12.

A fine settembre, caldo o freddo che ci sia, Aci Trezza torna in modalità invernale. Niente piú solarium né passerelle, niente lidi aperti, i pontili nel porto turistico in fase di dismissione.

Il catanese tipico, diceva Adriano, chiude la casa al mare già alla fine di agosto, al rientro dalle ferie, e si trasferisce in montagna. Quella stessa montagna che da giorni vomitava fuoco senza sosta.

E invece i primi di settembre spesso c’è il mare migliore di tutta la stagione.

In quel borgo marinaro, davanti ai faraglioni neri, Vanina ci aveva trascorso quasi tutta l’estate. O piú correttamente: gli unici giorni estivi in cui nessuno aveva ammazzato nessuno in territorio catanese.

Era la prima volta, dal ritrovamento del cadavere a villa Burrano, che Vanina si concedeva una pausa pranzo piú lunga del solito. Ma non era un buon segno.

Vassalli la stava tirando per le lunghe già da alcuni giorni. L’aveva ascoltata senza batter ciglio, un paio di volte perfino annuendo, aveva preso atto della sua richiesta di mettere sotto controllo i telefoni della Burrano, e di riaprire un’indagine anche sul processo a Masino Di Stefano. Ma la risposta finale era stata che doveva pensarci su. Si trattava di indagare su una persona incensurata, sulla base di indizi che lasciavano il tempo che trovavano, e di richiedere la revisione di un caso risolto da piú cinquant’anni con tanto di colpevole che aveva scontato una pena.

I giorni erano passati. Le previsioni meteorologiche avevano fallito in pieno, e il fine settimana a Noto era saltato anche quella volta.

L’unica buona notizia, fino a quel momento, proveniva dalla Scientifica. Il Dna ricavato dalla spazzola e dal pettine che avevano trovato a villa Burrano, e quello estrapolato dagli oggetti presi dal cassetto del Valentino corrispondevano al Dna del cadavere mummificato. Il che confermava in modo definitivo che la vittima era Maria Cutò. Manenti l’aveva stupita con effetti speciali, per la prima volta in undici mesi. Da un paio di oggetti poggiati sulla scrivania di Burrano, che giorni prima lei lo aveva obbligato a esaminare minuziosamente, era riuscito a ricavare addirittura qualche vaga impronta.

Peccato che da quando Vanina aveva messo a parte il pm, l’indagine pareva entrata in una fase di stallo assoluto, che di sicuro non le avrebbe giovato.

Maria Giulia De Rosa la colse alle spalle seduta sotto il gazebo del pontile, mentre fissava l’isola Lachea persa nei suoi pensieri.

– Secondo te Visconti la scena del porto in La terra trema la girò qui o nell’altro porticciolo? – chiese Vanina.

L’avvocato la guardò interrogativa. La scena di… cosa?

La terra trema, il film di Visconti basato sui Malavoglia di Verga, girato qua ad Aci Trezza usando attori non professionisti… Dài, non mi dire che una catanese purosangue come te non lo conosce!

– E quando sarebbe stato girato ’sto film?

– Nel 1948, Giuli. Ma lascia stare, in effetti era difficile che lo conoscessi.

– Vani, io capisco la collezione, capisco il cinema d’autore, ma vedi che non è normale che una della tua età passi il tempo a guardare film girati nel ’48.

Il vicequestore le rivolse un’occhiata rassegnata. Meno male che c’era Adriano.

– Comunque secondo me nel ’48 ’sto schifo non c’era, – divagò l’avvocato.

L’occhiata di Vanina divenne perplessa.

– No, dico, hai visto l’acqua? – fece Giuli, sdegnata.

Il vicequestore abbassò lo sguardo sul mare all’interno del porto, sporgendosi un po’ in avanti.

Da un’apertura sotto la banchina, proprio accanto al pontile, scorreva uno scarico d’acqua marrone di dubbia provenienza. Libero e diretto. Ora che ci faceva caso anche parecchio maleodorante.

– E che è ’sto schifo?

– Fogna, tesoro.

– Stai scherzando, spero.

– Perché? Non lo sapevi che la fognatura di questa costa finisce a mare?

– E tu, meno di un mese fa, mi hai lasciato toccare le cime del tuo gommone senza avvertirmi?

– Tranquilla, vicequestore. Quando sei venuta tu lo scarico non c’era. O meglio, c’era ma schifezze non ne fuoriuscivano. Sotto questo piazzale c’è una vasca enorme, che contiene tutta la fognatura di Aci Trezza. Normalmente un meccanismo primitivo, regolato da una sorta di pompa, convoglia parte dei liquami in una condotta che sfocia dall’altro lato del paese.

– Sempre a mare? – s’informò Vanina.

