13.

La decisione di muoversi subito, in realtà, Vanina l’aveva presa prima ancora di sentire l’avvocato. Sarebbe partita al piú presto e senza portarsi dietro nessuno.

Non era per sfiducia, né per quella scarsa capacità di lavorare in squadra per cui l’avevano sempre rimproverata tutti i superiori che si erano avvicendati sopra la sua testa. Tutto quello che riguardava Palermo apparteneva a un’altra vita, dalla quale Spanò e gli altri della squadra erano automaticamente esclusi. Tito ogni tanto indulgeva con lei in un atteggiamento protettivo che, Vanina ci avrebbe scommesso, non avrebbe mai avuto se non fosse stata una donna. E le pareva ovvio che nel caso specifico non fosse necessaria nessuna scorta. Dal momento che una bonaccia uggiosa continuava a impantanare il caso sciantosa, tanto valeva approfittarne e non perdere altro tempo.

La telefonata di Adriano Calí la raggiunse all’area di servizio Sacchitello nord, mentre meditava sulla salubrità della Coca-Cola Life rispetto alla Zero, meno calorica, ma piena di dolcificanti, o peggio ancora alla Coca-Cola autentica che restava sempre la numero uno, specie se in bottiglia di vetro.

– Ma dove sei, che si sente un baccano infernale? – chiese il medico legale.

Vanina si accorse che una scolaresca schiamazzante aveva appena fatto irruzione nell’autogrill e si accingeva a svuotare il bancone dei panini con la rapidità di un branco di lupi affamati.

– Vicino Enna, – rispose, abbandonando il bar in direzione della Mini, parcheggiata là davanti.

– Non mi dire che sei andata all’outlet senza dirmelo, – s’inalberò.

Vanina dovette fare uno sforzo mnemonico per ricordarsi che prima di Enna c’era una città dello shopping scontato, di quelle che prima si vedevano solo al Nord. E prima ancora solo negli Stati Uniti.

All’outlet! Certe idee potevano venire solo a lui.

– Ma quale outlet, Adriano. A Palermo sto andando.

– Ahhh, mi pareva. Ricordati che mi hai promesso di andarci insieme.

Non se lo ricordava proprio, ma lo fece contento e gli disse di sí.

– Per questo mi chiamasti? – lo punzecchiò.

– Ma se manco lo sapevo che eri in viaggio. Ero venuto in ufficio, a portarti una cosa. Un dvd. Speravo che potessimo vedercelo insieme, da te o da me.

– Luca è partito?

– No, ma sta lavorando per essere libero di venire a Noto il prossimo fine settimana. Ehi, non è che te lo sei scordato, vero?

– No, no. Anzi, sono quasi sicura di poterci venire.

A meno che quello che stava andando a fare a Palermo non la facesse precipitare in qualche acquitrino putrido, di quelli che non avrebbe voluto piú vedere neppure in lontananza. Ma francamente le pareva un’ipotesi surreale.

– Quando torni?

– Domani pomeriggio, credo.

– Ok, allora non ti anticipo niente. Domani sera cineforum piú pizza, scegli tu se da me o da te. Ti assicuro che non te ne pentirai.

– ’sto fatto che fai il misterioso non promette niente di buono. Comunque va bene, a qualunque ora mi sbrighi ci vediamo. Ma da me. Le pizze che ordini tu a domicilio sono cosa di giocarci a frisbee, mentre a Santo Stefano tra la pizzeria accanto al teatro e il bar vicino casa mia ce la passiamo molto meglio.

– Minchia quanto sei difficile, vicequestore. Però vedrai che alla fine mi ringrazierai.

La lasciò con quella promessa, che in un’altra occasione avrebbe sortito l’effetto voluto, ma che in quel momento, con la prospettiva dell’incontro che avrebbe fatto l’indomani, lasciava il tempo che trovava.

Appena dopo il tratto del viadotto Himera, quello crollato, da poco riaperto a una sola corsia di marcia sul lato sano, Vanina s’infilò l’auricolare e schiacciò il tasto di chiamata.

– Capo! – le rispose la voce dall’altra parte del telefono.

– Manzo, come stai?

– E come vuole che stia! Infognato in un caso che piú rompipalle non potrebbe essere.

Il sovrintendente Manzo era stato il suo braccio destro – lui diceva anche il sinistro – prima al commissariato Brancaccio e poi alla sezione Criminalità organizzata della Mobile di Palermo. Sempre al suo fianco, fedele. Tanto fedele che ancora adesso, a dispetto del suo nuovo superiore che di sicuro non avrebbe gradito la cosa, continuava a chiamarla «capo».

– Senti, Angelo, io sto per arrivare a Palermo. Ho bisogno di vederti. Pensi di farcela a liberarti per dieci minuti, diciamo… alle sette?

