Maria Giulia De Rosa quando faceva una cosa la faceva in grande.
Il bancone dei cocktail pareva quello di un night club di Miami. Sulla pista da ballo c’erano piú cubi colorati che nello studio di Rubik, e sopra ciascuno di essi qualcuno ballava scatenato sudando Caipiroska alla fragola. La scena iniziale de La grande bellezza in versione catanese.
L’avvocato saltellava da un lato all’altro del giardino, dal cubo giallo a quello verde, passando per la consolle. Una metamorfosi che a Vanina sarebbe parsa inquietante, se non fosse stata palesemente indotta dall’alcol.
Adriano e Luca conoscevano circa la metà dei duecento invitati, lei appena una decina e nemmeno troppo bene.
Il medico legale e il giornalista erano indubbiamente la coppia piú di tendenza. Uno tirato come in una vetrina di Gucci, l’altro finto trasandato ma con tutti i pezzi giusti al posto giusto, barba e profumo compresi. Il rischio che Giuli, in preda ai fumi del quarto Cosmopolitan, gli si fiondasse addosso incurante del compagno, nonché delle sue preferenze sessuali, era elevatissimo.
Vanina si teneva alla larga dalla bolgia saltellante e dagli altoparlanti, che pareva stessero per scoppiare. Organizzare una festa all’aperto a fine settembre era un azzardo anche in Sicilia. L’umidità si tagliava col coltello e le uniche zone protette erano la pista da ballo, sotto una tettoia, e un gazebo piazzato in mezzo al giardino e fornito di cuscinoni e pouf, che Adriano e Luca avevano requisito come quartier generale delle loro pubbliche relazioni a base di rum Zacapa e sigari cubani.
Il vicequestore se ne stava stravaccata su una poltrona a sacco, fumando una Gauloises, incerta se indulgere o meno al secondo cocktail superalcolico della serata.
Non era da lei, ma ne aveva un effettivo bisogno.
La passeggiata a Castelbuono – con tanto di sosta nostalgica davanti alla casa dei nonni paterni, che chissà ora di chi era, e panettoni e castelli vari – era stata una breve parentesi di ossigeno prima di sfracellarsi nella depressione. E quella festa, tanto vilipesa, era stata provvidenziale.
Chiuse la cerniera della giacca di pelle nera, che adattava sopra qualunque abbigliamento serale. L’unico difetto che aveva, quel capo costosissimo, era che non camuffava granché la fondina. E siccome uscire disarmata era una scelta che Vanina non prendeva in considerazione neppure quando l’occasione l’avrebbe permesso, ogni volta le toccava ripiegare su un revolverino calibro 22 North American che entrava in qualunque borsa, se non addirittura in tasca.
S’issò sui sandali, smadonnando per averli indossati, e andò verso il bancone. Si lasciò convincere da Adriano Calí a ordinare un Old Fashioned. «Il cocktail piú raffinato che esista».
Si appoggiò al bancone e mandò giú un sorso. Caspita se era forte, quell’intruglio.
– Aiuta, – rispose il medico alla sua protesta. Doveva aver capito piú di quanto lei credesse.
S’inoltrò tra la gente, in cerca di Giuli. La localizzò al centro della pista, scatenata, e fece per desistere, ma lei l’aveva già vista e le stava venendo incontro.
– Ehi, tesoro! Vieni a ballare!
– Non se ne parla proprio, Giuli.
– Ma dài, non essere sempre ingessata!
– Giuli, levaci mano.
– Visto quanta gente? – disse l’avvocato, soddisfatta.
Vanina intravide il notaio Renna junior, che la salutava da lontano agitando un bicchiere al ritmo di Enrique Iglesias. Irriconoscibile.
Persone che la conoscevano, ma che lei non conosceva, si avvicinarono e la salutarono. Obtorto collo dovette tollerare uno scampolo di conversazione, urlata per giunta, con gente di cui aveva afferrato a stento il nome.
Giuli fu risucchiata nel vortice dei festeggiamenti e Vanina riuscí ad allontanarsi.
Quante mani aveva stretto quella sera? Cento? E quante ne avrebbe strette, con i suoi criteri di valutazione, se di tutti avesse conosciuto fatti e misfatti?
Suo padre diceva sempre che a Palermo le mani si stringono a occhi chiusi, perché non sai mai a chi appartengono veramente. Era improbabile che Catania in questo fosse tanto diversa.
Mezz’ora al massimo poteva resistere ancora, poi avrebbe finto una chiamata di Spanò e avrebbe abbandonato il campo.
– Dottoressa Guarrasi? – la chiamarono dal bordo pista.
Alfio Burrano schizzò fuori da un capannello vociante, raggiungendola a mano tesa.
Capello scombinato e camicia bagnata incollata addosso. Un’immagine che esigeva una buona dose di appeal per non scadere nel disgustoso. E Burrano, quanto ad appeal, male non era messo.
– È strano vederla… cosí! – disse, sfoderando il miglior sorriso a memoria di odontoiatra.
Vanina gli strinse la mano, che per fortuna era asciutta. Un punto a favore.
– Cosí come? – gli chiese.
– Mah, che ne so… Tacchi, trucco, – si fermò, vedendola inarcare il sopracciglio sinistro. – Mi scusi per la sfacciataggine, però sta veramente bene.
Non lo freddò con lo sguardo, cosa che probabilmente lui invece si aspettava, e questo lo incoraggiò a restare.
Gli chiese cosa ci facesse lí, sebbene fosse una domanda retorica: era un amico di Maria Giulia De Rosa, ovviamente. Chi non lo era, del resto? L’avvocato elargiva amicizia a destra e a manca con l’abilità di un diplomatico in carriera. E poi c’erano gli Amici veri, ma quella era tutta un’altra storia.
Burrano non tornò piú a ballare. Si fiondò sotto il gazebo e si accomodò sulla poltrona a sacco accanto a quella del vicequestore. Attinse alla bottiglia di Zacapa di Luca, ma rifiutò il cubano.
