parte della Scientifica di allora, che però con i pochi mezzi di cui disponeva altro non avrebbe potuto fare se non definire la marca delle sigarette o rilevare eventuali tracce di rossetto. Di lato c’era la tazzina da caffè. Ma il tutto finiva lí. Iniziò a cercare tra i fogli il rapporto della Scientifica e lo lesse velocemente. Poi lasciò perdere. Le era venuta un’idea migliore.
Spanò e Fragapane uscirono che erano appena passate le cinque.
L’orario era buono anche per andare a scomodare Patanè, che di sicuro avrebbe accolto quel disturbo con immaginari salti di gioia. Vanina raccolse il fascicolo e lo infilò in una borsa di stoffa, di quelle che si trovano in libreria. Sopra c’era scritto «Leggere può creare indipendenza». Era la sua preferita. Prese una foto del cadavere di villa Burrano che un attimo prima aveva sottratto a Spanò e se la mise in tasca.
Passò dalla stanza attigua a prelevare l’ispettore Bonazzoli. La beccò che stava parlando al telefono, tutta piegata in avanti come per non farsi sentire, anche se le postazioni di Nunnari e Lo Faro erano vuote. Appena la vide entrare interruppe subito.
– Guarda che potevi pure continuare, – l’avvertí Vanina. Le fece segno di alzarsi. – Vieni con me, andiamo a casa di Patanè.
– Del mitico commissario Patanè? Spanò e Fragapane me ne hanno parlato per un pomeriggio intero, – fece Marta, scattando in piedi e afferrando la giacca appesa dietro la sedia.
Vanina la scrutò di sottecchi: era ulteriormente dimagrita. Sfido, si nutriva di tè e di verdurine! Eppure non doveva essere un problema di scelte alimentari. Non mangiare proteine animali non vuol dire per forza fare la fame. Lei, per esempio, se un giorno in preda a un attacco di follia avesse deciso di abbracciare il veganesimo, eventualità cui non riusciva neppure a pensare, avrebbe potuto campare benissimo di pasta, cioccolata fondente e scacce di Bettina fatte con le bietole selvatiche. Tutta roba con indice glicemico altissimo, che di certo non l’avrebbe fatta dimagrire. Perciò doveva esserci sotto qualcos’altro. Il suo fiuto le diceva che l’ispettore Bonazzoli non doveva essere una persona felice. Il perché, conoscendola, sarebbe rimasto un mistero, che Vanina avrebbe collocato nel suo casellario personale alla voce «Marta», vicino a quello insoluto di come l’ispettore dalla Questura di Brescia fosse finita alla squadra Mobile di Catania.
La voce di donna che aveva risposto al citofono taceva perplessa.
– Chi? – chiese, dopo che Vanina ebbe scandito il suo cognome e, soprattutto, la sua qualifica.
– Sono il vicequestore Giovanna Guarrasi. Ho bisogno di parlare col commissario Patanè.
La parte centrale del portone si aprí con uno scatto, schiudendo l’accesso di un androne buio. A fianco di una scala grigia con la ringhiera di ferro battuto, trionfava un ascensore posticcio di epoca senz’altro piú moderna. Vanina vi si diresse risoluta.
– Guarda che la tipa non ha specificato il piano, – obiettò Marta, già pronta a infilare le scale per raggiungere la meta pianerottolo dopo pianerottolo.
– Hai ragione. Facciamo cosí: tu che sei bella allenata sali con le scale. Appena hai il piano giusto me lo urli nell’ascensore. Che ne dici?
– Secondo piano, – si udí, dalla voce del commissario in persona.
L’ispettore Bonazzoli prese a salire i gradini.
Vanina si lasciò coinvolgere. Ma sí, in fondo erano solo due piani. Di una casa antica, d’accordo, con scala ripida e scura, ma pur sempre due piani.
Patanè attendeva sulla soglia con tutti i denti, veri o finti, in evidenza.
– Dottoressa! Non immaginavo di rivederla cosí presto. E questa bella fanciulla chi è?
– Ispettore Marta Bonazzoli, – si presentò Marta.
Una donna giunonica sulla settantina, in grembiule da cucina e pantofole ortopediche, si piantò a fissare le due arrivate.
– Angelina, queste sono il vicequestore Guarrasi e l’ispettore Bonazzola.
