9.

– Dottoressa, mi dica che l’aveva previsto! Al telefono c’è Alfonsina Fresta, che chiede di parlare con lei, – annunciò con aria concitata l’ispettore Spanò entrando nell’ufficio del vicequestore.

Vanina nascose l’impulso di battersi le mani da sola dietro un mezzo sorriso soddisfatto. Ci aveva azzeccato.

Si fece passare la telefonata.

– Dottoressa Guarrasi?

Si finse stupita.

– Signora Fresta. Buongiorno.

– Posso chiederle di venirmi a trovare?

Vanina fece una pausa studiata. Ora toccava a lei tenerla sulla corda.

– Le è tornato qualcosa alla mente? Le mando subito l’ispettore Spanò.

– No… Dottoressa, io con lei personalmente ho bisogno di parlare. È importante.

Era quello che aveva sperato.

– Cercherò di venire prima possibile.

– Grazie, dottoressa Guarrasi.

Vanina percepí un’incertezza.

Alfonsina salutò e chiuse.

Spanò era rimasto immobile davanti alla scrivania, attentissimo.

– Torniamo dai Fiscella? – chiese.

– No, ci vado da sola. La Fresta dice che vuole parlare solo con me.

– Secondo lei che vuole dirle?

– La verità.

L’ispettore annuí.

– Lei se l’aspettava, vero? – disse con un sorrisetto complice. Ormai la conosceva, la Guarrasi, tanto che in certi momenti ne prevedeva perfino le mosse. Per quello gli veniva cosí bene farle da spalla. Il pomeriggio prima, avrebbe calcato un poco di piú la mano con quei due, per fargli sputare il rospo che continuavano palesemente a ricacciare indietro, ma se il vicequestore gli aveva ordinato di non andare oltre un certo limite significava che aveva in mente qualcosa. E ora la telefonata di Alfonsina ne era la riprova.

Il vicequestore aprí un cassetto. Tirò fuori la marchetta trafugata al Valentino e il sacchettino trasparente con il frammento di carta, e glieli mise davanti.

– Guardi il disegno che c’è su questo pizzino che abbiamo trovato nella borsa del cadavere, – disse.

Spanò si tastò tutte le tasche in cerca degli occhiali. Se li infilò santiando. Raffrontò i due oggetti.

– Potrebbe essere lo stesso simbolo, – disse, con un sorriso sornione, della serie «lo sapevo che aveva qualcosa nel cappello».

– E non è tutto. Ha presente il cassetto che ho aperto in casa della Cutò? Guardi cosa c’era dentro –. Tirò fuori l’iPhone e cercò la fotografia, ingrandí l’immagine di una scatola verde.

– Brillantina Linetti, – constatò Spanò.

Vanina annuí, soddisfatta.

L’ispettore si appoggiò con le mani sulla scrivania.

– Mi sa che il test del Dna al figlio della Vinciguerra ce lo potevamo pure risparmiare.

Il corridoio si animò di passi e di voci, tra cui spiccava quella stentorea del capo della Mobile.

Il vicequestore si alzò e uscí dalla stanza andandogli incontro. Scorse l’agente Lo Faro impalato davanti all’ufficio, che combatteva con sé stesso per non profondersi in salamelecchi. La lavata di capo aveva fatto il suo effetto.

Macchia allungò la mano per salutarla, mentre continuava a parlare con il commissario capo Giustolisi, della Criminalità organizzata. Le fece cenno di seguirli nel suo ufficio. C’era anche un ispettore, piú un assistente della Narcotici.

Vanina dovette vincere la sua riluttanza nei confronti degli argomenti che si stavano trattando lí dentro. Si sentiva le gambe spezzate per la nottata insonne, e l’ultima cosa che avrebbe voluto in quel momento era un’immersione temporanea in quel fango melmoso che aveva rimestato a mani nude per anni e dal quale era fuggita via.

Attese appoggiata alla parete, pentita di essere uscita dal suo ufficio, mentre i colleghi disquisivano di traffico di droga, faide tra famiglie e affiliamenti. Nominarono pure gli Zinna, il che stimolò Macchia a coinvolgerla con uno sguardo eloquente. Ma il ruolo che quella famiglia aveva ricoperto nel caso che interessava a lei, quello cioè del delitto Burrano, era talmente marginale e indefinito, oltre che lontano nel tempo, da risultare quasi indifferente.