– Solo Antico Toscano, – spiegò, accendendosi un mezzo sigaro che aveva lo stesso aspetto e aroma di quello che Tito Macchia si teneva sempre spento tra le labbra.
Vanina lo studiò divertita, rimandando di mezz’ora in mezz’ora la presunta telefonata di Spanò. Simpatico, inconsistente, conversazione di una superficialità disarmante. E attraente, che non era un aspetto da sottovalutare. Perfetto per farsi un giro e riguadagnare un po’ di buonumore. Parlava, curtigghiava, massacrava ogni povero disgraziato che gli passava davanti, con lo spirito di un vignettista satirico. E beveva Zacapa come fosse Coca-Cola.
Dopo dieci minuti erano già entrati in confidenza e passati al tu.
Un uomo alto e biondo, una specie di cestista vichingo, si staccò da un gruppo e partí a razzo verso di loro.
– Alfio! Mi chiedevo dove fossi finito. Come al solito in buona compagnia.
Si presentò a Vanina. – Gigi Nicolosi. Il migliore amico di questo personaggio qua.
Alfio confermò, annuendo, mentre l’amico continuava a parlare. Il sorriso ancora stampato in faccia, ma distante da quello di poco prima. Per qualche motivo che a Vanina sfuggí, dato che il racconto di Nicolosi sui momenti che avevano condiviso e su com’erano cresciuti insieme pareva autentico.
Però Burrano rimase cosí, con mezzo sorriso e mezzo pensiero, finché l’amico non se ne tornò nel gruppo da cui era fuoriuscito.
Nicola Renna passò loro davanti e li salutò, sorridendo al vicequestore.
– Occhio, che quello non sembra ma ci prova con tutte, – l’avvertí Alfio, di nuovo in sé, – quattro moine, tira fuori la Morgan, poi t’invita a vedere la sua galleria d’arte moderna multimilionaria. E zac!
– Grazie di avermi avvertito! Sai, indifesa come sono, – fece, sorridendo a mezza bocca.
Alfio sghignazzò, divertito.
– Senti, vicequestore, posso chiederti una cosa? – se ne uscí, dopo un attimo di silenzio.
– Se non sono notizie riservate.
– Sei sposata, fidanzata, impegnata… O sono notizie riservate?
– Riservatissime, – gli rispose, ridendo. – Ma, visto che t’interessa tanto, per stavolta faccio un’eccezione e ti rispondo. No: non ho né mariti né fidanzati né compagni.
Quella risposta suonò come un lasciapassare per una strada interdetta al traffico. Alfio alzò il livello di confidenza. Avvicinò la poltrona a sacco alla sua, cambiò tono. Partí con qualche avance. Discreta. Velatissima, perché sempre di Vanina Guarrasi si trattava e sbagli era meglio non commetterne, non si sa mai. Vanina decise di divertirsi un po’.
– E la tua fidanzata, invece, come sta? Non la vedo qui in giro.
– Ma chi? Valentina?
– Perché, ne hai altre?
– Valentina non è la mia fidanzata.
– Peccato. È una bella ragazza. Fossi in te ci penserei. E poi, dopo l’esperienza terrificante che le hai fatto fare…
Burrano la guardò senza afferrare. – Che esperienza?
– Il disseppellimento di una mummia ti pare un’esperienza piacevole?
– Guarda che ne avrei fatto volentieri a meno pure io, te l’assicuro, – disse, con una smorfia. – Da quando è saltato fuori quel cadavere è stato un continuo di rotture di balle. E non solo… – Si fermò lí.
Vanina drizzò le antenne.
– Perché, che altro ti è successo?
– Ma niente. È che la vecchia non ci sta dormendo la notte, e sta mettendo in croce me, perché se io non mi fossi interessato a quella parte della villa, che secondo lei non mi doveva riguardare, a quest’ora quella poveraccia sarebbe ancora nel montacarichi. Per sessant’anni non ha messo piede a Sciara, e ora che ci sono i sigilli e non si può entrare lei vorrebbe tornarci. Si può essere piú folli?
Altro che folle. Questo poteva significare che alla villa ci fosse qualche altro indizio da recuperare. O magari, con un colpo di fortuna, addirittura una prova.
– Basta concordare col magistrato, e posso farvi accompagnare da qualcuno dei miei uomini. O magari posso venire io con voi. Tua zia potrebbe ricordare qualcosa.
– Gliel’ho detto, ma mi ha quasi mandato a quel paese. Non sia mai, dover chiedere il permesso a Franco Vassalli per entrare in casa sua? Oggi, poi, pareva particolarmente isterica. E quand’è isterica diventa pure manesca. Forse perché ha saputo che nel montacarichi erano nascosti pure un sacco di soldi. Tirchia e venale com’è…
– Chi gliel’ha detto che c’erano dei soldi? – chiese Vanina, aggrottando la fronte.
Alfio strinse gli occhi in un’espressione beffarda.
– Se pensi che mia zia si accontenti di quello che le comunicate voi la stai sottovalutando. Quella ha i suoi informatori.
E li stava usando, questa era la notizia piú importante.
– Perciò le venne la fantasia di andare a Sciara, – riprese Vanina, con indifferenza.
– Già. E secondo lei io avrei dovuto assecondarla… meglio che non ti dica come, vicequestore –. Prese mezzo sigaro da un astuccio e tirò fuori l’accendino.
Vanina ebbe l’impressione che invece fosse impaziente di dirglielo. Anzi, che avesse portato il discorso lí apposta.
– Alfio, non puoi dire a un vicequestore della Polizia di Stato che preferisci tacerle qualcosa. O non parli dal principio oppure vuoti il sacco. Perché t’avverto che se poi scopro che era importante e che tu non me l’hai detto non è una bella situazione.