– Ovvio. Ma che domande fai? – fece Giuli, sarcastica. – Quantomeno però non arriva dentro un bacino chiuso, in mezzo alle barche. Quando ’sta pompa arcaica si rompe, la vasca si riempie. E la fogna tracima dalle aperture sotto la banchina.

– Ma questa non era un’area marina protetta, che se butti un’ancora vengono a farti la multa in mezzo secondo perché disturbi la fauna?

– Lo conosco io un tipo di fauna che bisognerebbe disturbare pesantemente. È bipede, e non ha branchie.

– Ma perché non l’aggiustano?

– Di solito passano almeno quattro-cinque giorni, prima che la sistemino.

– Di solito? Perché, si sfasciò altre volte?

– Quasi ogni anno. E t’è andata bene che non è successo quando sei venuta tu. Una volta capitò ad agosto. Ti lascio immaginare i tempi biblici che ci sono voluti per farla aggiustare in quel periodo. Interlocutori ovviamente zero. E nessuno che si smuovesse per aiutarmi. Tutti rassegnati. Tutti speranzosi che il famoso collettore fognario di cui si parla da anni venga finalmente costruito. Tanto le cime le fanno sistemare a quei poveretti di marinai, che sui pontili ci lavorano e ogni volta che succede ’sto schifo si disperano. Ho sollevato un polverone che manco puoi immaginare. Telefonate, Guardia Costiera, pure Legambiente ho chiamato.

Maria Giulia De Rosa non faceva sconti a nessuno. In questo lei e il vicequestore Guarrasi s’intendevano alla perfezione. Senza contare che il gommone Clubman 26, dotato di due motori quattro tempi da 250 cavalli, era forse l’oggetto cui l’avvocato teneva di piú. Un bestione di quasi nove metri che le permetteva di scorrazzare per tutta la costa orientale, Eolie comprese.

– Scusa se t’ho fatto arrivare fino a qua, ma dovevo saldare i conti col pontile. Se ti va ci mangiamo una cosa insieme, – disse Giuli, allontanandosi dal porto e puntando una trattoria fronte mare di cui era un’habitué. Lí sapevano, senza che lei lo dovesse specificare, che non voleva il prezzemolo sulla pasta, che era allergica sia al pepe che al peperoncino, che il tonno lo mangiava pressoché crudo, e che in ogni caso aveva fretta. Sempre.

E soprattutto, i proprietari erano clienti storici di suo padre.

– Ho pianificato tutto per New York. Se mi dài l’ok procedo, – se ne uscí l’avvocato, appena si sedettero al tavolo.

Vanina rifletté che forse non era stata una grande idea quella di raccontare a Giuli che le sarebbe piaciuto tornare a New York. Aveva buttato lí l’idea cosí, senza pensarci troppo, e lei, che notoriamente afferrava al volo qualunque possibilità di trasvolare l’oceano, ci si era attaccata come una ventosa.

– Fine novembre. Dopo il giorno del ringraziamento, cosí ci sono già gli addobbi natalizi, – aggiunse Maria Giulia, avventandosi sul cestino del pane con l’entusiasmo che traspariva dagli occhi.

Vanina già se la vedeva, a girare per New York con la piantina di tutti i santuari dello shopping in mano, immedesimata in Sarah Jessica Parker con qualche digressione alla Audrey Hepburn davanti alle vetrine di Tiffany.

Lontana da lei come il giorno dalla notte, ma rilassante come nessun’altra compagnia.

– Girami il programma, e ti faccio sapere, – le rispose, cauta.

New York per lei era un luogo eletto, dove le piaceva rifugiarsi per estraniarsi dal suo mondo. L’ultima volta che l’aveva fatto era stato prima di trasferirsi a Milano. Aveva dato fondo ai suoi risparmi e c’era rimasta un mese intero, a leccarsi le ferite che si era appena autoinferta.

– Possiamo anche cambiare periodo, se non ti va bene. Dimmi tu quando è piú tranquillo per te.

– Cioè quando sono sicura che non ammazzeranno nessuno per cinque giorni?

– Vabbe’, Vanina, ho capito. Non sei in vena. Basta che non te ne penti, per me va bene tutto, anche un last minute. Però peccato perché avevo trovato una super offerta su Booking per un hotel fichissimo.

Vanina faceva fatica ad associare il termine «fichissimo» a una reale occasione di risparmio. Conoscendo Giuli e i suoi standard, doveva trattarsi come minimo di un cinque stelle progettato da Philippe Starck che, con un grande colpo di fortuna, l’avvocato aveva trovato in offerta a trecentonovantanove dollari a notte anziché cinquecentocinquanta. Un’opportunità da non farsi scappare!

Posti che lei non si sarebbe neppure sognata di prendere in considerazione.