– Bonazzoli, – corresse l’ispettore, occhieggiando Vanina che non era riuscita a trattenere un ghigno.
– Bonazzoli, mi scusi! E questa è mia moglie Angelina.
– Giovanna Guarrasi, – si presentò Vanina, allungando la mano.
– Ah! Perciò ora la Omicidi lei la comanda? – commentò la donna, girando gli occhi verso il marito, che rimase indifferente.
– Sí, – confermò Vanina, incerta se leggere tra le righe meraviglia o rammarico.
Il commissario le fece accomodare nel salotto buono, una stanza non grande, arredata con mobili in stile e ricolma di suppellettili. Invece di dirigersi verso il divano che sua moglie stava indicando alle due ospiti, andò ad accendere una lampada da terra ricurva che illuminava un tavolo tondo e spostò due sedie per Vanina e per Marta.
– Immagino che per essere venuta fino a qui di persona, non debba solo parlarmi, ma che probabilmente ha qualcosa da mostrarmi. Vero?
Vanina annuí con un accenno di sorriso. Quell’uomo iniziava a piacerle.
Soddisfatto, Patanè tolse di mezzo il centrino beige ricamato a tombolo e il relativo vaso di fiori finti. Li consegnò ad Angelina, spedendola a preparare un caffè.
– Commissario, lei sa se Maria Cutò aveva una figlia? – attaccò subito Vanina, sedendosi accanto a lui.
L’uomo si grattò il mento, pensoso.
– Una figlia, dice. Mah… non mi pare… Però potrebbe essere benissimo. Vede, dottoressa, di ragazze madri tra quelle povere disgraziate ce n’erano assai. Spesso era proprio per campare i propri figli che finivano a fare la vita. Luna era una scaltra, una che sapeva come muoversi, tant’è vero che giovane com’era era già una maîtresse. Se aveva una figlia di certo non lo andava a sbandierare ai quattro venti. Ma perché me lo chiede?
– La casa risulta cointestata, a Maria e a questa Rita Cutò. Nata nel… quando è nata, Marta?
– Nel 1956, – rispose l’ispettore.
– Ah… – commentò il commissario, staccando lentamente gli occhi da Marta.
– Nel ’56 la Cutò era già la maîtresse? – chiese Vanina.
– Mi pare di sí, ma non posso esserne sicuro. Potrei chiedere al maresciallo Iero. Lui allora stava nella Buoncostume e magari i particolari se li ricorda meglio. Non è facile risalire a certi dettagli, perché tutti i documenti, le schede, le basse di passaggio delle ragazze tra un bordello e l’altro per la quindicina, tutto venne distrutto dopo l’entrata in vigore della legge Merlin. Ma, mi scusi, questa Rita che fine avrebbe fatto?
– La stessa di sua madre, presumo.
– Scomparsa macari lei, – indovinò Patanè.
– Senta, commissario, esattamente Giosuè Fiscella che mansioni svolgeva al Valentino? – chiese Vanina, seguendo i suoi pensieri.
– Giosuè? Era il serafino. Cosí si chiamavano i carusi che lavoravano nei bordelli. Sbrigava faccende, aggiustava tubi, faceva lavori di fatica. E fungeva da buttafuori nel caso di avventori indesiderati. Era un ragazzone muscoloso, all’epoca. Un bravo caruso, era, dottoressa. Io non ci perderei troppo tempo.
Marta ascoltava in silenzio. Quando andava in giro con la Guarrasi, le toccava ascoltare interrogatori condotti seguendo dei ragionamenti che faceva una fatica immane a intercettare. In quell’occasione, però, c’era un ulteriore aggravante, che la faceva sentire ancora piú tagliata fuori: il vecchio commissario e il vicequestore sembravano in sintonia come se avessero lavorato insieme per anni.
Aprí il fascicolo dell’omicidio Burrano, che ancora non aveva mai avuto in mano, e buttò un occhio sulla prima fotografia che incontrò. Era un’immagine d’insieme del luogo del delitto, presa da una prospettiva che non riusciva a capire. Smise di ascoltare e si concentrò sull’immagine. Estrasse il telefono e cercò le foto della Scientifica che aveva immortalato su richiesta di Vanina, per averle sempre a portata di mano. Era talmente presa da non accorgersi che gli altri due avevano smesso di parlare.