Il sigaro di Alfio rimase acceso a metà.
– Per carità, – disse, alzando le mani. – Pendenze con un vicequestore della Polizia di Stato non ne voglio. Soprattutto se sei tu. La vecchia voleva che staccassi i sigilli e dopo li rimettessi a posto. Forse non aveva capito che è un reato. Gliel’ho spiegato io.
– E l’ha capito?
– Immagino di sí.
Burrano recuperò il tono allegro che era svanito al primo accenno all’indagine. Con ogni mezzo a sua disposizione, e un bicchiere di Zacapa in piú, cercò di riportare il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi in modalità «Vanina». Che gli piaceva assai.
E Vanina glielo lasciò fare.
Le allusioni e gli ammiccamenti con cui Giuli la sferzò, nel suo giro pre-candeline sotto il gazebo, contribuirono a definire meglio la cosa.
Il secondo Old Fashioned fece il resto.
– Perciò, dottoressa Guarrasi, mi faccia capire, – chiese Eliana Recupero, il magistrato della Direzione distrettuale antimafia che le aveva autorizzato in dieci minuti l’incontro con Tunisi all’Ucciardone. Una cinquantina d’anni, fisico minuto, occhi vivi. – Calascibetta l’ha chiamata perché, avendo appreso dal giornale che stava tornando a galla un omicidio per cui cinquant’anni fa era stato condannato un componente di una famiglia affiliata, ha ritenuto necessario contribuire con quello che sapeva?
– Cosí disse.
– E lei ci crede?
– Magari non in questi termini, ma in linea generale sí, dottoressa. Io credo che Tunisi, Calascibetta insomma, sapesse che dietro il cadavere ritrovato qualche giorno fa dev’esserci la stessa mano che ammazzò Burrano. E probabilmente sapeva pure che Di Stefano non è il nostro indiziato numero uno. Ma dubito che l’abbia appreso dal giornale.
– E lei da chi pensa che l’abbia saputo?
– Da Di Stefano stesso.
La Recupero la interrogò con gli occhi.
Il collegamento tra Tunisi e Di Stefano, la millantata cuginanza, Spanò l’aveva rintracciato in meno di mezz’ora. Saveria Calascibetta, l’unica figlia del collaboratore di giustizia, era sposata con Vincenzo Zinna, nipote in primo grado di Agatina, la moglie di Masino Di Stefano, e di Gaspare, il firmatario del famoso accordo sull’acquedotto.
Le cose, per Vanina, erano abbastanza chiare. Dopo cinquantasette anni, gli Zinna stavano presentando il conto al vero assassino. Che secondo quanto aveva rilasciato e sottoscritto Tunisi, era da ricercare all’interno della famiglia Burrano. La famiglia «delle corna».
– Perciò non ci sarà bisogno di coinvolgere i suoi colleghi della Criminalità organizzata, – concluse la pm.
– Direi proprio di no, dottoressa. Perché, vede, Calascibetta su una cosa ha perfettamente ragione: quella volta andò tutto al contrario. Un mafioso incriminato al posto di un cornuto. O una cornuta. La Criminalità organizzata c’entrava con gli affari di Gaetano Burrano, e forse in seguitò poté entrarci con quelli di chi successe a lui nella gestione degli affari, ma col suo omicidio no. E men che meno con quello di Maria Cutò.
La Recupero le diede ragione.
Vassalli la aspettava al varco con la sua caterva di domande.
Aveva evitato accuratamente di avvicinarsi all’ufficio di Eliana Recupero di cui, conoscendolo, doveva temere l’opinione e i modi spicci, che Vanina invece apprezzava e condivideva.
– E se invece fosse tutta una montatura? – argomentò il pm. – Se gli Zinna avessero armato tutta questa messinscena per evitare al loro congiunto un’altra condanna? E se Burrano all’ultimo minuto avesse cambiato idea su quel contratto? Anche se una copia era rimasta nella sua borsa, quella ufficiale non si trovò piú. È un dato di fatto. E se lo ammazzarono per vendetta e quella povera disgraziata della prostituta ci andò di mezzo perché sapeva troppo? Non aveva rubato la macchina, su questo siamo d’accordo, ma per ripianare i suoi debiti di gioco Di Stefano potrebbe aver rubato benissimo i soldi che sostiene di aver prelevato per Burrano. Ci ha pensato, dottoressa Guarrasi? Non sarebbe il caso invece di passare tutto in mano alla Direzione investigativa antimafia. Se poi loro pensano veramente che non ci sia alcun legame…
Vanina saltò sulla sedia. – La Dia? Dottor Vassalli, ma lei si rende conto di quello che sta dicendo?
Se avesse potuto farlo, si sarebbe alzata e se ne sarebbe andata, ma non poteva rischiare di compromettere la sua indagine con un colpo di testa.
– Non le sembra un po’ eccessivo disturbare i colleghi della Dia per una storia di cinquant’anni fa che, mi scusi se glielo dico, non merita di sicuro la loro considerazione? Mi creda, dottore: io con l’Antimafia ci ho lavorato per molti anni, e le assicuro che tempo da perdere non ne hanno, – disse, pacata ma ferma. E invece avrebbe voluto ruggire.
Vassalli esitò. Aprí un fascicolo, lo richiuse, spostò una penna, poi la rimise a posto. Era evidente che qualcosa lo frenava, qualcosa che non poteva palesare, o qualcuno che non poteva mettere in mezzo.
– Va bene, dottoressa Guarrasi. Io prendo atto della testimonianza del collaboratore, ma per muoverci nella direzione che dice lei dobbiamo avere qualcosa di piú. Qualcosa di concreto, dottoressa. Lo cerchi, e se lo trova allora procediamo. Altrimenti per me l’unico possibile indiziato resta Tommaso Di Stefano.
Piú esplicito di cosí non poteva essere.