– Se hai bisogno di notizie sulla famiglia Zinna chiedi all’ispettore. Lui conosce tutto l’albero genealogico fino alla quarta generazione, – si raccomandò il commissario capo, prima di accomiatarsi lasciandole campo libero.

Lo ringraziò, spiegandogli che si trattava di fatti risalenti a un’epoca troppo lontana.

Si era appena accomodata davanti alla scrivania di Macchia, quando Giustolisi fece dietro front.

– Ah, Tito, hai visto che successe a Palermo? – chiese.

Il capo della Mobile annuí lentamente, il sigaro appena acceso tra le labbra, girando un’occhiata pensosa sul vicequestore Guarrasi, che impallidí ma non batté ciglio.

Vanina sentí la bocca asciugarsi e temette per un momento di replicare la reazione della sera prima. Per fortuna il collega si limitò a commentare il lato tecnico della faccenda, con qualche riferimento alle inchieste scottanti che il giudice Malfitano stava portando avanti. Non andò oltre.

– Cambiamo discorso, che è meglio, – disse Macchia, appena il commissario capo ebbe chiuso la porta.

Vanina annuí, grata. Qualcosa evidentemente Tito doveva saperla, riguardo a lei e a Paolo.

– Allora: che mi dici della nostra «sciantosa» assassinata cinquant’anni fa?

S’era fissato che quello era il nome adatto per denominare l’indagine.

Lo aggiornò sugli ultimi sviluppi, suscitando la sua curiosità nei confronti del commissario Patanè.

– La prossima volta che viene qua lo voglio conoscere anch’io, – dichiarò.

Vanina gli parlò anche del Di Bella, ma gli fece intendere che ormai considerava il test cui lo aveva fatto sottoporre solo un modo per escludere definitivamente che si trattasse di sua madre.

– Dunque, riassumendo: tu credi che il cadavere sia di questa ex maîtresse di cui ti ha parlato il commissario Patanè, scomparsa nel periodo in cui Burrano fu ammazzato, e a quanto pare una delle amanti del medesimo. Giusto?

– Giusto.

– E sei convinta che la testimonianza di quei due, marito e moglie, sarà decisiva per determinarlo? Ma se tu stessa dici che hanno tutto l’interesse a mantenerla in vita, per non dover uscire fuori da quella casa…

– Sí, però non sono stupidi. Sanno benissimo che se lo scopriamo da soli, la loro situazione si complica.

Gli riferí anche della marchetta e del disegno sul pizzino.

– Un bordello con la carta intestata? Mi pare difficile, Vani’, – disse, scettico.

A rigor di logica aveva ragione. Aggiunse il dettaglio della brillantina Linetti.

– Siamo in un mondo parallelo! – fu il commento esilarato del capo.

L’ispettore Bonazzoli bussò timidamente alla porta ed entrò.

– Ispettore! – la accolse Macchia, sorridendole.

Marta rimase impalata davanti alla porta, imbarazzata.

Vanina si chiedeva spesso come fosse possibile che una ragazza sveglia come lei provasse tutta quella soggezione nei confronti di Tito. Forse era colpa della stazza imponente, della barba o della voce impostata. Oppure era il ruolo che lui ricopriva: il Grande Capo.

– Scusami, Vanina, c’è il commissario Patanè al telefono. Dice che è importante.

Macchia si drizzò sulla poltrona, incuriosito.

– Glielo passi qua, – ordinò.

Marta scomparve e il telefono squillò. Rispose direttamente Vanina.

– Dottoressa, mi deve scusare ma poco fa mi chiamò Giosuè Fiscella. Disse che Alfonsina le ha chiesto di andare da lei, perché deve contarle una cosa molto importante. E disse macari che sua moglie gradirebbe che io fossi presente. Perciò, a quanto ho capito, dovrei mettermi d’accordo con lei per sapere quando ha intenzione di andarci.

Questa Vanina non se l’aspettava. Però era comprensibile. Patanè nei ricordi della donna era una persona amica, che lei conosceva molto bene, e non solo come commissario, questo si era capito.

– Va bene, commissario. Vediamoci direttamente lí tra… – guardò l’orologio. Doveva prima capire per che ora era stato convocato Masino Di Stefano, al cui interrogatorio non poteva mancare. L’ideale sarebbe stato riuscire a sentire prima Alfonsina, per avere qualche notizia in piú.