– Bonazzoli? – la richiamò Vanina.
Marta alzò gli occhi e trovò quelli del commissario Patanè che la fissavano curiosi.
– Trovasti qualcosa d’interessante? – le chiese il vicequestore, perplessa.
– Forse sí, – rispose, girando la foto e mostrandogliela, affiancata a quella sul suo Samsung. – Guarda la statua, – suggerí.
– È la stessa che copriva la porta del montavivande al primo piano, – constatò Vanina, pensosa. Solo che la stanza non era la stessa. Anzi, se ricordava bene, erano proprio zone diverse della casa. Recuperò sul suo iPhone una foto che aveva scattato lei il giorno dopo il ritrovamento, quando erano passati nello studio dov’era stato ucciso Burrano. Non c’era nessuna statua, lí.
Patanè aveva inforcato gli occhiali e si era avvicinato per vedere meglio.
– La statua del vecchio Burrano. Era nella stanza del delitto, me lo ricordo benissimo. Che ci fa là?
– Là era. Occultava una delle aperture del montacarichi dov’era nascosto il cadavere della donna.
Il commissario aggrottò la fronte e si accarezzò il mento, meditabondo.
Vanina tirò fuori il telefono e cercò un numero in rubrica.
– Dottor Burrano?
– Dottoressa Guarrasi! Felice di risentirla cosí presto.
– Ho bisogno di un’informazione: la statua che avete spostato quando avete scoperto il montavivande, è sempre stata lí?
– Non lo so. Ma credo di sí… Anzi, ne sono sicuro, ora che ci penso.
– E non ce ne sono altre uguali in giro per la casa, magari una che era nello studio e poi è stata spostata…
– No, no, dottoressa. Quello è un pezzo unico. E poi mi sembra che l’avesse fatta uno scultore famoso, perciò doppioni non ce ne possono essere.
– Va bene, grazie.
– Perciò mi faccia capire, – disse Patanè, appena la vide riporre il telefono, – il cadavere della donna è stato rinvenuto in un montacarichi, la cui apertura era nascosta dietro una statua del Burrano capostipite, statua che ai tempi dell’omicidio del cavaliere si trovava invece sul luogo del delitto. Cosí è?
– Per l’esattezza una delle due aperture, anche se il montacarichi era fermo al piano inferiore.
– E non le quadra il fatto che la statua sia stata spostata proprio là.
– Non mi quadra perché, a quanto pare, nella villa da allora non è entrato piú nessuno. Non è stato toccato niente, abbiamo trovato persino le tazze usate e un tavolo apparecchiato. Perciò se qualcuno ha spostato la statua, l’ha fatto con il preciso intento di occultare meglio la porta.
Il commissario ci rifletté su. In effetti, non quadrava.
Vanina prese il fascicolo e glielo girò. Cercò tra le immagini, fino a trovare quella che le interessava, e su cui voleva interpellarlo.
– Quelli della Scientifica, ai tempi, sicuramente analizzarono i mozziconi di questo posacenere, giusto?
– Certo.
– Non trovarono niente di particolare, che ne so, un mozzicone sporco di rossetto?
Patanè sfogliò le carte ed estrasse a colpo sicuro il primo rapporto della Scientifica. Lo lesse velocemente, concentrato. Vanina reclinò il capo e gli si avvicinò, per leggerlo insieme a lui.
Marta contemplava affascinata l’energia che il vecchio commissario trasmetteva.
In quel momento, spuntò la signora Angelina armata di caffè e biscotti di mandorla. L’occhiata che lanciò a quella forestiera che sembrava pendere dalle labbra di suo marito, e all’altra picciotta che lo trattava come un compagno d’armi, non fu delle piú benevole. Si piazzò lí accanto e non si mosse piú.
– Due marche diverse di sigarette, – fu il responso. – Ma una era quella che fumava Di Stefano, e l’altra quella che fumava Burrano. C’è scritto.
Vanina lo sapeva ancora prima di chiederglielo, ma spingendolo a rileggere sperava di risvegliare la sua memoria su un particolare di cui nei rapporti della Scientifica non si faceva menzione.
– Non si ricorda se per caso ci furono altri ritrovamenti di mozziconi, di altre marche… tipo Mentola, per esempio?