– E che c’è dubbio, capo? Per lei mi libererei pure se non potessi.

– Finiscila co’ ’ste sviolinate, e non fare minchiate. Se non puoi non puoi. Che t’ho insegnato in tanti anni?

– Posso, dottoressa, non si preoccupi. Dove vuole che ci vediamo?

– Ti viene complicato raggiungermi in via Roma? Potremmo vederci al solito bar vicino casa di mia madre.

Manzo non la fece neppure finire. – Alle sette là. A dopo, capo.

Ecco la parte di autostrada che le piaceva di piú.

Era sempre tentata di fare una deviazione. Perdersi tra le Madonie e raggiungere Castelbuono, il paese di suo padre. Comprare un panettone alla manna, e poi fermarsi a guardare il castello dov’era stata girata una parte di Nuovo Cinema Paradiso, uno dei piú bei film della sua collezione. Ma non lo faceva mai.

Poi arrivava il mare. La visuale si apriva sulla costa, massacrata da zone industriali e obbrobri edilizi, che deturpavano lo scenario. Che peccato a Dio, pensava ogni volta.

A Capo Zafferano, Palermo ormai era vicina.

La vista del Monte Pellegrino le fece battere il cuore. Perché Vanina Guarrasi Palermo l’amava come non avrebbe mai amato nessun’altra città nella sua vita. Anche se se n’era scappata e faceva di tutto per non tornarci, anche se quello che aveva lasciato lí era un carico tanto pesante da sostenere da indurla a rinunciarci, anche se era sicura che non fosse piú il posto per lei, Palermo era la sua città.

Vanina sperò che l’ingresso in città non le riservasse sorprese, tipo il traffico piú intenso del solito – e ce ne voleva! – o qualche nuova deviazione. Superò il consueto dilemma se passare per il porto, da via Giafar, o infilarsi in via Oreto fino alla stazione. Optò per la prima, che le piaceva di piú.

Alla Cala, il display del telefono s’illuminò con un messaggio di Manzo: «Sono qua». Erano le sette meno tre minuti.

Il sovrintendente stava smanettando col telefono. La tazzina vuota indicava che aveva già preso il decimo caffè della giornata.

– Manzo, – lo richiamò Vanina.

Quello scattò in piedi.

– Capo! – disse, stringendole la mano con calore.

Pareva quasi commosso. O magari lo era. Come lei del resto, era inutile negarlo.

Si sedettero a un tavolino, si raccontarono gli ultimi quattro anni. Insomma, proprio tutto no. L’essenziale, in modo sintetico.

– Senti, Angelo, ho bisogno di un paio d’informazioni.

– A disposizione, dottoressa.

– Vedi che non mi va che si venga a sapere che te le ho chieste, eh.

Manzo ci rimase male.

– Ma secondo lei c’era bisogno di specificarlo?

Aveva ragione lui.

– Rosario Calascibetta, – disse il vicequestore.

– Ma chi, il vecchio Tunisi? – fece Angelo, sorpreso. – E che vuole sapere, dottoressa? È domiciliato all’Ucciardone da quando ce lo mandò lei. Collabora un colpo sí e l’altro ní, ma intanto sta nel settore dei collaboratori di giustizia. Oramai non conta niente, né fuori dal carcere né dentro. Mi sono spiegato?

Vanina si soffermò sull’ultima frase. Che poi era quello che aveva immaginato pure lei, per questo era sicura che con le indagini di Paolo non c’entrasse. Già questo bastava a tranquillizzarla in parte.

– E niente successe ultimamente, che tu sappia, che può avere smosso le acque in qualche modo? Riportato a galla cose vecchie, cose su cui magari avevamo lavorato noi…

– Che io sappia no, – rispose il sovrintendente, concentrato. – Ma perché mi sta chiedendo queste cose, capo? Non mi dica che si è rimessa con la Criminalità organizzata.

– No, per carità! Ho già dato abbastanza. Solo che stamattina Tunisi ha chiesto di parlarmi e io devo cercare di immaginare cosa possa dirmi. Sono fuori dal giro da troppo tempo, ti confesso che non ne ho la piú pallida idea.

Manzo ragionò in silenzio.

– Ma chissà con che stronzate se ne uscirà, il vecchio delinquente.

– Perché dici cosí?

– Perché quello farebbe di tutto per accorciarsi il soggiorno in carcere.

– Perciò devo aspettarmi di tutto, e devo prendere con le molle tutto quello che mi conterà. È questo che vuoi dirmi? – fece il vicequestore, dopo una pausa di meditazione.

Manzo allargò le braccia. – Sinceramente non riesco a immaginare cos’abbia quel vecchio catorcio da dirle.

Le assicurò che sarebbe tornato in ufficio e avrebbe fatto una piccola ricerca. Se avesse trovato novità l’avrebbe avvertita subito.

– Grazie, Angelo.