– Ci penso seriamente, – le assicurò.

Ordinarono due piatti di linguine con la zoccola, la cugina trezzota dell’aragosta, uno dei quali ovviamente arrivò senza prezzemolo e senza peperoncino.

– L’altra sera ti ho pensato, – disse Giuli con aria seria, dopo il primo boccone.

Vanina scese dall’ultimo piano dell’Empire State Building, dove si era rifugiata col pensiero.

– Ed è un fatto strano? – scherzò, in allerta.

– Idiota! Ho visto il telegiornale. Ti hanno nominata.

Vanina si raddrizzò sulla sedia.

– Giuli, preferisco non parlarne.

– L’ho immaginato. Infatti, come vedi, non ti ho chiamata subito come avrei voluto. Poi però ho passato un giorno a pensare che credevo di sapere ormai quasi tutto di te, e invece ignoravo cose cosí importanti. Mi è dispiaciuto.

– Sono fatti che evito di ricordare.

– Hai salvato il giudice Malfitano, amica mia. Non è cosa da tutti. Dovresti andarne fiera.

– Giuli, credimi, non è cosí semplice, – tagliò, buttandosi sulle linguine prima che lo stomaco le si chiudesse.

Giuli la lasciò finire.

– È lui, vero? – esordí, mentre aspettavano il conto.

– Chi?

– Quello che hai lasciato a Palermo e di cui non mi hai mai raccontato niente.

– Sí, Giuli, è lui, – sospirò Vanina, esausta. – Contenta?

– E gli hai pure salvato la vita.

– Sí, gli ho salvato la vita –. Quella volta l’arma in mano ce l’aveva. Non era indifesa. Quella volta aveva potuto ammazzare tutti.

– E poi l’hai lasciato.

Vanina non rispose.

Giuli rispettò il suo silenzio.

– Perciò, ho saputo che hai conosciuto Alfio Burrano, – disse, saltando di palo in frasca.

Parlarono un po’ dell’indagine, e di Vassalli che si era ammazzarato sulle ultime novità. L’avvocato era una di cui ci si poteva fidare, e in piú conosceva mezza città.

– E figurati! La signora Burrano sta sulle palle a tutta Catania, ma nessuno mai osa allontanarla in modo esplicito o estrometterla da un giro, – commentò subito.

– Perché?

– Perché è potente, tesoro. E ha amicizie potenti. Pure quel poveretto di Alfio, che non è mai stato una cima, è legato mani e piedi a lei.

Niente di nuovo, in fin dei conti, tranne un particolare, che le si attaccò nell’orecchio come una pulce molesta.

Teresa Burrano non era solo ricca e stronza. Era potente. E temuta.

Qualcosa le diceva che non lo era diventata in vecchiaia.

Spanò le venne incontro sulle scale.

– Meno male che arrivò, capo!

– Che fu, Spanò? Non mi dica che il dottor Vassalli ha deciso di smuoversi, – scherzò Vanina, vedendolo in ansia.

– No, dottoressa. Il dottore Macchia vuole vederla subito nel suo ufficio. Cosa importante è.

Il vicequestore affrettò la salita.

– E noi non abbiamo nessuna idea di cosa voglia dirmi?

Per riguardo Spanò non l’avrebbe mai ammesso esplicitamente, ma l’ufficio di Macchia per lui non aveva segreti. Con o senza la benedizione del Grande Capo, le notizie che potevano interessargli lo raggiungevano con la velocità di un sms, assai prima di riceverne comunicazione ufficiale.

– Veramente… qualcosa avrei intuito, – rispose l’ispettore, sottovoce.

Vanina si fermò a metà scala.

– Cioè?

– Una telefonata per lei da Palermo. Da un certo avvocato Massito. Lo conosce?

Il vicequestore si concentrò in uno sforzo mnemonico. Massito. Qualcosa le ricordava, quel nome.

Spanò avanzò verso di lei, abbassando ancora di piú la voce.

– Credo sia il legale di qualche pezzo da novanta.

Vanina riprese a salire, seria. Quell’informazione non le piaceva. Coi pezzi da novanta palermitani aveva smesso di averci a che fare da anni, e non aveva nessuna intenzione di riprendere i contatti. E doveva essere pure una faccenda delicata se Tito Macchia aveva preferito aspettare che tornasse invece di farla richiamare per telefono.

I gradini parevano moltiplicarsi in misura direttamente proporzionale alla tensione che cresceva. E diventava irritazione, e infine rabbia. Chi cazzo era ’sto Massito?

– Ugo Maria Massito, avvocato penalista, patrocinante in Cassazione, – illustrò Tito, allontanando il foglio per non inforcare gli occhiali. – Difensore di tutta la feccia di Palermo e dintorni, ma questo qui non c’è scritto, – aggiunse.