Il commissario si tolse gli occhiali e la guardò divertito. – Dottoressa Guarrasi, io la ringrazio per la fiducia che lei ripone nelle mie capacità mnemoniche, ma dopo cinquantasette anni un dettaglio del genere non si può ricordare manco con tutta la buona volontà. Se non è scritto qua, deduco che non se ne ritrovarono –. Cercò ancora tra le carte, poi scosse il capo per ribadire che non c’era nulla. – Madre Santa, che impressione! – disse, restituendo l’incartamento al vicequestore. – Qualcuno di quei rapporti lo scrissi io, e ora dopo tutto questo tempo me lo ritrovo tra le mani. Chissà che vuol dire.
Lui lo sapeva, che voleva dire. Voleva dire che quel caso era rimasto lí ad attenderlo per cinquantasette anni. E dal momento che era venuta a cercarlo fino a casa, sicuramente l’aveva capito pure la Guarrasi.
Vanina ripose il fascicolo.
– C’è un’ultima cosa che vorrei mostrarle, commissario.
Patanè si rimise gli occhiali. Guardò con la coda dell’occhio Angelina, che non si muoveva da dietro le sue spalle.
– Angelina, gioia mia, di un caso di omicidio stiamo parlando. Perché non ti vai a leggere un bel libro, o a taliare un poco di televisione, che queste non sono cose per te?
La donna non nascose il suo disappunto. Lasciare Gino solo tra le grinfie di due donne giovani e piacenti, pure se erano poliziotte, per lei era qualcosa d’inammissibile.
A malincuore, recuperò tazzine e vassoio e batté in ritirata.
Anche Gino era dispiaciuto di averla allontanata in quel modo, ma non aveva potuto fare altrimenti. L’intuito gli diceva che sarebbe stato fondamentale osservare quell’ultima cosa che la Guarrasi voleva mostrargli con un’obiettività che la presenza di sua moglie non gli avrebbe consentito.
Vanina estrasse dalla tasca la fotografia che ritraeva il cadavere mummificato di villa Burrano, e gliela porse. Vide che la prendeva subito in mano e la osservava imperturbabile, ma concentrato. Capí che se l’aspettava.
Patanè inspirò rumorosamente.
– Le sigarette Mentola le avete trovate addosso al cadavere, vero?
– Nella borsetta, per l’esattezza.
– Ho capito. Mah… vista cosí, in queste condizioni, potrebbe essere chiunque. Tutte le donne che avevano soldi da spendere si vestivano cosí, all’epoca.
– E Maria Cutò soldi da spendere ne aveva?
– Se ne aveva? Luna gestiva un giro di prostitute che lei manco si può immaginare. E soldi per le mani gliene passavano assai. Fuori la vedevi sempre vestiva elegante. Certo, un’eleganza un poco vistosa, ma neppure tanto, sa? Per essere quello che era, si sapeva vestire anche troppo bene. Perciò, tornando al cadavere, se quello che mi sta chiedendo è di riconoscere qualche dettaglio, io purtroppo non la posso aiutare. Ma se la richiesta è di valutare, in base all’abbigliamento, se potrebbe trattarsi di Maria Cutò, le rispondo che sí, potrebbe benissimo essere lei. Cosí come potrebbe essere un’altra delle tante amiche che allietavano l’esistenza di Gaetano Burrano. E mi creda, dottoressa: era un puttaniere di prima categoria.
– Lo so.
Marta si schiarí la voce, imbarazzata.
– Scusi, commissario, ma era normale che una prostituta fosse cosí elegante e ben vestita? – chiese.
– Una prostituta normale no, ma Luna non era una qualunque.
– È scomparsa in quei giorni, si vestiva in quel modo, aveva un rapporto particolare con Burrano… non vi sembra che ci siano un po’ troppe coincidenze?
– Già, – fu l’unico commento di Patanè.
Vanina preferí non pronunciarsi. Per lei di coincidenze non ce n’erano. La probabilità che il cadavere fosse di Maria Cutò diventava sempre piú alta, anche se sostanzialmente nulla lo provava.
Il cellulare di Marta squillò, rompendo il silenzio.
– Mi dica, ispettore, – rispose. Vanina si fece attenta.
Marta le passò subito il telefono.
– Spanò, avete finito?
– Sí, dottoressa, abbiamo finito. Andò esattamente come diceva lei. Non hanno riconosciuto niente, ma quando ce ne siamo andati Giosuè era pallido come un lenzuolo. E Alfonsina pareva imbambolata.