– Sempre un piacere lavorare per lei, capo.

Era quasi arrivata alla macchina, quando lo vide tornare indietro ansante.

– Che fu? – gli disse, sorridendogli.

– Senta, capo, preferisce che domani l’accompagni io? No, perché io se lei vuole mi prendo mezza giornata libera e…

– Manzo, levatelo dalla testa. Ti ringrazio in anticipo per la ricerca che farai, e la prossima volta che ci sentiamo ti conto come andò. Basta.

Il sovrintendente fece la faccia incerta di chi non sa se crederci o no, e però deve abbozzare. La risalutò, ancora una volta.

– Io ci spero, capo, – disse, prima di andarsene.

– In che cosa?

– Che prima o poi lei tornerà a Palermo. Questione di tempo.

Se ne andò cosí, speranzoso. E Vanina non ebbe cuore di disilluderlo.

La serata in casa Calderaro era stata un supplizio. Il matrimonio di Costanza era stato l’argomento principale, cui Vanina era stata costretta a partecipare suo malgrado. Il letto era scomodo, la stanza calda. Il pensiero dell’indomani tedioso.

Alle due di notte era arrivato un messaggio telegrafico di Manzo: «Niente di nuovo».

L’agente di polizia penitenziaria che l’aveva scortata dall’ufficio matricole fino all’area magistrati dell’Ucciardone aveva pensato di farle cosa gradita mostrando di ricordarsi di lei attraverso la rievocazione di tutte le sue indagini piú eclatanti. Per aggiungere il carico da undici, infine, aveva riesumato «la piú coraggiosa, la piú indomita, la piú rischiosa» delle sue azioni: la sparatoria in cui «aveva fatto fuori un pericolosissimo killer in azione, salvando cosí un illustre magistrato da morte certa».

Vanina gli avrebbe tappato volentieri la bocca con un metro di nastro isolante, se ne avesse avuto a disposizione.

E ora era lí, nella sala interrogatori di quel carcere borbonico, in attesa che Rosario Calascibetta detto Tunisi fosse condotto a colloquio davanti a lei. Le sembrava di aver fatto un salto indietro di cinque anni, e non era una bella sensazione.

L’uomo che le si materializzò davanti, scortato da due pizzardoni, era piú piccolo e piú curvo di come se lo ricordava lei. Però il sorriso sbilenco che si fermava a metà delle labbra, il naso leggermente schiacciato e lo sguardo storto negli occhi piccoli e scaltri, quelli erano immutati. Tony Sperandeo nella parte di Tano Badalamenti ne I cento passi, ma con una trentina d’anni in piú sul groppone.

– Vicequestore Guarrasi, – fece l’uomo, chinando il capo in segno di saluto ma senza abbassare lo sguardo.

– Signor Calascibetta. Aveva chiesto di parlarmi.

– Ha fatto bene a non perdere tempo. Lei lo sa, nelle indagini è questione di giorni, puru di ore, e la verità sparisce definitivamente, – aprí tutte e dieci le dita verso l’alto, mimando una vaporizzazione.

Tre minuti di conversazione e già quel rottame di un mammasantissima le stava smuovendo i nervi.

– Tunisi, cerchiamo di essere chiari e concisi, perché io tempo da perdere non ne ho: se ha qualcosa d’importante da dirmi lo dica. E non mi conti minchiate, che tanto me ne accorgo.

– Non s’incazzasse, dottoressa Guarrasi. Che la facevo venire da Catania per cuntarle minchiate? – fece quello, il sorriso sempre piú sghimbescio.

– La ascolto.

– Lei lo sa qual è stata sempre la fortuna delle famiglie nostre, soprattutto un tempo, qua in Sicilia?

Tunisi non pronunciava mai la parola mafia, Vanina se lo ricordava. Usava altri termini: famiglia, organizzazione, società.

– Quale? – gli chiese, rassegnata ad assecondare tutta la pantomima.

– Le corna. Omicidi nostri che a voi invece risultarono come storie di corna ce ne sono assai. E prima era ancora piú facile, che c’era puru la legge che se ammazzavi a uno che se la faceva con tua moglie, manco tanta galera ti facevi. Un cornuto di turno si trovava sempre, – fece una pausa e la guardò.

– Grazie per la lezione di storia, Tunisi, ma non mi sta contando una grande novità. E perché secondo lei sta cosa delle corna mi dovrebbe interessare?

– Lo sa, dottoressa, in quella cella fitusa il tempo non passa mai, perciò mi pigliai l’abitudine di leggere libri. L’ultimo era di Sciascia. Uomo intelligente doveva essere.

– Tunisi, se ancora perdiamo tempo mi alzo e me ne vado. E da quella cella fitusa lei ne esce con i piedi avanti, magari tra altri quindici anni, nonostante le sue collaborazioni.