Vanina uscí dalla procura che pareva un’Erinni. Avrebbe spaccato a calci il tubolare di ferro che si trovò tra i piedi uscendo dal piazzale.
Quella negghia di Vassalli – perché cosí si sarebbe chiamato a Palermo uno inutile come lui – l’aveva lasciata sola, a combattere contro i mulini a vento. E l’assurdo era che per la prima volta nella sua carriera, la mafia le dava ragione. Non c’era da stare allegri.
Entrò nel bar all’angolo e affogò la rabbia in un’iris al cioccolato: un panino al latte svuotato e fritto, e poi riempito di crema al cioccolato. Una delle sue catanesate preferite.
Quella mattina i suoi rituali giornalieri erano saltati in toto. Niente caffellatte appena sveglia, niente passaggio dal bar sotto casa con incartamento di cornetto e cappuccino da portarsi in ufficio. Solo un caffè veloce nella Nespresso di casa per non arrivare in procura con la faccia di uno zombie.
Aveva dormito tre ore. Quattro, se si contava l’ora di sonno consumata sul divano grigio dopo aver rispedito a casa Alfio Burrano. In bianco.
Doveva ammettere che l’idea iniziale, quando l’aveva fatto entrare nella sua dépendance, era stata un’altra. E viste le premesse, sarebbe stata senz’altro un’idea indovinata. Poi però qualcosa, non sapeva bene cosa, aveva frenato entrambi e la serata era finita lí.
Unico postumo, un mal di testa latente, ascrivibile ai cocktail raffinati suggeriti da Adriano Calí e a una quantità di sigarette che normalmente avrebbe consumato in due giorni.
La scrivania della Bonazzoli e quella di Nunnari erano seppellite sotto una montagna di oggetti imbustati.
Quel fituso di Manenti le aveva reso la pariglia per tutte le volte che gli aveva rotto le scatole con le richieste piú disparate, mandandole l’intero catalogo repertato nella Flaminia.
Marta si rigirava tra le mani un sacchetto con aria contrita. Vanina si avvicinò e vide che conteneva un pupazzo. Un Pinocchio di legno che pareva uscito da un negozio di giocattoli vintage.
– Ma secondo te che fine ha fatto Rita Cutò? – le chiese l’ispettore, con gli occhi umidi.
– Non lo so, Marta, – tirò un sospirò rassegnato. – E di questo passo temo che non lo sapremo mai.
Fragapane e Spanò emersero dal loro ufficio, anche quello ingombro di sacchetti.
– Bentornata, capo, – la salutò il vicesovrintendente.
L’ispettore si limitò a un cenno. Vanina l’aveva già sentito per telefono prima di arrivare in procura, per gli aggiornamenti, ma i risultati delle ricerche su Teresa Burrano fino a quel momento dicevano poco.
– Ho parlato con Pappalardo, il mio amico della Scientifica… – attaccò Fragapane.
– Alt, – lo fermò Vanina. Si voltò verso il fondo della stanza. – Lo Faro, vatti a prendere un caffè.
Il ragazzo alzò la testa dalla scrivania. – Ma… veramente l’ho già preso.
– Allora uno snack, che sono le undici e mezzo ed è ora.
– Grazie, ma io non mangio mai fuori pasto.
– E allora fumati una sigaretta… No, – lo anticipò, – non mi dire che non fumi perché non me ne frega niente. Fatti una passeggiata, vai dove vuoi, basta che ti levi dai piedi.
Lo Faro girò attorno alla scrivania con la faccia da cane bastonato e sfilò verso la porta. Non osò chiedere il perché di quel trattamento, che il vicequestore aveva già motivato ampiamente un paio di sere prima.
– Diceva, Fragapane? – riprese Vanina.
– Portai l’accendino al mio amico Pappalardo, come disse lei, senza fargli capire a chi apparteneva. Lo avvertii che sopra ci saranno sicuramente anche le impronte della mia collega che lo trovò. Lui mi assicurò che avrebbe fatto presto. Solo che quelle del posacenere sono solo tracce, dottoressa. Quattordici punti non li recuperano manco da lontano. Perciò sarà impossibile confrontarle. La novità di oggi, e sicuramente piú tardi il dottore Manenti le telefonerà per comunicargliela, invece, è che riuscirono a isolare qualche frammento di Dna dalla tazzina. Impronte niente, però.
Vanina dovette rifletterci su per realizzare di cosa stava parlando.
– Ah, sí. La tazzina che i colleghi non avevano neppure spostato. Bene. Un giorno potrebbe esserci utile, chi lo sa. Visto che dobbiamo farci bastare il poco che abbiamo.
Ci fu un attimo di silenzio. Tutti si guardarono tra loro, tranne Spanò che rimase impassibile. Marta posò il burattino e si girò verso il vicequestore.
– Cioè, non possiamo fare altre indagini? – disse, incredula.
– Non su cose o persone che non abbiano un legame assodato con la morte di Maria Cutò.
Ci pensarono tutti su.
– Scusi, capo, – intervenne Nunnari, – forse mi sono perso qualche cosa, ma mi pareva che legami assodati, sulla morte della Cutò, ancora non ne avessimo trovati…
Vanina rispose con un’alzata di spalle.
– Buttanazza della miseria, – sbottò Fragapane, sottovoce ma udibile.
– Già. E mi pare che in questo caso possiamo dirlo ancora piú forte, – concluse il vicequestore.
Li lasciò lí a rimuginare sul senso della frase, e andò a rifugiarsi nel suo ufficio.
Aprí la finestra e si accese una sigaretta. E pazienza se era vietato.
Si abbandonò sullo schienale della poltrona, girandosi a destra e a sinistra lentamente, il piede puntato sulla pedana.