Mise il commissario in attesa e uscí a chiamare Nunnari. Il sovrintendente le confermò che sarebbe andato a prendere Di Stefano nel pomeriggio.

– Ci vediamo lí tra un’ora, – disse, riprendendo il telefono.

Macchia si dondolava sulla poltrona, in attesa. Vanina gli spiegò tutto brevemente, poi con la sua benedizione si congedò.

Il commissario Patanè era arrivato in anticipo e l’aspettava davanti al portoncino dei Fiscella fumando una sigaretta.

– Commissario, ma che fa? Fuma?

– Perché, lei non fuma?

– Ma io ho trentanove anni, – gli rispose, con aria canzonatoria.

– Lo sa che pare piú nica? E comunque, casomai è il contrario: è peggio se fuma lei, piuttosto che se fumo io. Io oramai quello che dovevo fare l’ho fatto e pure nella migliore delle ipotesi non ho piú tanto tempo, perciò sigaretta piú sigaretta meno poco cambia. Lei no. Incatramarsi i polmoni all’età sua, sapendo il danno che ne può derivare, non è furbo.

Vanina si prese la paternale con un sorriso.

– Almeno se domani qualcuno mi spara e mi ammazza non mi resta il rammarico di aver rinunciato ai miei pochi vizi per vivere qualche anno in piú.

Si avvicinò al portoncino con due falcate e schiacciò il citofono. Un piccione che se ne stava fermo sul cornicione, disturbato, spiccò il volo smuovendo dieci centimetri cubi di sabbia nera che le finirono addosso.

– Lo sa, – disse Patanè, – pure cinquantasette anni fa, quando ammazzarono Burrano, la Muntagna stava eruttando. Quant’è strana la natura…

Giosuè Fiscella li accolse nel solito soggiorno, dove Alfonsina stava seduta sulla sua carrozzella, gli occhi rivolti alla finestra. Li fece accomodare di fronte alla moglie, che aveva allungato entrambe le mani per salutarli contemporaneamente.

– Dottoressa Guarrasi, lei si chiederà perché ho voluto rivederla insieme al commissario.

– I miei uomini ieri non sono stati abbastanza esaurienti? – le chiese Vanina.

– Macari assai! Spietati furono, dottoressa. Tutte quelle fotografie, quelle immagini cosí forti…

– Signora Fresta, se mi ha chiesto di venire per lamentarsi dell’operato dei miei uomini, allora posso benissimo andarmene. E non vedo per quale motivo abbia convocato anche il commissario.

– Aspittasse, dottoressa… non s’arrabbi. Quando ieri sera io e Giosuè salutammo gli ispettori, eravamo impressionati. Quelle fotografie ci rimasero davanti agli occhi e non ci dormimmo tutta la notte. Vedete, in questi anni io ho sempre pensato che Luna, prima o poi, sarebbe tornata. Forse mi sono voluta convincere, o forse sono veramente pazza, come dice la gente, ma ho pensato che se non si era piú fatta sentire voleva dire che non poteva farlo. E all’inizio poteva essere benissimo cosí, vero, commissario? Io glielo dissi: capace che Luna scappò per non essere messa in mezzo. Quando ammazzano qualcuno, la polizia deve trovare un colpevole. Secondo voi, una ex prostituta che possibilità aveva di rimanerne fuori? Pensai che se n’era scappata, e che quando la questione si sarebbe risolta, me la sarei vista spuntare di nuovo a casa, bedda com’u suli e con la picciridda per mano.

Vanina e Patanè si scambiarono un’occhiata.

– Sí, lo so, dottoressa: ieri all’ispettore gli dissi che non sapevo chi era Rita Cutò. Il fatto è che mi pigliò di sorpresa. Io non lo sapevo che la casa era intestata pure a lei. Rita Cutò è la figlia di Maria, – tacque e abbassò lo sguardo, come se stesse per dire qualcosa di troppo pesante da sostenere, – e di Gaetano Burrano.

Il vicequestore e il commissario sobbalzarono in simultanea.

– Alfonsina, ma che stai babbiando? – disse Patanè, incredulo.

– No, commissario, non babbío.

– Ma perché ai tempi non mi dicesti niente?