– Ma perché la sta pigliando cosí, dottoressa? Oramai dalle questioni grosse mi ritirai io e pure lei. Io da una parte e lei dall’altra, ma sempre fuori siamo. E a me la testa mi disse accussí, che se so qualche cosa che può aiutarvi a non prendere cantonate, mi pare peccato tenermela per me.

Vanina tirò un respiro e contò fino a dieci, per non insultarlo.

– Eravamo rimasti alle corna, – suggerí.

– Le conto una cosa accussí fuodde che lei non ci crederà. Una volta successe che, al contrario, ammazzarono a uno che amanti ne aveva a tignitè: fimmine maritate, schiette, ricche e puru prostitute. Uno che unni pigghiavi e pigghiavi qualcuno che lo voleva morto lo trovavi. E invece giusto giusto a chi incolparono? A un cugino mio. Uno che apparteneva a una famigghia delle piú accanusciute. E temute, se vogliamo precisare. Uno che a quello non aveva nessunissimo motivo di volerlo morto. Ma niente da fare: tutte le prove contro aveva, puru se diceva di essere ’nnucenti. Lei che dice, dottoressa: in questo caso era cchiú potente la famigghia delle corna oppure la famigghia degli affari?

Il vicequestore trasecolò. Ma che stava tirando fuori, quel figlio di buona donna?

Prese respiro e sparò una domanda cifrata. – E la famiglia degli affari non si difese in nessun modo?

– E come, dottoressa? Prove a favore non ce n’erano. Forse si erano perse strada strada, oppure chi lo sa, erano nascoste accussí bene che nessuno arriniscí a trovarle.

– Qualcuno le aveva nascoste di proposito?

– Oppure il morto si era conservato le sue cose cosí bene che non si ritrovarono piú, per tanti anni. E in galera questa volta ci andò un innocente della parte nostra.

Il riferimento era manifesto. Certo, Masino Di Stefano era cugino di Rosario Calascibetta come lei era la sorella del papa, ma questo non cambiava la sostanza delle cose.

– Tunisi, uno della parte vostra innocente innocente non può essere mai. Buoni motivi per finire in galera ne ha a decine, – rilanciò.

– Questo non c’entra. L’omicidio è omicidio. Quella persona non era capace di tenere una pistola nelle mani. Perciò…

– E immagino che questo presunto assassino la vittima la conoscesse bene.

– Il sonno si spartivano. Ma forse proprio questo fu l’imbroglio.

Vanina lo guardò negli occhi, diffidente.

– Tunisi, non è che lei ’sta storia l’ha letta da qualche parte e ha pensato di prendermi in giro, vero?

– Dottoressa, deve fidarsi delle mie parole. E ora le dimostro puru perché. La famiglia di mio cugino e il morto, interessi in comune assai ne avevano. Vero è che questo significava che il signore in questione pulito pulito non era, ma una cosa era sicura: che di no a un affare grosso, soprattutto con loro, non l’avrebbe detto mai. E infatti non lo disse. Lo sa che successe? Che a mio cugino manco il tempo di contare fino a tre e già l’avevano condannato. Primo, secondo e terzo grado. Un fulmine. E basta accussí: caso chiuso. In galera ci va mio cugino, e la famiglia delle corna si fotte l’affare. Però lo vede, dottoressa, quando uno l’assassino non l’ha fatto mai, ci puoi mettere la mano sul fuoco che qualche sbaglio lo fa. Se per caso, o non per caso, ci scappa un altro cadavere, o lo fai sparire dalla faccia della Terra oppure questione di tempo e salta fuori. E un cadavere, se davanti ha qualcheduno capace di ascoltarlo, certe volte può parlare piú di un cristiano vivo e vegeto. Lei lo sa ascoltare un cadavere, dottoressa Guarrasi? Secondo me sí.

Se qualcuno dall’esterno avesse seguito quel dialogo, avrebbe preso per pazzi sia il vecchio mafioso pentito sia il vicequestore che lo stava a sentire. Ma Vanina di quel discorso aveva decifrato anche gli articoli e le virgole, citazione letteraria compresa. E aveva realizzato che una dichiarazione simile poteva riaprire i giochi.

– Senta, Tunisi. Io non so perché lei abbia deciso di aiutarmi, e sinceramente nemmeno lo voglio sapere. Mi basta essere sicura che mi stia dicendo la verità, e soprattutto che questa storia lei sia disposto a raccontarmela meglio e a fare nomi e cognomi, perché altrimenti resta una favoletta inutile e io potevo evitarmi i duecento chilometri.

Ma stavolta Rosario Calascibetta detto Tunisi pareva intenzionato a collaborare per davvero. Appena gli fece capire che la sua parola sarebbe stata determinante, il pezzo da novanta tirò fuori antefatti, dettagli e ipotesi di colpevoli. E di famiglie.