Ragionò sugli elementi che aveva a disposizione. Teorici molti, concreti poco o nulla. Ai teorici aggiunse anche quello che le aveva raccontato Alfio la sera prima. Si capiva che doveva avercela a morte con la vecchia, e che godeva nel screditarla agli occhi di un tutore della legge. In confronto a quello che Vanina già sospettava, l’informazione che le aveva dato era una quisquilia, ma questo lui non poteva saperlo. Né sospettarlo, dato che il nome della signora non era mai venuto fuori neppure per un secondo tra i sospetti per l’omicidio di suo marito. Che poi il sospetto era sempre stato uno solo. E volevano che finisse cosí anche quella volta. Ma potevano crepare: lei non era il commissario… come si chiamava? Ah, Torrisi. E manco il povero Patanè, che su quella storia chissà quanto doveva essercisi corroso lo stomaco.
Si drizzò di scatto e afferrò il telefono. Digitò il numero di Patanè, che teneva sempre in bella vista sulla scrivania, e si mise in attesa.
Spense il mozzicone in un residuo di caffè preso alla macchinetta un paio di giorni prima e bevuto solo a metà. Oltre poteva essere gastrolesivo. Si compiacque di constatare che nessuno era entrato nella stanza durante la sua assenza, neanche quelli delle pulizie.
Al cellulare, manco a dirlo, il commissario non rispose. Vanina provò il numero di casa.
La signora Angelina rispose in voce di testa dopo sei squilli.
– No, Gino non c’è, – la informò, con evidente soddisfazione.
– All’ora di pranzo lo trovo?
– Ca certo che lo trova. In pensione è, mio marito –. Mi pare che lei se lo scordò, avrebbe voluto aggiungere sicuramente.
Spanò bussò alla porta mentre Vanina stava mettendo giú la cornetta. Si andò a sedere davanti a lei con l’indignazione dipinta in volto. Lui il comportamento di Vassalli l’aveva previsto.
– Novità? – gli chiese.
L’ispettore si allisciò i baffi sospirando.
– Allora: indigente Teresa Regalbuto non è stata mai, manco da ragazza. Viene da una famiglia di professionisti, ben inserita nella buona società di Catania. Gente benestante, con la puzza sotto il naso, ma dal punto di vista finanziario non piú facoltosa di tante altre. I soldi veri, Teresa li tastò per la prima volta quando si sposò con Gaetano Burrano. Pare, ma questo lo dice mia zia Maricchia, che dalla parte sua combinato combinato non fu, ’sto matrimonio. Per i Regalbuto i Burrano erano una famiglia di arripudduti. E Gaetano non era degno della figlia, che pretendenti a quanto ho capito ne aveva assai. Ma Teresa s’incapricciò, e tanto fece che alla fine se lo sposò. Burrano come marito fu pessimo, però soldi in mano alla moglie gliene dava assai. La signora era una delle donne piú in vista di Catania. I suoi salotti erano famosi per essere una specie di circolo chiuso, dove si facevano amicizie importanti.
– Ed era il marito che le garantiva questa importanza?
– E qua stavo arrivando. Burrano era ricco, influente e spregiudicato. Perciò a rigor di logica doveva essere cosí. Però c’è un fatto strano. Se la moglie avesse goduto solo della potenza di suo marito, una volta morto lui la sua influenza sarebbe precipitata a picco. I salotti magari sarebbero rimasti ambiti solo dalle signore, e le sue feste sarebbero diventate normali occasioni mondane. Invece non solo questo non successe, ma la scalata di Teresa al trono di donna piú potente di Catania diventò inarrestabile. Negli anni Ottanta, quando a Catania soldi ne giravano assai, sotto casa sua c’era sempre parcheggiata qualche macchina con autista e antenna sul tetto. Qualcuno, ma questa è sempre farina del sacco di Maricchia, bisbigliava che se la facesse con qualche nome altolocato. Gente di Roma… Sa com’è, Roma fa sempre presa sulla fantasia della gente, soprattutto di quella che non c’è stata mai.
Vanina lo guardò ammirata.
– Ma me lo dice dove le ha trovate tutte queste informazioni?
– La famiglia Spanò ha i suoi informatori.
– Fidati?
– Ci può mettere la mano sul fuoco, dottoressa.
– Bravo, Spanò. Sempre elementi teorici sono, ma piú ne abbiamo meglio è.
L’ispettore annuí, compiaciuto.
– Almeno questo. Comunque, me ne manca ancora uno. Un informatore dei tempi andati. Uno che in genere sapeva cose grosse. È fuori, ma m’hanno assicurato che dovrebbe rientrare a Catania a giorni.
Altri giorni. Come se avessero davanti tutto il tempo che volevano. Che poi a pensarci non era neppure un fatto contestabile, data l’epoca del cadavere. C’era solo da augurarsi che nessun omicidio piú fresco si mettesse di mezzo a reclamare la sua attenzione.
Il commissario Patanè la richiamò sul fisso dell’ufficio. Mezz’ora dopo, praticamente all’ora di pranzo, era là.
– Ieri le telefonai in ufficio, ma non c’era. Mi passarono la poliziotta bionda… come si chiama?
– Bonazzoli.
– Ecco, lei. Volevo chiamarla al cellulare. Il numero me l’ero segnato l’altro giorno su un pizzino, ma non lo trovai piú. Tutte le tasche rivoltai. Niente. Me lo deve ridare.
Vanina gli allungò un biglietto da visita.
– Però se vuole un consiglio eviti di conservarselo in tasca.
– Certo… – disse Patanè, meccanicamente. Poi alzò la testa insospettito. – Ma perché me lo dice?
Vanina sorrise. – Niente, commissario. Stavo scherzando.
Il commissario capí lo stesso. E rise.
– Ragione ha! Ma che ci vuole fare, dottoressa Guarrasi, Angelina mia sempre cosí è stata.
– Angelina sua è adorabile, e lei invece di rientrare a casa per pranzo è venuto qui. Perciò sua moglie ha pure ragione.