– E che le dovevo dire? Burrano era stato ammazzato, Maria era scomparsa e Rita manco sapevo dove andarla a cercare. Se lo immagina che cosa si sarebbe sollevato? Io sola lo sapevo. Come crede che se li sia fatti Luna i soldi per diventare la maîtresse e poi per comprarsi la casa, a forza di marchette? Dieci vite ci sarebbero volute, commissario, macari se era la piú ricercata. Tutto Burrano le comprò: prima il bordello, perché cosí avrebbe smesso di andare con gli altri uomini, e poi i gioielli, i vestiti. Il collegio per la picciridda. E poi la casa. Impazziva per Luna, Gaetano Burrano. E pure lei gli voleva bene, assai.

Vanina si accorse che la conversazione stava assumendo il tono di un racconto romanzesco, e che Patanè ci si stava infilando con tutte le scarpe.

– Signora Fresta, nelle fotografie che ieri le hanno mostrato i miei uomini ha riconosciuto qualcosa che apparteneva a Maria Cutò? – chiese, diretta.

– Tutto, dottoressa.

– Ma in particolare che cosa?

– La pelliccia, il foulard, il vestito, i gioielli, le sigarette alla menta, il pizzuddu di carta con lo stemma del Valentino. Lei è.

Ci aveva visto giusto. Quel bordello di lusso aveva perfino la carta intestata.

– Perché ieri ha detto ai miei uomini che non riconosceva nulla? Lei lo sa che per una menzogna del genere si configura il reato di falsa testimonianza?

– Niente so, io, dottoressa Guarrasi. Ignorante sono, come a Giosuè. Se mi sente parlare un poco meglio, con l’italiano giusto, è solo perché al Valentino ragazze zaurde non ce ne potevano essere. E siccome nella disgrazia di fare la prostituta lavorare in un bordello di lusso era l’unica fortuna che ti poteva capitare, pur di restare lí imparai l’italiano e macari ’u francisi. Per questo mi chiamavo Jasmine. Perché non ho detto subito che avevo riconosciuto Luna? Perché quando hai ottant’anni e sei sulla sedia a rotelle, e tu e tuo marito messi insieme non pigliate manco ottocento euro di pensione, se ti levano la casa sei morto. Questa casa me l’aveva data Luna, gratis. Potevo starci finché volevo. Ma se Luna moriva…

Vanina faticò a rimanere distaccata.

– E ora cos’è cambiato? Com’è che si è decisa a parlare? – chiese.

– Mi ci fece pensare Giosuè ieri sera, ma era troppo tardi per chiamarla. Capii che non si trattava solo della scomparsa di Maria, della sua morte. Maria l’ammazzarono, giusto giusto a casa di Burrano, giusto giusto negli stessi giorni in cui in quella stessa casa ammazzarono macari a lui. E allora pensai che non poteva essere un caso, e che io sapevo certe cose che… potevano aiutarvi a scoprire la verità, a sapere chi fu il bastardo che l’ammazzò. L’unica cosa che posso fare è dire tutto, tutti i segreti che mi sono portata dentro per cinquantasette anni. A costo di perdere la casa e macari la vita, che tanto oramai non servo piú a niente. Ecco che cos’è cambiato da ieri. E mi pareva giusto che fosse presente anche il commissario, che se lo merita –. Sorrise a Patanè.

– Alfonsina, la avverto che tutto quello che sta dicendo a me, poi lo dovremo verbalizzare. Lo dovrà ripetere, – comunicò Vanina, smorzando il tono.

– Lo so. Ma quello che le dissi ancora niente è, dottoressa, – rispose la donna.

Il vicequestore non nascose la sorpresa.

– Perché? Che altro ha da dirmi?

– Cose che cambiano tutto, mi creda.

– Me le racconti.

– Quando chiusero i bordelli, ognuna se ne andò per conto suo. Per molte si trattò solo di un trasloco: dalla casa alla strada. E non credo ci sia bisogno di dirle che di sicuro non fu un cambio conveniente. Altre, invece, dopo essersi finalmente riprese i propri diritti civili, riuscirono a cambiare vita. Alcune, come me, si sposarono e incominciarono a fare lavori dignitosi. Io per esempio ho fatto la sarta, per una vita. Qualcuna, ho saputo, è finita persino in un convento di clausura. Maria problemi non ne aveva. Aveva i soldi, una casa, un uomo che la manteneva e che era pure il padre di sua figlia. Era generosa, Maria. Queste stanze me le offrí subito, appena le dissi che mi sarei sposata con Giosuè. Mi farete da guardiani quando sarò fuori, diceva. Era l’unico compenso che ci chiedeva. A me e a Giosuè manco ci pareva vero.