A lei la scelta se pigliarli per buoni.

Quando uscí dal carcere, sigaretta in mano pronta per essere accesa, la faccia del vicequestore Guarrasi tradiva soddisfazione come mai era successo dopo un incontro simile.

Il suo intuito ci aveva azzeccato pure questa volta. E quel colloquio surreale avrebbe avvantaggiato il carattere di gravità, di precisione e di concordanza che Vassalli esigeva per considerare le sue ipotesi degli indizi veri e propri.

Si allontanò dal portone ancora aperto, attraverso cui stava passando una piccola processione di auto e buttò un’ultima occhiata sul muraglione antico di pietra rossiccia che recintava quell’immensa gabbia fatiscente. La scritta «Carceri giudiziarie centrali» le ricordò di quella volta che una lettera A era crollata giú scatenando un casino. Quand’era stato? Lei era a Milano già da un pezzo. L’aveva appreso da «Repubblica», l’edizione di Palermo, che leggeva online tutte le mattine. Scese dal marciapiede e andò verso la stradina di fronte, puntando l’ombra di una delle panchine lungo i muretti. Estrasse il telefono dalla tasca e cercò in rubrica il numero diretto di Tito Macchia. Rialzò la testa, il dito pronto sul tasto d’avvio della chiamata. E si bloccò.

Paolo Malfitano scese da una Bmw X5 argento, verosimilmente blindata. Fissò Vanina come se dovesse verificarne la reale esistenza, mentre quattro agenti della scorta si precipitavano subito giú da una delle altre auto circondandolo. Mosse qualche passo verso il marciapiede dirimpetto all’ingresso del penitenziario. Telefono in una mano e sigaretta accesa nell’altra, l’ultima persona che si sarebbe mai aspettato d’incontrare se ne stava lí, ferma in piedi davanti a una panchina, all’ombra di un ficus.

– Non credo ai miei occhi! Il vicequestore Guarrasi di nuovo in servizio sul suolo palermitano?

– Direi piú correttamente in trasferta per motivi di servizio, – disse Vanina, andandogli incontro.

– Sono comunque strabiliato, – fece Paolo, tendendole la mano.

Non si vedevano né si parlavano da piú di tre anni, e nel frattempo acqua sotto i ponti ne era passata a fiumi. Per lui piú che per lei, dal momento che aveva dovuto subire una sua decisione che non condivideva e che gli era piombata addosso all’improvviso come una doccia fredda.

– Ma in trasferta all’Ucciardone ti spediscono, quelli di Catania? – le chiese, spostandosi verso la macchina dietro esortazione degli agenti.

Vanina notò che zoppicava ancora, impercettibilmente.

– Ti risulta che io mi sia mai fatta spedire da qualche parte da qualcuno?

– Per come ti conosco io, no. Ma lo sai com’è? Sono passati anni… Che ne so se in un raptus di follia ti sei messa ad accettare gli ordini di un superiore?

Il tono sfottente, data la situazione, aiutava. Buttandola sull’ironia sarebbe stato piú facile scambiare quattro chiacchiere senza imbarazzo.

Dovettero infilarsi per forza all’interno della macchina, che subito si mosse.

– Oh, ma dove stiamo andando? – protestò Vanina. – Guarda che io ho la Mini parcheggiata davanti al carcere.

– Vabbe’ non ti preoccupare, poi ti ci riporto. Che ci vuoi fare? Sono fissati che non devo stare fermo troppo tempo da nessuna parte. E se non li accontento restano tutti in tensione, anche se non ce ne sarebbe motivo.

– Ma no, certo. In fin dei conti che è successo? Giusto un paio di minacce di morte.

La necessità di sdrammatizzare di Paolo rasentava l’incoscienza, ma non era una novità.

– Cazzate, – replicò il giudice, allontanando l’idea con un gesto secco della mano. – Ora dimmi tu, in tutta sincerità: ti pare verosimile che Cosa Nostra di oggi stia pianificando sul serio di farmi fuori con un attentato esplosivo, stile anni Novanta? Teatro è, Vanina. Dovevano fare notizia. E la rottura di palle è che ci sono riusciti.

Vanina concordò in silenzio. Il tritolo, le stragi, appartenevano a un’altra epoca, a un contesto molto diverso da quello attuale. Niente era impossibile, soprattutto per quella gente, ma un simile salto indietro le sembrava quantomeno improbabile.

– Questo può essere vero, ma restano comunque le altre minacce. Considerato quello che stai facendo adesso, per non parlare di quello che ti è successo in passato, io eviterei di prenderle sottogamba.

Paolo non rispose, ma dalla faccia scura si capiva che ci stava pensando.

Lo guardò. Qualche capello grigio in piú, il viso un po’ allungato, un paio di rughe nuove che però non gli stavano male, anzi.