– Torniamo alle cose serie, va’, – disse Patanè, tirando fuori dalla tasca un bloc-notes a quadretti modello lista della spesa, con copertina a brandelli e cartoncino di sotto scarabocchiato. – Ieri mattina mi misi di buzzo buono assieme a Iero per cercare di ricordare che cosa non ci quadrava di preciso quando avevamo iniziato a indagare sull’omicidio di Burrano. Lo sa com’è: due mezze memorie fanno una intera, uno ci vede e l’altro ci sente, qualche cosa riuscimmo a tirare fuori. Tanto piú che io il fascicolo ce l’avevo fresco fresco. Mi segnai tutto per non scordarmi i particolari.
– Mi racconti, commissario.
Patanè inforcò gli occhiali e attaccò: – Primo: la valigetta coi soldi sparita. Ovviamente sulla scena del crimine non ce n’era traccia, perciò non l’avremmo mai saputo. Se fosse stato Di Stefano a prenderla, perché avrebbe dovuto riferirci che esisteva? O inventarsela, come disse qualcuno? Secondo: il domestico disse che la sera dell’omicidio, prima dello sparo, aveva sentito trambusto, voci di persone. Iero mi ricordò che questa cosa ci aveva colpito. Nel fascicolo dev’esserci scritto, perché fu tra i primi interrogati. Persone, disse. Ora, se ci fosse stato solo Di Stefano, baccano non ne avrebbe sentito. Adesso noi sappiamo che quella sera doveva esserci anche Luna. Perciò la cosa si complica ancora di piú perché, stando alla versione ufficiale, Di Stefano avrebbe dovuto prima ammazzare Luna, nasconderla nel montacarichi e poi andare a sparare a Burrano, che nel frattempo se n’era stato buono buono ad aspettare alla scrivania. E alla fine avrebbe dovuto far sparire la pistola. Oppure al contrario, aveva sparato a Burrano, dopodiché aveva ammazzato la fimmina e l’aveva nascosta nel montacarichi. Ma cosí non coincidono i tempi con il racconto del domestico che disse di essere corso subito a vedere che succedeva e di essere arrivato nello studio assieme all’amministratore. E c’è un’altra cosa, dottoressa: il domestico non parlò mai di donne che vivevano in quella casa con Burrano. Perciò, se era vero che Luna era stata là per giorni, prima di scomparire, o questo tizio non diceva la verità, magari imbeccato dalla famiglia per non creare scandali, oppure per davvero non l’aveva mai conosciuta e quella sera era lí per caso. Giusto giusto quella sera.
Teresa Burrano, la prima volta che Vanina le aveva parlato, aveva glissato sull’argomento domestici, ma era assai improbabile che uno come Burrano vivesse in una casa senza servitú. Perciò aveva ragione Patanè: qualcuno aveva omesso qualcosa.
Tirò fuori il fascicolo Burrano e cercò tra le prime pagine.
Patanè allungò il collo per sbirciare.
– Quella dev’essere, – indicò, a un certo punto.
Eccola là, la testimonianza del domestico: mezza paginetta sgualcita cui in tutta sincerità non aveva fatto troppo caso, dato che ripeteva piú o meno le solite cose. L’unico fatto diverso era la testimonianza che Di Stefano era arrivato insieme a lui. Inutile, per gli inquirenti di allora, dato che secondo loro l’amministratore nel frattempo era andato a liberarsi della pistola e a nascondere i soldi.
– Demetrio Cunsolo, nato a Catania… nel 1934, – lesse. – Oh, ma lo sa che questo potrebbe essere ancora vivo?
Patanè drizzò la testa, punto nel vivo. – Dottoressa, la prego di ricordare che sta parlando con uno del 1933, vivo e vegeto. E che il mio amico Iero, che ci forní fior di informazioni, è nato nel ’27.
Vanina sorrise imbarazzata. – Mi scusi, commissario.
Chiamò la Bonazzoli, ma si presentò Nunnari.
– Dov’è Marta? – gli chiese.
– Sta parlando al telefono con un collega delle volanti. Pare che abbiano ammazzato una donna nel parcheggio davanti all’Hotel Nettuno.
Vanina alzò gli occhi.
– Ecchemminchia! – esclamò. Pareva che se la sentisse.
– Ma no, capo, mi sa che hanno già preso pure l’assassino.
– Come sarebbe, scusa?
In quel momento sopraggiunse Marta, piú infastidita che agitata.
– Vanina… Ah, perdonami! Ho dimenticato di riferirti che ieri il commissario Patanè ti aveva telefonato!
– Non preoccuparti. Com’è ’sta storia della donna uccisa?
– Ma una roba assurda! – disse Marta, scuotendo la testa. – Un tipo ha ucciso la moglie a colpi di cric perché litigavano su come sistemare le valigie nel baule dell’auto. La volante l’ha trovato lí, ancora con l’arma in mano, inebetito.
– Questa non m’è capitata mai, – commentò Patanè, strabiliato.
Vanina si rilassò. – Ah, vabbe’. Non capisco che bisogno ci fosse di chiamare noi, ma dato che ormai ci hanno coinvolti. Sbrigatela tu. E portati Lo Faro, cosí distraiamo l’attenzione della stampa.
– Ok, capo. Vado.
– E… Marta? – la richiamò.
– Dimmi.
– L’hai detto a Macchia?
– No… Cioè, l’ho detto a te, – fece l’ispettore.
– Ma io sto lavorando ad altro, in questo momento. Fai la cortesia: bussagli e diglielo tu.
Marta rimase ferma per un attimo, confusa. – Io?
– Sí, Marta. Tu, – Vanina le sorrise. – Non morde, stai tranquilla.
La ragazza schizzò verso la porta di fronte.
– Dev’essere timida, – commentò Patanè, a voce bassa.
Nunnari si perse con lo sguardo dietro di lei.
– Torniamo a noi, – lo riprese il vicequestore. Gli allungò un foglietto con i dati del domestico di Burrano e lo incaricò di cercarlo.