Vanina annuiva, mentre Patanè si allungava sempre piú in avanti sul tavolo, come per partecipare alla telefonata.
– E della casa cointestata che hanno detto?
– Niente, hanno fatto finta di cascare dalle nuvole. Ma mi ci gioco qualunque cosa che lo sapevano.
– Va bene, ci vediamo in ufficio tra poco.
– Alfonsina e Giosuè non hanno riconosciuto Luna, vero? – indovinò Patanè.
– Com’era prevedibile.
– Anche se fosse lei, quei due non lo ammetteranno mai. Non la faranno morire.
– No. A meno che, dopo oggi pomeriggio… – Si fermò. Era una sua idea, campata in aria, eppure ebbe la netta sensazione che Patanè l’avesse afferrata.
– Staremo a vedere, – concluse infatti il commissario, mentre lei e Marta raccoglievano i documenti sparpagliati sul tavolo e si avviavano verso l’uscita.
La signora Angelina si materializzò nell’ingresso. Piantata al centro della stanza, attese che la porta si chiudesse alle loro spalle prima di puntare le mani sui fianchi con aria battagliera.
– Chistu era perciò, il vicequestore con cui passasti tutta la mattinata? Ma sempre ’u stissu si’, Gino, macari a ottant’anni!
Gino la guardò sorpreso. Poi esplose in una risata fragorosa, che alla fine la contagiò.
Vanina aprí la porta di casa che non erano ancora le sette. Un evento senza precedenti.
Passando davanti alla portafinestra di Bettina, aveva visto che era tutto sprangato, segno che non era ancora rientrata, oppure che era uscita con le vedove. Anche le luci del giardino erano spente.
Inna, la ragazza moldava che a giorni alterni Bettina le prestava per le pulizie, le aveva lasciato sul tavolo da pranzo un biglietto con una lista di detersivi da rimpiazzare. Per evitare di dimenticarlo, rispose subito con un altro foglietto in cui la pregava, come sempre, di pensarci lei. Allegò cinquanta euro e lo piazzò nel medesimo posto.
Depose sul ripiano della cucina la cena appena comprata da Sebastiano e andò subito a liberarsi di scarpe e pantaloni. Si acciambellò sul solito divano e accese la televisione. Era talmente strano essere in casa a quell’ora che si sentiva quasi a disagio. Avrebbe potuto cenare a un orario civile, vedere un film, magari iniziare un libro. Troppe cose per una sera sola.
Però si sentiva meglio. La crisi annuale del 18 settembre era passata anche stavolta.
Girò i canali velocemente, scartando tutti i programmi finché intercettò la sigla del Tg Regione, che di solito vedeva in differita sul computer, in streaming. Essendo in diretta, stavolta non poteva saltare le notizie di cui non le importava nulla per concentrarsi su quelle piú interessanti. Il primo servizio riguardava la politica regionale; Vanina ne approfittò per andare in cucina a prepararsi uno spritz, con qualche mandorla tostata d’accompagnamento, e accendersi una sigaretta. Controllò il telefono, e lesse tutti i messaggi WhatsApp che aveva ricevuto durante il pomeriggio. Inviò un messaggio di saluto in una chat di ex colleghi di università, cui si rammaricava di non riuscire a partecipare mai in modo attivo. Rispose a Giuli, mentre con un orecchio ascoltava distrattamente il conduttore del Tg che introduceva il secondo servizio.
«Un’auto rubata con i fili dell’accensione scoperti è stata parcheggiata nottetempo davanti all’abitazione del pm palermitano Paolo Malfitano, da anni impegnato nell’attività di contrasto alla criminalità organizzata. Questo sarebbe il piú eclatante della serie di avvertimenti ricevuti dall’apertura di importanti processi nei quali il magistrato svolge un ruolo di primo piano. Intercettazioni ambientali, disposte dalla Procura di Palermo nel corso di una recente operazione, avrebbero svelato addirittura che un quantitativo di materiale esplosivo…»
Sollevò lo sguardo, incredula, e afferrò il telecomando per alzare il volume. Poggiò il bicchiere sul tavolino accanto al divano e spense la sigaretta nel posacenere lí accanto. Si accorse di non riuscire a fermare il tremore inconsulto delle mani, e sentí un senso di nausea assalirla sempre piú forte. Respirò a fondo per allontanare un conato di vomito.