– Che c’è? – disse lui. – T’eri scordata la mia faccia? Eppure ultimamente basta accendere la televisione e un’immagine mia la becchi. E a quanto mi risulta, qualche servizio al telegiornale l’intercettasti pure tu.

Mai agire d’impulso. Telefonare a Giacomo Malfitano non era stato un colpo di genio.

– Sei dimagrito, – si limitò a rispondergli.

Paolo sorrise a metà. – Che vuoi? Una passeggiata di salute la mia vita non è, in questo periodo.

Perché, lo è mai stata?, le venne di chiedergli, ma ovviamente evitò.

Si stavano allontanando sempre piú dal Borgo Vecchio in direzione del palazzo di giustizia.

– Paolo, io me ne devo tornare a Catania. Dove stiamo andando?

– Stai tranquilla. Te l’ho detto: fermo troppo tempo davanti al carcere non ci potevo stare. E siccome è la prima volta che ti vedo da quasi quattro anni, non mi andava di sprecarla per questo. Quando mi ricapita, scusa?

Vanina guardò fuori dal finestrino, in silenzio. Gli alberi e le vetrine di via Libertà le passarono davanti agli occhi distratti.

– Piuttosto, come mai a Palermo? Non stavi lavorando a quel caso un poco astruso? – chiese Paolo, recuperando il sorriso lievemente beffardo.

– Dovevo vedere una persona.

– All’Ucciardone? E chi?

– Perché? Tu conosci tutti i detenuti dell’Ucciardone?

– Perciò! Ma tutto ti sei scordata di me?

Scherzava, sorrideva, ma gli occhi raccontavano altro.

– Rosario Calascibetta, – gli rispose Vanina.

Paolo aggrottò la fronte. – Tunisi, – disse, meditativo, strofinandosi la barba rasa con il pollice e l’indice della mano destra.

– Non ho deciso di tornare alla Criminalità organizzata, se è questo che ti stai chiedendo, – gli notificò, preventivamente.

– Il dubbio non mi aveva sfiorato. Per questo ora sono curioso di sapere che potevi avere ancora da chiedere tu a uno come Tunisi.

Vanina gli raccontò tutta la storia, che Paolo ascoltò con l’aria divertita di uno che sta assistendo all’opera dei pupi. Tuttavia concordava con lei: per risolvere il caso del cadavere nel montacarichi, toccava riesumare dalla naftalina quello dell’omicidio Burrano.

Se due piú due faceva quattro, o l’assassino era morto, e data l’età ci stava pure, oppure se era ancora capace d’intendere e di volere ora se la stava facendo sotto dalla paura. E la prima cosa che s’impara quando si dà la caccia a un delinquente è che non c’è momento piú propizio per fregarlo di quello in cui è spaventato.

– La paura rende labili i confini della prudenza, – disse Paolo. Si girò verso di lei. – E cala le maschere, – aggiunse, mentre l’auto riprendeva la strada verso il Borgo Vecchio. Con lui a bordo, per il disappunto dei suoi angeli custodi.

– Non era meglio che tu te ne tornassi nel tuo ufficio, dove evidentemente gli agenti della scorta ci stavano accompagnando? – considerò Vanina, ignorando l’allusione.

– No, – rispose. Secco, perentorio. – Perché hai telefonato a mio fratello? – le chiese, dopo un minuto di silenzio, abbassando la voce e alzando gli occhi, all’improvviso stanchi.

Perché è vero che la paura smaschera, pensò Vanina.

– Perché volevo sapere come stavi, – gli rispose.

– Te ne importa qualcosa, come sto?

Erano passati quasi quattro anni, ma quella conversazione stava scivolando là dove sarebbe arrivata se l’avessero affrontata a una settimana dalla separazione.

Te ne sei andata tu, mi hai abbandonato tu. Io ho subito le tue decisioni. Dietro quella domanda astiosa c’erano tutte quelle recriminazioni, cifrate, ma per Vanina evidenti.

– Non c’era bisogno di trascinarmi in giro per Palermo col tuo autoblindo per… – guardò l’orologio, – quaranta minuti, solo per rinfacciarmi un momento di debolezza in cui ho agito senza calcolare le conseguenze. Avevo chiesto a Giacomo di non riferirtelo.

Stavano passando da piazza Sturzo. Davanti ai portici, Paolo si sporse in avanti.

– Aldo, per piacere si fermi qua e ci faccia scendere.

– Ma che fai? – insorse Vanina.

– Voglio un gelato, Vanina. Potrò prendere un gelato quando cazzo dico io? – quasi gridò.

– Dottore… – cominciò Aldo, ma si fermò appena intercettò gli occhi del giudice nello specchietto retrovisore.