– Agli ordini, capo, – fece il sovrintendente, mano sulla fronte, prima di congedarsi.
– Certo che ha una squadra… – iniziò Patanè.
– Di esauriti uno peggio dell’altro, commissario, – lo anticipò Vanina. – Però sono bravi, sa? Non sembra, ma sono bravi.
– E poi ha Carmelo Spanò, – precisò il commissario.
– Che vale per tre.
Vanina sentí la voce di Macchia nel corridoio, segno che era uscito dalla sua stanza appresso alla Bonazzoli. Tempo due minuti e sarebbe arrivato da lei reclamando gli aggiornamenti, compreso, anzi soprattutto, l’abboccamento con Vassalli in procura.
– Senta, commissario, volevo chiederle una cortesia.
– Dica, dottoressa.
– Se la sentirebbe di fare un sopralluogo con me a villa Burrano, oggi pomeriggio?
Patanè rimase col fiato sospeso. Non aveva osato sperare tanto.
– Certo, dottoressa! Ma che domande… Ne sarei oltremodo lieto.
– Devo rientrare lí con calma e studiarmi la situazione.
In quel frangente Tito Macchia irruppe nella stanza.
– Il commissario Patanè!
Patanè fece per alzarsi, ma fu ricacciato subito sulla poltroncina dalla mano del gigante, che si sedette accanto a lui.
Vanina gli raccontò per sommi capi quello che non aveva concluso in procura, con una piccola digressione sulla serietà e la stimabilità di Eliana Recupero, con cui le dispiaceva non poter lavorare.
– Passa alla Sco, e vedrai quanto ci lavorerai, – la provocò Tito. Sco stava per Sezione criminalità organizzata. Capitava che il dirigente tentasse di traviarla verso quella direzione.
Gli rispose con un’occhiataccia e lo aggiornò su tutto il resto.
Il commissario ci mise un minuto buono ad abituarsi alla penombra, giusto il tempo che Vanina impiegò ad aprire le finestre.
Il vicequestore attraversò la sala da pranzo e andò dritta verso lo studio. Accese la luce e aprí le imposte anche lí.
Patanè rimase sulla soglia, turbato. Quella scena l’aveva perseguitato per talmente tanto tempo che gli pareva di essere entrato lí dentro centinaia di volte.
Se lo ricordava come fosse il giorno prima.
Vanina vagava per la stanza in cerca d’ispirazione. Aprí una seconda porta, dal lato opposto, e si trovò ai piedi delle scale.
– Qual è la stanza dove avete scoperto il montacarichi? – chiese Patanè.
Lo portò nel salottino al piano superiore.
– Commissario, – gli chiese, – nel rapporto della Scientifica di allora queste stanze non compaiono. Non furono controllate oppure non si trovò niente di rilevante?
– Erano chiuse a chiave. Le chiavi le trovarono dopo, addosso a Burrano. Iero buttò giú la porta principale con una spallata. Aprimmo tutti i cassetti e gli armadi. Ma non c’era niente, dottoressa. Stanze private sono, che con la scena del crimine non c’entravano.
– Anche ora pensa che non c’entrassero?
Patanè rifletté in silenzio.
– È possibile. D’altra parte il cadavere di Luna lo trovarono nella cucina, giusto? Non qui. Perciò il montacarichi in cucina doveva essere.
– Dunque secondo lei l’assassino ha agito solo giú al piano terra?
– Secondo me sí.
– E allora questa statua qui chi ce la portò? – replicò Vanina, indicando il mezzobusto di Burrano senior.
Patanè non le seppe rispondere.
Scesero in cucina. Un nastro bianco e rosso delimitava l’area dove avevano lavorato quelli della Scientifica.
– Sono riusciti a capire se per caso qua per terra c’era sangue? Lo sa, con quella mavaría che usano adesso, che se ci fosse stata all’epoca mia mi avrebbe risparmiato un sacco di tempo e fatica.
– Il Luminol, – rise. – La mavaría! No, non hanno trovato tracce né di sangue né di altri liquidi biologici. È pure vero che è passato un sacco di tempo, però, commissario. Dicono che il sangue resista, soprattutto le tracce, ma cinquant’anni sempre cinquant’anni sono.
– Va bene, ma facciamo un’ipotesi. Mettiamo che l’abbiano ammazzata da un’altra parte e poi l’abbiano nascosta qui.
– Anche se fosse, questo non cambia la sostanza delle cose.
Patanè iniziò a tossire per la polvere. Vanina andò di corsa ad aprire l’unica portafinestra, protetta da una cancellata di ferro. Il commissario si attaccò alla grata e respirò a pieni polmoni l’aria del giardino.
La parete che conteneva il montacarichi, di un metro di spessore, finiva proprio lí. Sul lato corto, ad altezza uomo, c’era uno sportello di legno dipinto di bianco.
– Dottoressa, ce l’abbiamo un paio di guanti? – fece Patanè.
Vanina tirò fuori un guanto di lattice, l’unico che aveva in borsa.
Il commissario lo indossò e aprí lo sportello, svelando un vano tecnico.
La parte inferiore era occupata da un marchingegno meccanico con una grossa manovella. Quella superiore conteneva una sorta di piccolo quadro elettrico antidiluviano, con una levetta abbassata al centro.
– Dottoressa, non vorrei sbagliarmi ma secondo me ’sta levetta azionava il montacarichi, – fece segno con il dito verso l’alto «in su» poi verso il basso «in giú». Mentre la manovella doveva essere il meccanismo piú vecchio, quello iniziale. All’epoca interruttori cosí se ne trovavano pochissimi, e ci voleva una ditta specializzata per montarli. A Catania erano sí e no due.
Alfio raccontava che suo zio aveva convertito tutti gli impianti della villa con la corrente elettrica. Era poco plausibile che avesse escluso solo il montacarichi.
L’idea le esplose in mente tutto d’un tratto.