Aveva mandato via tutti, segno che la questione non riguardava la squadra, o le indagini, ma solo lei: il vicequestore Giovanna Guarrasi. Che ora lo guardava col fiato sospeso.

– Un cliente di questo avvocato Massito dice di voler parlare con te, – disse Macchia, sintetico. Tornò sul foglietto, stavolta con gli occhiali sul naso. – Rosario Calascibetta, detto Tunisi, da otto anni detenuto nell’ala dei collaboratori di giustizia dell’Ucciardone. Uno che a rigor di logica tu dovresti conoscere.

Vanina restò in silenzio, sorpresa.

Tunisi. Le veniva il voltastomaco al solo ricordare la sua faccia. Un mafioso vecchio stampo, un confidente della peggior specie, di quelli che le cose non le dicono chiaramente ma le fanno capire a colpi di metafore e di personaggi inventati. Uno con cui aveva chiuso la partita anni prima, e in modo definitivo. E ora era un collaboratore. Che poteva volere da lei?

– Come no. Certo che lo conosco. Un galantuomo. Lo sai perché lo chiamano Tunisi? Perché negli anni Ottanta diventò un pezzo da novanta nel business dell’eroina smerciando a Palermo carichi provenienti dalla Tunisia.

Tito si tolse gli occhiali. – Vani’, parliamoci chiaro. Lo so che si tratta della tua vita privata, ma io ho bisogno di sapere in che rapporti sei con Paolo Malfitano –. Vanina trasalí leggermente e Macchia se ne accorse. – Voglio dire: sei a conoscenza di qualcosa che può comprometterti? Hai raccolto sue confidenze?

– Allora, Tito, – disse, schiarendosi la voce, che s’era arrochita. – Ho bazzicato l’antimafia abbastanza da sapere che quando ci sono di mezzo individui come Tunisi non c’è privato che tenga. Perciò ti rispondo subito, e in sequenza. Uno: non vedo né sento Paolo da piú di tre anni. Due: ovviamente non so nulla del suo lavoro. Tre, ma questa è una mia opinione perciò prendila con beneficio d’inventario: non credo che uno come Tunisi verrebbe a cercare proprio me come intermediaria per raggiungere Paolo Malfitano.

– Significa che non avrebbe motivo di farlo o che non gli converrebbe farlo? Vanina, sii chiara per piacere, – chiese Tito, guardingo.

– Diciamo che Rosario Calascibetta detto Tunisi, se a settant’anni suonati si trova ancora all’Ucciardone nonostante le numerose collaborazioni con la giustizia, lo deve alla sottoscritta.

– Perciò potrebbe avercela con te?

– Leverei il condizionale, – tirò fuori una sigaretta, ma il dito indice di Macchia partí con un movimento negativo che la costrinse a non accenderla. Ed era un fumatore. – Mi stupisce che uno come lui abbia ancora voglia di parlare con me, – concluse il vicequestore.

– In ogni modo, questo è il numero di Massito, – disse il capo, allungandole un foglietto. – Può darsi che con te sarà piú esplicito. Però qualora dovessi decidere di andare, ti consiglio di portarti dietro qualcuno. Spanò, o Fragapane, o chi vuoi tu.

– Perché, pensi che potrebbe aver organizzato un attentato nella sala colloqui del carcere? – disse il vicequestore, con mezzo sorriso ironico.

– Guarrasi, vedi di smetterla col sarcasmo, e fammi sapere cosa vuole da te questo tizio.

Macchia era uno disponibile, tollerante, ma se la chiamava col cognome significava che s’era innervosito.

Vanina raccolse il foglietto col numero e si ritirò nel suo ufficio.

Lo sguardo apprensivo di Spanò la seguí fin dietro la sua scrivania.

– Tutto bene, capo?

– Tutto bene, Spanò. Non se la prenda ma dovrei fare una telefonata, e vorrei farla da sola.

L’ispettore batté in ritirata, non senza prima averle lanciato un’occhiata indagatrice. Ma a parte un notevole fastidio, che non poteva negare, Vanina non provava piú nessuno sgomento. Sapere che c’entrava Tunisi, la cui partita con la giustizia, e pure con la mafia, a rigor di logica doveva essere veramente chiusa da tanto tempo, escludeva quasi del tutto il coinvolgimento di Paolo. Quasi.

Massito fu breve: niente voli pindarici, né giochi di parole. Il suo cliente era a conoscenza di alcune informazioni che potevano essere utili al vicequestore Guarrasi ed era disposto a condividerle con lei. Nel piú breve tempo possibile.

Chiaro come il messaggio di un risponditore automatico.

E non lasciava spazio a dubbi di sorta: se voleva sapere di che si trattava, la strada era una sola, e portava all’Ucciardone.