Vanina intuí che non era il momento di contraddirlo. Sembrava lui stesso una carica pronta a esplodere. E non era per la rabbia nei suoi confronti, questo era evidente. Anzi, sospettava che quell’incontro fosse stato provvidenziale e che finalmente Paolo stesse tirando fuori la tensione che doveva aver accumulato. Pazienza se aveva deciso di sfogarsi con lei. Lo conosceva abbastanza da sapere che non l’avrebbe fatto con chiunque.

– Amuní, dài. Mangiamoci ’sto gelato. Tanto se si azzardano a romperti le palle lo sai che a tirare fuori la parabellum ci metto mezzo secondo, – scherzò, ma lo fece con difficoltà. Alludere a quel giorno le veniva pesante.

Gli uomini della scorta li guardarono con gli occhi di fuori mentre si allontanavano dalla Bmw per infilarsi tra la folla di una delle gelaterie piú frequentate di Palermo.

– Un vicequestore come scorta. Solo io ho avuto un privilegio simile, – disse Paolo, mentre si mettevano in fila al bancone.

Mangiarono una brioche col gelato in piedi, in un angolo, protetti dalla barriera umana degli avventori assatanati.

– Vani, – disse Paolo, di punto in bianco.

– Dimmi, – rispose, ignorando di proposito il diminutivo confidenziale che aveva riesumato.

– Me lo dici perché mi hai lasciato?

Per non vivere nel terrore di vederti uscire di casa e non tornare piú. Perché non potevo sperare di trovarmi per caso dietro di te ogni volta che avresti rischiato la vita, per salvartela. Perché cosa significa vedere una persona che ami morire ammazzata l’ho imparato a quattordici anni, e preferivo rinunciare a te pur di non rivivere quei momenti. Perché io ne ero convinta, Paolo, che lasciarti sarebbe bastato a proteggermi dall’incubo di perderti, come avevo perso lui.

Ecco perché ti ho lasciato, Paolo.

Ma non avevo calcolato che dire addio non recide alcun legame, se il legame è saldo com’era il nostro. E non protegge da nessun dolore. È un sacrificio inutile.

Ho fatto i conti senza l’oste, Paolo.

– Sono passati tre anni, Paolo, – rispose, – perché dobbiamo parlare per forza del passato? Abbiamo la nostra vita.

– Tre anni e undici mesi. E non ce l’abbiamo la nostra vita, né tu e né io. Tu perché non te la sei creata, e io perché mi sono illuso di potermela costruire con la persona sbagliata. Ho sofferto come un cane, Vani. E siccome non è detto che mi resti tantissimo da vivere…

– Paolo! – sbottò Vanina. – Finiscila, – abbassò la voce.

Il gelato aveva perso ogni attrattiva, anzi sarebbe stato impossibile mandarne giú un boccone di piú.

– Ma se nel frattempo hai avuto pure una figlia! – disse, sforzandosi di fare dell’ironia. – E poi che ne sai tu se io una vita invece non me la sono creata?

– Non te la sei creata, Vani. Né a Milano né a Catania. Lo so. Quanto a me, è vero: ho avuto una figlia, ed è stata l’unica cosa positiva in due anni di matrimonio. Finito.

Finse di non saperne nulla e non gli chiese nulla, ma ebbe la sensazione che Paolo stesse facendo di tutto per dirglielo. Invece lei non voleva saperlo. Non doveva saperlo. Perché era chiaro che a diventare un casino quella situazione poteva metterci due minuti. Bastava abbassare la guardia un attimo, liberare un solo grammo dei sentimenti che aveva messo sotto chiave, e zac! E non doveva succedere.

Era ora di tornarsene a Catania.

Da sotto il tergicristallo anteriore della Mini parcheggiata in via Enrico Albanese occhieggiava un foglietto bianco di chiara provenienza.

– Pure la multa mi fecero, mannaggia alle brioche col gelato, – bofonchiò.

La temperatura nell’abitacolo si aggirava attorno ai cinquanta gradi.

– Minchia, settembre sta finendo e qua ancora ci si possono infornare gli sfincioni! – considerò a voce alta, accendendo l’aria condizionata e uscendo a razzo dalla macchina.

Un vecchietto con al seguito un cane di razza ignota, che passava sul marciapiede, si fermò e la guardò come se lo avesse interpellato.

– Allora, taliasse: cchiú avanti c’è una friggitoria, – indicò a sinistra col dito teso, – sfincione di chiddu bonu n’attrova quantu ni voli.

A Vanina venne da ridere. E pensare che pure l’apparecchio acustico aveva!

Lo ringraziò come se gli avesse chiesto l’informazione per davvero.

Quell’uomo la riportò con i piedi per terra e le ricordò la masnada di vecchietti con cui avrebbe avuto a che fare sempre piú spesso finché non avesse risolto il caso del duplice omicidio a villa Burrano.

Sí, perché il nome giusto era quello: duplice omicidio Burrano-Cutò. Altro che «sciantosa».