«Non è la prima volta che Paolo Malfitano si trova al centro di intimidazioni cosí pesanti. Ricordiamo ancora l’attentato del 14 agosto del 2011, nel quale perse la vita un agente della scorta, e il magistrato stesso rimase ferito. Un attentato che, ricordiamo, fu sventato dall’intervento fortuito dell’allora commissario capo Giovanna…»
Vanina riuscí a raggiungere il bagno appena in tempo per non vomitare lo spritz sul pavimento appena lucidato.
Riprese a respirare normalmente, asciugò le lacrime che continuavano a offuscarle la vista. Vide la sua faccia sconvolta riflessa nello specchio, gli occhi cerchiati dal trucco colato. Tornò indietro nel soggiorno e raggiunse a tentoni il divano. Afferrò l’iPhone, cercò un numero in rubrica e fece partire la chiamata.
– Giacomo, – disse, con una voce strozzata che non sembrava neppure la sua.
– Vanina.
– Scusami se ti disturbo, non sapevo chi chiamare.
– Non mi disturbi per niente. Anzi, dopo le notizie di oggi dovevo aspettarmi la tua telefonata.
– Ho visto il Tg. Come sta… lui?
– Lui sta bene. O almeno, cosí pare. Lo conosci: sdrammatizza. Sostiene che l’hanno sparata cosí grossa per fare piú spettacolo. Io spero solo che non si stia sbagliando.
Vanina valutò quell’analisi tutt’altro che azzardata. Se la sua proverbiale razionalità non si fosse data alla macchia in modo cosí indegno, probabilmente l’avrebbe pensato subito anche lei.
– Sono sicuro che tu queste cose le conosci meglio di me, e anche lui. Però io, quella volta che lo colpirono, me la ricordo ancora. Benissimo. E mi ricordo pure come sarebbe andata a finire se non fossi arrivata tu. L’hai sentito il giornalista che ti ha menzionata?
– No, non ho sentito –. Non poteva, stava vomitando.
– Comunque, hanno rafforzato la scorta.
– Certo.
Come se aumentare il numero dei bersagli bastasse a scongiurare il peggio.
– E tu, stai bene?
– Sí, sto bene, grazie –. Stava bene, fino a mezz’ora prima.
Giacomo cercava di chiacchierare, ma era evidente che faceva fatica. Come lei faceva fatica a rispondergli.
– Mi dispiace averti disturbato, – ribadí Vanina, prima di salutarlo.
– A me invece fa piacere averti sentito. Il fatto che io sia il fratello di Paolo non significa che non siamo piú amici. È vero?
Da signore qual era, aveva soprasseduto sul perché di quella telefonata sconvolta. Non era stata lei ad allontanarsi da tutti loro?
– Grazie, Giacomo.
– Vanina? – esitò un attimo. – Vuoi che gli dica che hai chiamato?
– No, meglio di no.
– Sicura?
– Mi basta sapere che sta bene. E… Giacomo? – lo richiamò. – Promettimi solo una cosa: che semmai dovesse succedere qualcosa, qualunque cosa, io non lo verrò a sapere dal Tg.
Giacomo glielo promise.
Vanina scaraventò l’iPhone in un angolo del divano. Afferrò il pacchetto di sigarette e se ne accese una. Rimase cosí, con la testa appoggiata indietro, per un tempo indefinito. Sentí Bettina che rientrava, e si accorse che erano le dieci. Si trascinò in cucina e ripose il sacchetto della spesa in frigorifero, cosí com’era. Di cucinare non era piú cosa.
Mise sul fuoco un pentolino con il latte, sua salvezza nei momenti peggiori. Iniziò a sorseggiarlo e poi c’inzuppò dentro un numero imprecisato di biscotti al cioccolato.
Recuperò il telefono. Prima di spegnerlo, mandò un messaggio di buonanotte a sua madre, e si ricordò che il giorno dopo sarebbe arrivato Federico. Non era piú cosí sicura che la cosa le dispiacesse davvero.
Quella reazione, cosí violenta, l’aveva annientata.
E il dubbio peggiore adesso, a distanza di anni, era che tutto quello che aveva fatto fosse stato inutile.