– Lei conosceva di persona il cavaliere Burrano? – chiese Vanina.

– Di vista. Da prostituta non ci avevo mai… avuto a che fare, e dopo cercavo di farmi gli affari miei. Era un bell’uomo. Un poco superbo, come tutti i ricchi e i potenti. Luna diceva che comandare gli piaceva assai. Ma a lei andava bene cosí.

– E la bambina?

Alfonsina sorrise con tenerezza.

– La picciridda era bellissima. Io ero l’unica che la conosceva. La tenevano in un collegio. Maria mi raccontava che Burrano, malgrado la situazione difficile, voleva bene alla bambina. La sua unica figlia era.

Nell’immaginazione di Vanina, poco propensa a lasciarsi trascinare dal lato sentimentale della narrazione, iniziavano ad aprirsi scenari d’indagine impensabili.

– Cosa successe nel 1959? – chiese, restringendo il campo al racconto. Era certa che la donna ci sarebbe arrivata, ma con tempi infiniti.

– Maria, oramai, passava tutte le notti con Burrano. Certe volte era lui a venire qui, ma piú spesso era lei a raggiungerlo in quella villa dove ora… l’avete ritrovata. A un certo punto cominciò a parlare di grandi cambiamenti: Gaetano voleva partire, cambiare città per un poco di tempo, e voleva portarsi appresso pure la picciridda. Mi ricordo che parlava di Napoli. Poi a poco a poco il progetto diventò sempre piú concreto, tanto che pigliarono a Rita e la portarono in collegio lí. Era appena passato il Natale, e Maria partí da sola con la picciridda. Tornò dopo qualche giorno e iniziò a preparare il trasferimento. Mi pare che mi disse che lei e Burrano dovevano realizzare degli affari insieme là.

Vanina drizzò le orecchie. – Che genere d’affari?

– Non lo so. Di queste cose Maria mi raccontava sempre poco. Ai tempi del bordello mi diceva che meno sapevo e meglio era per me. Lei oramai era passata dall’altra parte…

Per un attimo sembrò perdere il filo. Proprio ora che la cosa si faceva interessante.

Patanè ascoltava in silenzio, serio.

Alfonsina riprese a parlare. – Era il primo giorno di Sant’Agata, me lo ricordo preciso, il 3 febbraio, quando Maria mi comunicò che era tutto pronto per partire e che io e Giosuè ci dovevamo occupare della casa. Ci lasciò pure un sacco di soldi, per le cose di tutti i giorni. Quella sera venne Burrano, e parlò con Giosuè. Gli disse che si fidava di noi. Te lo ricordi Giosuè?

Il marito annuí.

– Mi disse che qualunque problema succedeva a casa, dovevo rivolgermi a Di Stefano, che era persona di fiducia. Se ci penso che invece proprio Di Stefano lo ammazzò, mischino!

Persona di fiducia, annotò Vanina mentalmente.

– E poi che accadde? – chiese ad Alfonsina.

– Poi se ne andarono a Sciara, e Maria mi disse che sarebbe tornata a salutarmi la sera di Sant’Agata, e che sarebbero partiti da qui. Non la vidi mai piú.

Man mano che ascoltava il racconto, il vicequestore andava rielaborando l’interrogatorio cui avrebbe sottoposto Masino Di Stefano. Le questioni che non le tornavano iniziavano a essere troppe.

Alfonsina pareva sfinita: il colorito terreo, il respiro affannoso. Giosuè arrivò subito con una pillola e un bicchiere d’acqua. La donna la prese e chiuse gli occhi, inspirando a fondo.

– Alfonsina, se solo mi avessi raccontato tutte queste cose cinquantasette anni fa… – la rimbrottò il commissario Patanè, alzandosi appresso al vicequestore Guarrasi.

La donna non replicò.

– Dottoressa Guarrasi, la prego: mi prometta che prenderete il bastardo cornuto che ammazzò l’amica mia.

Vanina glielo promise.

– Alfonsina? – la richiamò poi, prima di andarsene.

– Sí, dottoressa?

– Che c’è dietro quell’apertura murata accanto al portoncino?