Appena riuscí a liberarsi del traffico cittadino in uscita e raggiunse viale della Regione Siciliana, recuperò gli auricolari dal fondo della borsa e fece partire finalmente la telefonata a Tito Macchia.

Il Grande Capo le rispose dopo due squilli. Vanina si sentí lievemente in colpa. Ma vedi tu che era stato veramente in apprensione. E lei se l’era pure presa comoda, scorrazzando per Palermo a bordo di un’auto blindata della procura, con il suo ex fidanzato, quello che a Macchia aveva testé assicurato di non aver piú visto né sentito da anni.

Che era ancora vero, appena il giorno prima.

Ora non piú.

Poteva sforzarsi di ignorare la cosa fino allo sfinimento, ma per metabolizzare quell’incontro non le sarebbero bastati dei mesi. Sempre che nell’arco di quei mesi non fosse successo qualcosa… Ma che stava dicendo? Lo stomaco le si torceva al solo pensarla, una cosa del genere.

A Bagheria, la situazione si era aggravata. Le parole di Paolo le ronzavano già nelle orecchie da dieci minuti buoni. «Non è detto che mi resti tantissimo da vivere…» Come aveva potuto dirlo? Poi tranquillo, come uno che sta contando alla rovescia gli ultimi giorni di ferie.

Si rifugiò in un paio di telefonate. Una piú lunga con Spanò, che nel frattempo un’indagine tutta personale sulla vecchia Burrano la stava conducendo. Perché era potente, e perché era temuta: questo interessava capire, e l’ispettore ci stava lavorando.

L’altra, breve ma piú allegra, anzi perfino chiassosa, con Maria Giulia De Rosa che quel giorno faceva quarant’anni.

– Stasera festone a Stazzo a casa dei miei. Non te lo scordare, – le urlò l’avvocato, prima di chiudere.

Invece se l’era scordato. Non si era nemmeno curata di sapere se da qualche parte ci fosse una lista per il regalo. Aveva pure accettato il cineforum di Adriano, che in tutta sincerità l’attirava molto piú di quella festa, sicuramente a base di Mojito e finger food.

E però uno sgarbo cosí a Giuli non poteva farlo. Intanto il medico aveva già provveduto a toglierla dagli impicci, con un messaggio WhatsApp che lesse mentre faceva benzina, a Termini Imerese. «Film rimandato. Stasera l’avvocato De Rosa fa il compleanno», e il disegnino della torta con le candeline. Di seguito il negozio dov’era la lista e una proposta, premurosa da abbracciarlo all’istante: «Vuoi che ci pensi io anche per te?» Gli rispose che era un tesoro.

Bastava e avanzava per riportarla alla vita reale.

Ma già quasi alla biforcazione, direzione Messina sulla sinistra e Catania sulla destra, la vita reale era stata spodestata di nuovo dal pensiero di Paolo, che si era piazzato lí e non accennava piú a schiodare. Ed era un pensiero molesto, perché non riguardava la loro storia, né i loro sentimenti tutt’altro che archiviati. Riguardava lui. Che in quel momento era in ufficio, a trafficare con le carte che gli stavano facendo rischiare una condanna a morte. Che quella sera se ne sarebbe tornato a casa, da solo. Lo vide, seduto sulla poltrona grigia, compagna di quel divano sfondato che lei si portava sempre appresso. Televisione accesa, sbirciata di tanto in tanto da sopra gli occhiali, e una pila di fogli affastellati sulle gambe.

Ma era un’immagine irreale. Magari quella poltrona non esisteva neanche piú, magari invece in quel momento sulle ginocchia Paolo aveva sua figlia. E magari, malgrado tutto, non era solo… come l’aveva lasciato lei.

«Non è detto che mi resti tantissimo da vivere…» E poi? Cos’altro voleva dirle, prima che lei tagliasse il discorso. Che aveva il diritto di sapere perché l’aveva lasciato? Perché se n’era andata? Dopo avergli salvato la vita a colpi di calibro 9, dopo averlo vegliato in ospedale per ventuno notti, dopo aver fatto l’inferno per sbattere dentro l’unico bastardo sopravvissuto alla sparatoria. Dopo se n’era andata.

Scappata, era il termine piú giusto.

A che era servito? La risposta, spietata, non riusciva a darla neppure a sé stessa.

I due segnali autostradali erano sempre piú vicini, là in alto: Messina sinistra, Catania destra. E forse di proposito, forse perché quando uno la vede troppo nera s’illude che cedere a un desiderio possa aiutare a recuperare l’equilibrio, o forse per colpa di quel pizzicore fastidioso agli occhi che le annacquava la vista, Vanina sbagliò strada. E al primo svincolo la sbagliò di nuovo e tirò dritto, fino all’indicazione Pollina-Castelbuono. Là uscí.