– Commissario! – quasi gridò.
Patanè sobbalzò.
– Minchia, dottoressa… – fece, portandosi una mano sul petto. – Non è che mi deve fare pigliare un sintomo.
– Non tocchi la levetta, neppure con i guanti. Anzi, richiuda lo sportello.
– E che ero scemo! Qua, per come sono combinati i fili, cosa di restarci fulminati è.
Ma Vanina seguiva i suoi pensieri.
– Ammettiamo che la donna sia stata ammazzata da un’altra parte, – disse.
– E io che dissi?
Il vicequestore non lo ascoltava.
– Ragioniamo, commissario. Se Burrano si trovava nello studio con qualcuno, chiunque fosse, sicuramente la Cutò non era con lui. La cosa piú probabile è che si trovasse al piano superiore.
Patanè scosse l’indice guantato avanti e indietro, stringendo gli occhi, come per dare un ritmo alla sua riflessione. – L’hanno ammazzata e l’hanno nascosta nel montacarichi. Poi hanno chiuso la porta a chiave e sono scesi in cucina. Hanno azionato il montacarichi e l’hanno portato a piano terra, poi hanno chiuso l’apertura con la credenza. Dopodiché hanno preso la statua e l’hanno portata al piano di sopra, – disse, infervorato.
Vanina ponderò il ragionamento, poi scosse la testa.
– C’è un fatto che non torna, commissario.
– Quale?
– La sera dell’omicidio, la statua era ancora nello studio. Si ricorda? L’abbiamo notato insieme.
Patanè non si arrese.
– Potrebbero averla portata su in un secondo momento.
– Può darsi. Quindi doveva essere qualcuno che aveva facile accesso alla villa. E che sapeva come attivare il montacarichi.
– Dottoressa, diciamocelo chiaro, tanto lo stiamo pensando tutti e due. Glielo confermo, l’unica persona che aveva libero accesso alla villa era Teresa Burrano.
Vanina si scostò dalla portafinestra e passeggiò per la stanza.
– Suo marito la sta lasciando e se ne sta andando a Napoli con un’altra donna, da cui ha avuto perfino una figlia. Sta affidando tutto il patrimonio nelle mani del suo amministratore mezzo mafioso, con cui combina pure un affare bello grosso. Da quel momento Di Stefano gestirà ogni cosa, anche le rendite cospicue che Burrano le passa mensilmente. Oltretutto, ha redatto un testamento in cui lei, Teresa Regalbuto, è trattata alla pari con una prostituta e costretta a lasciare dopo la sua morte ogni cosa alla figlia di lei.
– E questo la Burrano come lo sa?
– Lo sa da Arturo Renna, suo grande amico, se non qualcosa di piú. Dopo la morte di Gaetano, lo convince a far sparire il documento. Il testamento è olografo, quindi non è registrato e perciò non ne resta traccia. Cosí lei eredita tutto.
– E il contratto?
– Stessa cosa. Capisce che per incastrare Di Stefano e riappropriarsi anche dell’affare piú grosso deve eliminare per prima cosa quel contratto. Cosí tutto diventa piú facile. È la sua testimonianza contro quella di Di Stefano, per tutti. Anche per gli altri che le dànno man forte, tipo il cognato e il notaio. E se dietro Di Stefano ci sono gli Zinna, dietro Teresa Regalbuto c’è tutto il mondo. La gente che conta, e che comanda.
– Ovviamente deve eliminare anche la povera Luna. La ammazza e la nasconde nel montacarichi, – concluse Patanè.
Vanina annuí.
– C’è solo una cosa che non mi convince fino in fondo.
– Che cosa?
– Che Teresa Burrano non avrebbe mai seppellito Maria Cutò con una cassetta di sicurezza piena di soldi.
– E questo non va.
– No, non va.
– Ci dobbiamo riflettere, se no il ragionamento ce lo facciamo fritto.
– Sí, ci dobbiamo riflettere. Ma tanto in questo momento il ragionamento ce lo facciamo fritto lo stesso, e lo sa perché? Perché non abbiamo niente che lo provi. E Teresa Regalbuto in questi cinquant’anni è diventata ancora piú potente di prima. Non so se mi spiegai, commissario.
– Si spiegò benissimo, dottoressa. Ora capisco perché l’indagine me la levarono di mano appena iniziai a dubitare della colpevolezza di Di Stefano. E capisco anche quello che lei raccontava prima al suo dirigente, il fatto di stamattina in procura. Ecco perché mi ha chiesto di venire qui: deve trovare una prova, e crede che io possa aiutarla. Spero di essere in grado, dottoressa Guarrasi. Lo spero sia per lei, sia per me.
Vanina lo guardò negli occhi. Sentí che di lui si poteva fidare al cento per cento e decise di condividere anche l’ultimo dettaglio, quello che le aveva riferito Alfio la sera prima.
– Perciò qualche cosa qua dentro ci dev’essere. Potrebbe essere macari la pistola stessa. La questione è scoprire dov’è, – disse Patanè, uscendo dalla villa.
– Comunque, un passo avanti oggi l’abbiamo fatto, – concluse Vanina, riattaccando i sigilli.
– Cioè?
– La levetta del montacarichi è di metallo liscio ed è chiusa dal coperchio di plastica. Lo sa questo cosa vuol dire, commissario? Che l’impronta digitale dell’ultima persona che l’ha azionata potrebbe essersi conservata ancora lí. Se siamo fortunati, se è andata come pensiamo noi, è l’impronta dell’assassino. E noi qualcosa su cui recuperare le impronte della Burrano ce l’abbiamo. Il pm non lo sa, ma ce l’abbiamo. Senza contare che abbiamo il Dna estratto dalla tazzina.
Patanè la guardò, sul principio senza capire. Poi sorrise.
– Ma quanto tempo avrei risparmiato con tutte ’ste mavaríe, eh? Quanto?