– Il garage, – rispose la donna, come se fosse ovvio.

– Ah, ecco. Ed è vuoto, immagino.

– No, la macchina ancora là è. Glielo dissi, niente toccammo, io e Giosuè.

– La macchina di Maria?

– No, Maria non sapeva guidare. La macchina di Burrano.

Vanina allibí. Piantata al centro della stanza, ci mise qualche secondo a elaborare la notizia.

Patanè, anche lui sgomento, guardò Giosuè che assentiva.

– Mi mostri questo garage, signor Fiscella, – ordinò il vicequestore, con ferma rassegnazione. Vedi tu se era logico tralasciare un dettaglio del genere. E la totale assenza di dolo in quella dimenticanza era evidente.

Giosuè li accompagnò di nuovo in casa della Cutò.

Aprí una porta laterale e s’infilò in un corridoietto di servizio, che finiva in una scala strettissima. Accese la luce, una misera lampadina da quaranta watt appesa al soffitto.

– Come mai avete mantenuto la luce elettrica? – chiese Vanina. Anche il giorno prima ci aveva fatto caso.

– Perché la luce nostra è attaccata con quella di questa casa. Perciò pagai sempre tutte le bollette di Luna, se no dovevamo fare un contratto nuovo e chi lo sa se ci chiedevano documenti della casa… complicazioni. E poi me l’aveva detto Luna: Giosuè, mi raccomando, quando io non ci sono pensa a tutto tu. Macari i soldi mi lassava.

Alla base delle scale, in un pianerottolo semibuio, tirò fuori un’altra chiave e aprí una porta, stavolta di ferro, che conduceva in un ambiente dall’aria cosí pesante e umida da risultare quasi irrespirabile.

Patanè prese a tossire.

– Commissario, si sente male? – si allarmò Vanina.

– No, no. La polvere è, – alzò gli occhi. – Giosuè ma dove minchia siam… – La domanda rimase a metà.

Vanina seguí la direzione del suo sguardo attonito, fisso su un’automobile che giaceva sepolta sotto una montagna di polvere, in un garage dall’apertura murata. La prima cosa che controllarono, entrambi, fu il modello: era una Lancia Flaminia.

Si avvicinarono lentamente alla macchina. Patanè spostò la polvere con un dito per vedere il colore, che alla flebile luce dell’ennesima lampadina appesa a Vanina parve blu, o nero.

– Commissario! Ma questa non è la Flaminia rubata da Di Stefano?

Patanè annuí, interrogando con lo sguardo Giosuè, che se ne stava pacifico in un angolo, ignaro del significato di quell’auto.

– Luna mi chiese di non fare entrare mai nessuno qui, e io cosí feci. Per essere piú sicuro, dal momento che lei non tornava, di notte e notte murai l’entrata, – spiegò.

Era assurdo da credere, ma quei due, marito e moglie, avevano vissuto tutta la vita in una sorta di realtà parallela. La serenità con cui Giosuè confessava di aver obbedito semplicemente agli ordini della sua ex padrona, eseguendoli e basta, senza mai chiedersene il perché, ne era la riprova.

Patanè si avvicinò alla maniglia della portiera, fece per aprirla ma Vanina gli bloccò il braccio.

– Mai a mani nude, commissario, – gli ricordò, tirando fuori dalla tasca un paio di guanti in lattice che portava sempre con sé. – Uno io e uno lei.

Patanè accennò un sorriso. Infilò il guanto e aprí la portiera dal lato del guidatore.

– Aperta la lasciasti, Giosuè, – constatò.

– Aperta la trovai, commissario. Chiavi il cavaliere non me ne diede. Per questo murai l’entrata, perché se no, macari se io e Alfonsina abitavamo qua sopra, ’sta macchina ’sa quante volte se la sarebbero arrubbata. Lei se lo ricorda che era ’sta zona fino a qualche anno fa, commissario?

Vanina focalizzò l’attenzione sul sedile posteriore. Aprí la portiera di dietro e contemplò i bagagli: tre borse di cuoio di dimensioni diverse, e due scatole incartate e infiocchettate. Non toccò nulla e ricordò a Patanè di fare altrettanto.

Da quell’automobile, lei ne era sicura, sarebbe saltato fuori un tesoro inestimabile d’indizi, che lei non aveva nessuna intenzione di alterare.